
Un convegno, quello padovano, che non si è limitato alla celebrazione ma, grazie all’autorevolezza dei relatori (Filippo Focardi, Mario Isnenghi, Maurizio Malo, Marta Mezzo, Paolo Papotti, Floriana Rizzetto, Giulia Simone) e all’approccio critico dei rispettivi interventi, ha sollevato diverse questioni, facendo luce da più angolazioni sui temi e sugli interrogativi posti da un episodio rimasto a lungo ai margini della ricerca storica e della memoria pubblica (lo sottolineava Alessandro Galante Garrone in uno scritto del 1986) e invece – lo ha ricordato nelle sue conclusioni il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo – meritevole di essere riportato all’attenzione degli studiosi e della collettività, proprio per le sue numerose implicazioni e per le riflessioni sul passato e sul presente che ne derivano.

Basti pensare, per quello che riguarda il presente, a un fenomeno già latente nelle società più sviluppate e fortemente amplificato dalla pandemia: la crescita nella società civile di correnti, minoritarie ma attive, che guardano con diffidenza, quando non con timore, alla cultura, ai saperi, alle competenze, e a coloro che ne sono portatori.

Ci sono dunque non poche ragioni per rispondere positivamente all’appello di Alessandro Galante Garrone, e per non far cadere l’oblio su una vicenda che ancora oggi fa luce sul passato e interroga il presente. A novant’anni di distanza, il rifiuto del giuramento di fedeltà al regime fascista da parte di un pugno di educatori appare rilevante soprattutto per il suo significato morale. Fu, come si è detto, un gesto di resistenza attuato nella forma della disobbedienza civile, nel senso pieno del termine, poiché il disobbediente civile non è soltanto colui che non si piega all’imposizione di un obbligo che ritiene ingiusto, ma lo fa senza sottrarsi alle conseguenze del suo gesto (in questo caso la perdita della cattedra e, e per qualcuno, l’indigenza) pur di mobilitare le coscienze dei contemporanei e dei posteri.
Partendo da questa constatazione, si può provare a considerare il rifiuto del giuramento al regime come un gesto “bifronte”, che mostra un volto rivolto al passato e un volto rivolto al futuro.

Dei molti che lo sottoscrissero, solo pochissimi, sei anni più tardi, rifiutarono il giuramento di fedeltà (tra essi, Francesco Ruffini, Giorgio Levi Della Vida e Gaetano De Sanctis): ma in molte delle argomentazioni addotte in tale occasione, risuonava l’eco di quel manifesto, specie laddove si sottolineava il diritto dall’intellettuale a gettare uno sguardo critico sulla vita pubblica e anche, se del caso, di appartarsi da essa, o si rivendicava una libertà negativa, nel senso dell’obbligo del potere politico di astenersi dall’interferire nello svolgimento della vita culturale. E per questa via, si esprimeva anche un’aristocratica presa di distanza dalle contaminazioni con la società di massa e con i suoi apparati di propaganda e di costruzione del consenso, oltre che di trasmissione del sapere: vere e proprie macchine che il fascismo al potere aveva mostrato di padroneggiare con una abilità ignota alla vecchia classe dirigente liberale e al ceto intellettuale che si era formato con essa.

Il futuro: nel 1931, anno dell’introduzione della formula del giuramento di fedeltà al fascismo, la situazione presentava anche altri aspetti. Reduce da due successi, il Concordato e il plebiscito, entrambi del 1929, il regime si apprestava a perfezionare la macchina totalitaria, e l’organizzazione della cultura rappresentava un terreno privilegiato per la sperimentazione di politiche di riordino e di disciplinamento, realizzate anche con la creazione di nuovi organismi (il Cnr, l’Accademia d’Italia, l’Enciclopedia Treccani) e la messa a disposizione di ingenti risorse, che rendevano particolarmente appetibili per i singoli gli incarichi e le prebende erogate.

In questo contesto, il rifiuto di entrare a fare parte di questa macchina di costruzione del consenso assumeva un significato particolare, di rigetto del ralliement imposto dal regime e della riduzione del sapere al rango di instrumentum regni e degli intellettuali al rango di esecutori di politiche che, anche laddove dove vigeva una apparente tolleranza (come da parte di alcuni storici si è sostenuto per l’Enciclopedia italiana guidata da Giovanni Gentile), erano concordemente finalizzate a neutralizzare il dissenso e metterlo a tacere e non certo a conferirgli una pur ridotta legittimazione.
Al centro del discorso, ancora una volta – lo ha ricordato il presidente nazionale Anpi nelle già citate conclusioni al convegno di Padova – la vicenda delle foibe e la pazzesca equiparazione di quest’ultima alla Shoah, con il sottointeso intento di banalizzare la storia del 900, riducendo il secondo conflitto mondiale a una sequenza di crimini la cui responsabilità viene equamente divisa tra nazifascismo e comunismo, in una macabra compensazione contabile delle morti, che annulla le differenze tra vittime e carnefici, tra aggrediti e aggressori, tra i combattenti per la libertà e i fautori della tirannide.

Ma la pretesa della destra di dettare una verità storica di Stato non è l’unica minaccia che grava sulla libertà della ricerca e dell’insegnamento, e alle insidie provenienti dal mondo della politica se ne aggiungono altre, provenienti invece dalla società civile: qui il discorso si fa più articolato, e parte dalla constatazione che la vicenda pandemica ha complicato ulteriormente i già difficili rapporti tra politica e conoscenza, soprattutto se si considera che alcune decisioni di carattere politico sono state di fatto trasferite dagli organi rappresentativi a organi tecnici, ovvero a collegi formati da soggetti legittimati non dal voto popolare, ma dal possesso di determinate competenze. Se si associa questo dato all’altro della verticalizzazione del potere politico e del potere esecutivo (e all’interno di esso del Presidente del Consiglio) sul potere legislativo, è comprensibile che agli occhi dell’opinione pubblica possa sembrare inevitabile una degenerazione elitaria e verticistica del quadro istituzionale.

D’altra parte, è appena il caso di richiamare l’elevato tasso di astensionismo che ha caratterizzato l’ultima tornata elettorale amministrativa, come spia di una crisi della rappresentanza che concorre ad ampliare il divario tra cittadini e istituzioni, alimentato da diseguaglianze sempre più marcate e dall’estensione dell’area del disagio sociale e della povertà.

In questi contesti di degrado della vita pubblica, allignano minacce alla libertà di insegnamento e di ricerca non meno insidiose di quelle sopra richiamate: la sensazione di una deriva oligarchica della vita pubblica e di una saldatura tra gruppi di vertice delle istituzioni e élites tecnico-scientifiche può dare vita a una reazione dell’opinione pubblica ancora più ampia di quella che si registra oggi con l’attivismo dei movimenti no vax. E questa eventualità, chiama in causa sia la responsabilità della politica e delle istituzioni, sia quella del mondo della scienza: alla politica spetta infatti il compito di rendere quanto più possibile aperta e trasparente la discussione pubblica sulle scelte e sulle decisioni – alcune obiettivamente dolorose, altre obiettivamente restrittive – adottate per fare fronte a una crisi dai caratteri inusitati; al mondo della scienza compete il dovere di fare il possibile affinché le motivazioni obiettive poste alla base di quelle scelte siano quanto più possibile chiare e trasparenti e messe a disposizione di un pubblico quanto più possibile ampio, facendo spazio all’argomentazione razionale e discorsiva per contrastare la retorica dell’emotività.

In assenza di un impegno di trasparenza e di pubblicità da parte delle istituzioni, la contestazione delle opacità e delle zone d’ombra del funzionamento del potere pubblico, di per sé un elemento di crescita della coscienza civile, può degenerare, come in parte sta avvenendo, in una denuncia priva di obiettivi concreti e genericamente rivolta alla contestazione delle basi di legittimità della democrazia costituzionale: è il caso, per l’appunto, dei movimenti no vax che hanno fatto di una serie di postulati antiscientifici (sulla pericolosità dei quali ha richiamato più volte l’attenzione il Capo dello Stato) il presupposto ideologico per promuovere un’idea di cittadinanza esasperatamente individualista ed estranea a qualsiasi idea di solidarietà, idea diffusa a piene mani dai gruppi neofascisti proprio in quanto giustifica e anzi incoraggia lo scontro frontale volto a colpire il tessuto democratico del Paese, emblematicamente rappresentato dall’assalto alla sede della Cgil e dalla contestuale invasione violenta dei locali del Policlinico di Roma.
Oggi più che mai è invece necessario che la democrazia e le istituzioni repubblicane riacquistino senso e valore agli occhi della maggioranza della popolazione. Per realizzare questo obiettivo e con esso un’idea di cittadinanza rispondente al dettato costituzionale, è indispensabile dare vita a un processo di democratizzazione del sapere, di allargamento non solo delle conoscenze in se stesse, ma della loro disponibilità da parte di settori sempre più ampi della popolazione. E in questa prospettiva, il sistema della formazione assume una valenza strategica e irrinunciabile.

Le politiche neoliberiste hanno egemonizzato il panorama di questi anni e segnato gli squilibri e le antinomie della globalizzazione, condizionando il passaggio dalla società della produzione alla società della conoscenza in termini oligarchici, con la crescente concentrazione dei saperi e della ricchezza in poche mani e con l’esclusione di interi pezzi della società globale dalla fruizione degli strumenti capaci di accrescere i loro livelli di sapere e di competenze. Nel campo dell’istruzione, l’affermazione del primato del mercato e delle sue logiche ha costituito un’ulteriore grave minaccia alla libertà della ricerca e dell’insegnamento, ne ha insidiato i presupposti materiali e ha promosso una visione asfittica del processo formativo, ispirato a un modello utilitaristico, che non guarda alla formazione globale dei cittadini ma alla trasmissione di competenze limitate ma spendibili su un mercato del lavoro, a sua volta sempre più gravato dalla precarietà e dall’insicurezza.

L’Università italiana ha pagato prezzi pesanti al pensiero unico neo liberista: a partire alla fine del primo decennio del secolo l’università riformata dal governo Berlusconi (legge Gelmini) – sulla scia della quale, peraltro si sono mossi anche i governi di differente ispirazione politica – ha subito una drastica riduzione delle risorse pubbliche disponibili, con tagli massicci al Fondo di finanziamento ordinario dell’istruzione superiore. Il raffronto con i Paesi Ocse e con i partner europei è impietoso, per quanto riguarda la spesa pro capite per gli studenti e per il numero dei laureati che, malgrado qualche passo in avanti negli ultimi anni, resta drammaticamente inferiore a quello di altri Paesi e soprattutto al fabbisogno di personale qualificato in tutti gli ambiti di attività.
Il taglio draconiano della spesa pubblica, che insidia fortemente l’autonomia delle università, ha comportato la riduzione del numero dei docenti, la presenza sempre più pervasiva e condizionante dell’investimento privato (utile e auspicabile solo se assoggettato a regole e limitazioni precise), l’incremento della tassazione studentesca, mentre le misure per il diritto allo studio restano estremamente modeste. Molte famiglie, alle prese con le difficoltà economiche aggravatesi a partire dalla crisi del 2008, hanno rinunciato all’istruzione universitaria per i figli, come dimostra la flessione delle immatricolazioni, che interessa soprattutto i diplomati degli istituti tecnici e professionali, provenienti dalle famiglie dal reddito più basso, molte delle quali nel Mezzogiorno.

Non si può tacere infine dei rischi che derivano dai social network, gestiti da multinazionali che possono vantare un fatturato superiore al Pil di molti Stati.


Non sono dunque poche le minacce attuali alla libertà della ricerca e dell’insegnamento: soprattutto, oggi più che in passato, si ha a che fare con nemici tanto più insidiosi in quanto meno visibili. E a maggior ragione conserva tutta la sua validità l’insegnamento che si può trarre dal gesto dei dodici docenti universitari che, dicendo no alle pretese totalitarie del regime, tracciarono la via di una resistenza civile all’oppressione. Nel quadro di un impegno costante per la piena attuazione della Costituzione repubblicana, la rivendicazione della libertà della ricerca e dell’insegnamento permane pertanto come elemento portante per la formazione della coscienza democratica del Paese.
Una battaglia civile per la democratizzazione della cultura, soprattutto nel contesto della crisi pandemica, può concorrere alla ricostruzione di un tessuto sociale e morale che mesi di pur necessarie restrizioni e di isolamento hanno senza dubbio concorso a logorare. E in tempi difficili come quelli che si stanno attraversando, non è certo cosa da poco cominciare a pensare che il benessere collettivo è fatto anche di scolarizzazione, di diffusione della conoscenza, di valorizzazione delle competenze e di tutti quei beni che non si misurano solo in punti percentuali di Pil, ma in termini di civismo, socialità, partecipazione e solidarietà.
Pubblicato mercoledì 22 Dicembre 2021
Stampato il 11/12/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/la-lezione-dei-12-disobbedienti-al-tempo-doggi/