Copre l’arco temporale di quasi un ventennio, l’ultimo romanzo di Giuseppina Torregrossa, Al contrario (Feltrinelli), dal 1927 agli anni del secondo conflitto mondiale. Lo si potrebbe pensare il ritratto di una comunità, quella di Malavacata (piccola Macondo siciliana), che fa i conti con la parabola del fascismo, con gli innesti ideologici che, in fondo, non spostano di una virgola gli ancestrali rapporti di sudditanza, con le penurie dell’autarchia prima e della guerra dopo. Ma non è solo questo. L’arrivo a Malavacata dell’irrequieto e spigoloso dottor Giustino Salonia interrompe un flusso, o meglio, aiuta a costruire tra gli abitanti del paesino e la natura un nuovo assetto, non più basato su rassegnate attese e superstizioni ma sulla possibilità di intervento dell’uomo (attraverso la razionalità scientifica, la medicina, il progresso). Così il ventennio di Al contrario, oltre a viaggiare parallelo a quello, triste, di Mussolini, costruisce sotto traccia la possibilità di un mondo alternativo: prima attorno all’ambulatorio di Giustino che, pur tra diffidenza e strascichi di maschilismo, inizia a smantellare le disillusioni della miope cocciutaggine contadina, poi con l’avanzata ‘in prima linea’ delle donne, chiamate a gestire il paese in assenza degli uomini partiti per la guerra. E saranno proprio le donne a costruire, ancora una volta ‘al contrario’, un mondo nuovo.
Giuseppina Torregrossa, innanzitutto cerchiamo di capire da dove nasce l’idea seminale di Al contrario?
Ho trascorso l’infanzia in un piccolo paese agricolo dell’entroterra siciliano. Mio nonno, medico appassionato, ha curato l’intera comunità per oltre settanta anni. Arrivato lì in pieno fascismo il nonno è stato il centro delle vicende del paese. Ha composto liti, sedato faide, curato gli ammalati. È intervenuto nella vita politica e privata dei paesani. Ho amato molto, ricambiata, questo mio nonno ruvido. Un anno prima che scoppiasse la pandemia ho cominciato a scrivere di lui e del suo/mio Macondo, focalizzando l’attenzione sulle malattie, indicatori fedeli dello sviluppo di una società. I fatti narrati sono ovviamente frutto della mia fantasia, mio nonno parlava poco e raccontava ancora meno, ma i sentimenti, le atmosfere, i paesaggi sono autentici.
Partiamo dal protagonista, o meglio, il protagonista della prima parte del romanzo, il medico Giustino Salonia. Nelle righe iniziali scrive che per Giustino l’arrivo a Malavacata si rivela una fregatura. Perché?
Giustino Salonia era un sofisticato assistente universitario, un apprezzato oculista che lavorava con soddisfazione al policlinico universitario di Palermo, città elegante, densa di teatri, caffè, eventi mondani. Ma non guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia, perciò si trasferì a Malavacata, inseguendo il miraggio dello stipendio fisso. Appena arrivato il dottore scoprì che il paese era arretrato oltre ogni aspettativa. Mancavano le strade, le fogne, la luce. Animali e uomini vivevano in condizioni di promiscuità, con terribili conseguenze sulla salute. Giustino era un bravo medico, ma la sua perizia non bastava, ci voleva ben altro per curare le malattie. Il problema era politico, ma gli amministratori nicchiavano. Il progresso era un’illusione e lui si trovò a combattere malattie come malaria, tracoma, polmoniti, tifo con armi spuntate.
Sono anni in cui, potenzialmente, l’umanità avvicina, a grandi passi, altri progressi, in campo scientifico, sociale, culturale. C’è a Malavacata, un conflitto tra progresso e fascismo?
Il fascismo a Malavacata era rappresentato dal cattivissimo don Ettore, ricco proprietario terriero, che affamava i contadini; incarnazione del più bieco patriarcato, don Ettore violentava le donne; prepotente federale sceglieva il sindaco del paese, che poi lo sosteneva nelle sue malefatte, come quella di impadronirsi delle terre comuni e delle cave di pietre, imponendo poi dazi e balzelli. Si opponevano al federale la Lega del soccorso capeggiata da un ambiguo avvocato di fede socialista. Il conflitto era apparentemente politico, ché in realtà l’avvocato aveva ragioni personali per osteggiare don Ettore e denunciarlo al tribunale, che lo condannerà, nonostanteil suo potere a pagare un risarcimento salatissimo allo stesso comune di Malavacata. Il progresso fa fatica ad arrivare, ché Malavacata è del tutto chiusa in una vallata e circondata da un territorio che altri hanno definito “irredimibile”; e quando questo arriva ha i toni roboanti del fascismo che impone i grani ibridi e le coltivazioni intensive, impoverendo la terra e creando danni all’ambiente: scompaiono in quel periodo i mandorli, gli alberi da frutta. Solo Adelasio, il capostazione, aveva sentore dei grandi cambiamenti che avvenivano altrove. Era il treno ad annunciarli e lui li raccontava poi in un sussurro al dottore Giustino Salonia che, a dispetto della sua fede socialista, subiva le fascinazioni del fascismo. Ci vorrà una guerra perché la gente di Malavacata possa partecipare dei cambiamenti del mondo.
Veniamo alle donne: in Al contrario sono moltissime e ognuna gioca un ruolo importante nella vicenda.
Le donne di Malavacata sono vittime due volte: del patriarcato e del fascismo. Ma allo scoppio della guerra, quando gli uomini vengono richiamati, diventano protagoniste. C’è Gilda, la saggia moglie del dottore, capace di organizzare la vita della comunità. C’è donna Rusina, esattrice delle tasse, che sceglie saggiamente chi tassare e chi no. C’è la “Santa” che infonde speranza e fiducia a chi non ha notizie dei propri cari; e Primarosa, la servetta che si ammazza di lavoro perché i figli possano avere una vita migliore della sua. E tante altre ancora, un universo variopinto, come un mazzo di fiori di campo, di femmine libere finalmente di alzare la testa, guardare il cielo e scoprirne il colore azzurro intenso.
Quello di Gilda e Giustino è solo uno dei tanti matrimoni senza amore che un tempo venivano celebrati e conservati fino alla morte?
L’amore in quel periodo storico e a quelle latitudini era un lusso e si pagava a caro prezzo. Gilda e Giustino vivevano una relazione difficile nella quale entrambi erano intrappolati. La società non permetteva vie di fuga, e la famiglia non doveva essere messa in discussione. Credo che i rapporti privati, come quelli pubblici, fossero governati da leggi economiche. Giustino cercava appagamento in relazioni extraconiugali, adeguandosi alle consuetudini del tempo; mentre Gemma, che coltivava il sogno segreto di un amore, proverà a viverlo quell’amore, riappropriandosi del corpo, di cui per molto tempo ha ignorato le necessità, e lasciando esplodere la sua femminilità a lungo negata.
Oh sì! Lo asserisce con forza Mimì Frangipane, detto Mimì stallatico, un piccolissimo proprietario terriero che cura il suo podere con immenso amore. E mentre tutta l’Italia si adegua alle coltivazioni intensive, lui fa le rotazioni delle colture, perché “La terra è fimmina e va rispettata”. Anche le donne, dice Mimì, non possono figliare ogni anno, perché morirebbero di parto e i loro figli di stenti, così la terra ogni due tre anni deve riposare, altrimenti esaurisce le proprie risorse. E mentre i feudatari corrono a convertire le loro coltivazioni, sfruttando gli incentivi statali, lui fa il maggese e semina legumi, anche se poi gli tocca mangiare ceci e lenticchie per un anno.
Con l’inizio della guerra, si apre il tempo delle donne. È un tempo migliore?
Se la donna riuscisse ad accogliere le istanze più profonde del proprio essere, certamente riuscirebbe dove l’uomo di solito fallisce. La donna ha nelle viscere un progetto e questo progetto si chiama vita. Non ha vocazione distruttiva quindi, ma al contrario reca in se il germe del futuro. Può perciò la donna aspirare alla guerra?
Al contrario è un romanzo maieutico: spinge, per così dire, le mani nel ventre di un’umanità depressa per trarne la cognizione del dolore (lo dice anche Hikmet, citato in esergo) e da lì un rinnovato rispetto e amore per la vita stessa. Che ruolo hanno le donne in questo meccanismo?
Le donne hanno un ruolo educativo e, al netto della finzione narrativa, hanno la responsabilità di condurre la comunità in un percorso di crescita. Allora come oggi nulla è cambiato, abbiamo il compito di traghettare i nostri figli verso una cultura della parità e della collaborazione tra esseri umani. Il dolore è solo un momento di rivelazione che aggiunge forza al progetto.
Quando la guerra precipita nel caos e giunge il fatidico autunno del 1943, Giustino torna. Ma il suo è un ritorno incompleto. Il tempo delle donne sfuma in qualcos’altro, come ci fa intuire Nennella, la figlia di Giustino, quando spia, non veduta, il padre? Sta arrivando, come dice lei, “il tempo degli scemi”?
Il tempo degli scemi, ahimè, è oggi sotto gli occhi di tutti. Nel ’43, alla fine della guerra in Sicilia, c’era speranza e fiducia. Gli uomini tornavano a casa con l’idea di riprendere da dove avevano lasciato. Ma dopo una guerra, un cataclisma, una pandemia, le cose devono cambiare per forza e al cambiamento non ci si può opporre. Era stupido e inutile pensare di ricominciare come se nulla fosse accaduto. Nennella, inascoltata Cassandra, presagì la portata di certi fallimenti prossimi venturi. La storia quindi continuerà e continuerà quella di Primarosa, Gilda, Giustino, Nennella, Giacomina e di tanti altri. Malavacata si svuoterà, le campagne saranno abbandonate e i contadini raggiungeranno il nord e cercheranno nel lavoro in fabbrica un benessere che si rivelerà la cocente delusione del Novecento. Appunto sarà il tempo degli scemi che nel mio romanzo è solamente annunciato. Lo ritroverete narrato in un altro volume “sottosopra”…
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 7 Novembre 2021
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