I vecchi film che hanno per oggetto la Resistenza conservano tutto l’aroma di eventi eccezionali. Benché datati, ci permettono di riscoprire il senso della storia e assaporare lo spirito perduto della speranza e della vittoria. Vi ritroveremo lo slancio e l’altruismo di una generazione spinta per scelta o per necessità ai più duri sacrifici. Una generazione non domata dal fascismo, disponibile ad offrirsi per un nuovo mondo. Questo percorso di sequenze – per chi vive in un panorama completamente inquinato nei suoi modelli sociali quale è oggi – non è quindi solo un ripasso storico ma uno stimolo al confronto.
Rileggiamo in queste storie gli avvenimenti cruciali culminati nel 25 aprile del 1945 con la sconfitta del fascismo e la cacciata dei nazisti dal nostro Paese. La fiducia e la volontà di cambiare dei giovani suona sullo sfondo come una intuizione della vittoria finale. Senza di essa il movimento di liberazione non avrebbe trovato la forza e il sostegno in una lotta cruenta in cui era in gioco la vita contro forze nemiche ben più attrezzate militarmente.
Quegli ideali altruistici familiari e patriottici sono anche quelli che rintracciamo nei messaggi lunghi o brevi, semplici o ragionati, delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”.
GIORNI DI GLORIA (1945, Mario Serandrei, Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Luchino Visconti)
Troviamo in Giorni di gloria, l’immediatezza gestuale dell’epoca colta dal vivo. Spezzoni di vita partigiana in montagna, riprese di uomini arrampicati su ripide chine, di salite, di azioni di sabotaggio, di scontri. Fotogrammi di staffette che portano ordini. Le rovine delle città bombardate, le impiccagioni e fucilazioni perpetrate dai nazisti. I dettagli sono significativi. Anche le scritte del regime in questo contesto di sfacelo nazionale acquistano un tragico sapore di umor nero: “Noi tireremo diritto”, “Molti nemici molto onore”.
Una tipografia, un tipografo, un torchio. Le testate dei giornali clandestini stampati in segreto, per cui si rischia la vita. Si tratta di una gloria vera, quotidiana, senza trombe e fanfare, quella di quei giorni speciali. Il film può considerarsi un capostipite della cinematografia resistenziale. Girato da operatori professionali o improvvisati e da registi come Marcello Pagliero e Luchino Visconti, fu coordinato da Giuseppe De Santis e Mario Serandrei, montato da quest’ultimo e da Carlo Alberto Chiesa. È un documento di preziosa autenticità per la sua tensione ideale e per le immagini di realtà storica che offre. Vi scorrono tutte le tappe di rivolta civile e nazionale per la democrazia che ripulirono l’identità dell’Italia. Accanto ai combattenti, c’è l’appoggio di operai, contadini, donne, gente qualunque, che aiuta, sostiene, nasconde, rifocilla, cura. Riviviamo anche le fasi dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine, nelle riprese di Pagliero e di Visconti, che ha il suo culmine nella esumazione delle salme dei 335 trucidati. L’obbiettivo neorealista di Visconti ci offre anche le immagini del dopo, il processo a Pietro Caruso, responsabile di molti misfatti tra cui proprio quello della scelta degli ostaggi destinati alle Fosse Ardeatine. Vediamo le esplosioni d’ira della folla, la fucilazione dei colpevoli. Vi sono anche i momenti di festa della Liberazione e l’inizio di ricostruzione di un Paese distrutto.
Osserviamo nelle città del nord Italia, il nemico che si arrende, i tedeschi che rivalicano le Alpi. A Milano sfilano acclamati, i soldati senza divisa.
Quelle strette di mano, quella felicità inesprimibile a parole, quella illusione sul futuro sospesa in centinaia di volti ci fa meditare sui corsi e i ricorsi della Storia.
https://www.youtube.com/watch?v=3EiwkxNw0zo
(“Giorni di gloria” da https://www.youtube.com/watch?v=3EiwkxNw0zo)
PAISÀ (1945, Rossellini)
Nei sei episodi sulla cacciata dei nazisti dall’Italia, messi a fuoco da Roberto Rossellini, ci appaiono i vari volti della guerra in atto nelle varie regioni italiane e il prezzo umano della vittoria. Ci imbattiamo poi nelle prime inquietudini del dopoguerra, viste dall’occhio estraneo di inglesi ed americani. Incontriamo i sacrifici delle donne vittime indifese dei conflitti. Carmela, ragazza siciliana umile, coraggiosa e misconosciuta, rappresenta le tante donne cadute per la liberazione del Paese e rimaste senza nome. Francesca, ragazza ingenua e romantica in una Roma festante che accoglie le jeep americane dei “liberatori” diviene una vittima del degrado postbellico. Dalle illusioni esistenziali passa alla prostituzione e viene rifiutata dall’innamorato straniero che simboleggia l’insensibilità e l’egoismo maschile.
Il militare nero in servizio a Napoli liberata non è tanto diverso per condizione dallo scugnizzo che prima gli lustra le scarpe, poi gliele ruba. Il parallelo fra negritudine e infanzia abbandonata è efficace. John, alticcio, confessa il suo sogno. Tornerà in patria accolto con tutti gli onori. Ma si risveglia sconsolato, ricordandosi che lo attende un tugurio. Ecco perché non riesce a punire il piccolo ladro.
Nel quarto e nel sesto episodio, siamo nel pieno della guerra. A Firenze, nell’agosto del ’44, all’alba della Liberazione, ancora si combatte. Gli uomini cercano le mogli, i figli e viceversa. I partigiani combattono per le strade. I cecchini fascisti sparano appostati sui tetti. Gli inglesi, per risparmiare le forze, ritardano il loro ingresso decisivo. La morte è vista da vicino, con le ultime parole sconnesse di un moribondo. Assistiamo ai minuti estremi dei combattenti. Ora si è vivi, un minuto dopo si muore. Una giovane infermiera inglese spera di ritrovare il suo fidanzato, ha fatto un lungo viaggio per rivederlo e viene a sapere che è caduto.
Nel paesaggio orizzontale delle valli di Comacchio, luogo dell’ultimo racconto, si trovano le sequenze più incisive ed espressive di tutto il film. L’atmosfera di guerra si condensa nell’apparente tranquillità palustre, solitaria ed enigmatica, che cessa d’improvviso per il rumore di un barcone a motore o il fruscio delle canne smosse dai leggeri barchini dei pescatori. In quei meandri è in atto una muta caccia all’uomo. I tedeschi tentano di snidare dai loro silenziosi rifugi i resistenti e alcuni ufficiali alleati di collegamento. La scena della rappresaglia è di macabra intensità. Una famiglia di guardiani giace sul posto trucidata. Un bimbo piange. Ed è difficile sottrarsi all’emozione della lugubre esecuzione finale. Sono le prime luci dell’alba. Di fronte alla baracca Pancirli, sul barcone, un tedesco conta ad uno ad uno i prigionieri italiani considerati fuorilegge. Hanno mani e piedi legati. I corpi vengono spinti in acqua uno dopo l’altro, fra le proteste dell’inglese. Quattro tonfi sordi. E tutto ciò accade nel Natale del ’44, dice la didascalia. Quattro mesi dopo la guerra era finita.
Nel penultimo episodio Rossellini si diverte a smascherare l’antisemitismo tradizionale della Chiesa di Roma. Tre cappellani americani, un cattolico, un protestante e un ebreo, arrivano in un tranquillo monastero francescano sull’Appennino tosco-emiliano. I frati sono uomini semplici che vivono in armonia con la popolazione vicina e coltivano il loro orto. Ma quando apprendono che sotto il loro tetto c’è un “giudeo”, sono presi dal panico. Il padre guardiano li tranquillizza. Bisogna aver fiducia. Forse avverrà una conversione operata dalla divina provvidenza. Il colloquio tra il religioso americano e il superiore del convento è molto sottile e introduce la sanatoria di una religiosità universale e ragionata.
LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI (1962, Nanni Loy)
A Napoli la speranza è tutta nella risolutezza popolare. A tanti anni di distanza, la dinamica della rivolta spontanea costituisce l’intreccio stesso di un film che trascina ancora.
Il malumore montante della gente di Napoli, vessata da una guerra non sentita, dai bombardamenti, dalle privazioni, dalla fame, pur frammentato in personaggi anonimi, battute, fotogrammi, fa la forza del racconto. La risposta esasperata dei napoletani contro gli occupanti dopo l’8 settembre del ’43 è la voce di una città intera con le sue donne e i suoi bambini, con i giovani e con i vecchi, e non solo popolani.
Il film offre immagini incalzanti e concentrate, momenti tratti dalla cronaca, o ricostruiti simbolicamente in tappe esemplari, dalla processione iniziale, alla notizia dell’armistizio, alla battaglia tra i vicoli e all’uscita finale dei tedeschi dalla città. Il passaparola delle donne di casa in casa che annuncia i rastrellamenti è vivo, parlante. Nei meandri delle viuzze, al passaggio dei tedeschi, piovono dalle finestre oggetti di ogni genere, tavoli, specchi, masserizie. Si combatte, si muore. Contro i cecchini fascisti, contro i carri armati e le autoblinde.
Rilevante quella tensione di massa che culmina, e improvvisamente si placa, nella sequenza finale. Gli invasori, dopo aver patteggiato col colonnello tedesco Scholl il ritiro, in cambio della vita degli ostaggi, issano la bandiera bianca e sfilano via sugli automezzi, sconfitti da quella città che avrebbero voluto ridurre “fango e cenere”. Napoli ha vinto.
Nanni Loy presenta il film (da http://www.dailymotion.com/video/x1a4mb1_nanni-loy-presenta-il-suo-ultimo-film-le-4-giornate-di-napoli_shortfilms)
ROMA CITTÀ APERTA (1945, Roberto Rossellini)
In questo film neorealista e insieme simbolico, che non ci stancheremo di rivedere, spiccano figure autentiche e dialoghi che ci riportano direttamente ad anni e luoghi ben noti, il ’44, via Tasso, Forte Bravetta. Vi sono protagonisti indimenticabili come Pina, la casalinga romana, il sacerdote don Pietro e il comunista Manfredi, sostenuti dalle interpretazioni di Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Marcello Pagliero. Pina, la popolana che s’ispira a Teresa Gullace, icona della Resistenza, trucidata dai nazisti in viale Giulio Cesare, riassume le sofferenze della guerra e delle ingiustizie sui ceti umili e la vitalità dello spirito romanesco. Il sacerdote, figura umanissima, è rappresentativa di un clero di base che ebbe un ruolo non indifferente di protezione e aiuto alla lotta di liberazione. Manfredi, o Episcopo, è un resistente motivato e ricercato, che darà prova di grande coerenza ideale.
Nella Roma occupata dai tedeschi, questi ultimi marciano come padroni cantando i loro inni marziali. Il film coglie la spontaneità di un mondo semplice e la tenacia dei resistenti. I gesti, gli sguardi, gli oggetti fanno parte di una narrazione realistica ma anche allusiva.
Le scene della retata nel caseggiato sono incalzanti e sinistre. I fascisti e i tedeschi hanno circondato la casa. La voce si sparge di piano in piano. Il vigile metropolitano è costretto a restare. Stanno trascinando giù tutti gli uomini, anche i vecchi. Don Pietro corre a nascondere un’arma sotto le coperte, nel letto di un anziano. Ci colpisce lo sguardo di Pina carico di odio verso il tedesco che tenta di molestarla, seguito da un ceffone. Il suo fidanzato Francesco viene portato via dai tedeschi. La donna corre verso il camion con i fermati, chiamandolo e viene falciata dai mitra. La scena molto forte è rimasta celebre.
La fucilazione di don Pietro a Forte Bravetta ne rievoca tante altre. Nessuno dei militari del plotone ha il coraggio di colpirlo e dovrà intervenire l’ufficiale nazista. Pochi istanti prima il religioso aveva sussurrato “Non è difficile morire, è difficile vivere”. I “suoi” ragazzi, poco distanti, dietro la rete, stanno fischiando la canzone a lui cara, e ricorderanno tutto. Ecco la speranza che resiste, come quella di Francesco quando rassicura Pina “Bisogna credere, siamo nel giusto e lottiamo per una cosa che deve venire, che verrà”.
La scena straordinaria e struggente dell’assassinio di Pina (da https://www.youtube.com/watch?v=-5MMIMKhJNs&ebc=ANyPxKpFJys_TNMOtVFl4hgvihC28PmHBg5sliI-m_sQN9A-y6F8EhX_zB-7iLVMfVENmBgVZd3es9aI7vVA7n9DJTc0FHb1VA)
ACHTUNG! BANDITI! (1951, Carlo Lizzani)
Un drappello di uomini, guidati dal comandante Vento, raggiunge una casa di contadini e lascia un compagno ferito per risalire la montagna. Hanno sulle spalle coperte ed armi a tracolla. Il cartello Achtung banditen che incontrano lungo la via la dice lunga su come li considerano i tedeschi.
Il film, sostanzialmente d’azione, infranse un silenzio di cinque anni sui temi della Resistenza e portò sullo schermo la vita reale dei partigiani, le loro discussioni, le azioni ed anche la varietà dei caratteri degli uomini. Entra subito, con immediatezza nella dimensione fisica della fatica, della stanchezza, della nostalgia dei propri cari e di una vita normale. Dalle molte scene di movimento, in montagna e in città, emerge un esercito volontario e raccogliticcio nelle condizioni avverse. Il comandante deve essere prudente e insieme deciso, malgrado i dubbi. Lorenzo, il commissario politico, è più pragmatico e va dritto allo scopo. Alcuni partigiani sono impazienti, vogliono agire. Come Franco, sempre pronto a sparare. Altri seguono impulsi e sentimenti. Come Napoleone, che si assenta per conoscere il figlio appena nato e suscita qualche sospetto nei compagni.
L’elemento nuovo e più rilevante del film è il ruolo svolto dalle fabbriche del nord Italia nella lotta di Liberazione. La presenza operaia risalta come trincea di opposizione contro la guerra nazifascista. Gli scioperi, il passaggio di armi ai resistenti, la difesa degli impianti produttivi dai progetti di requisizione tedesca sono tutti fatti storici. Anche la figura dell’ingegnere che collabora con la Resistenza ha un suo valore emblematico.
I personaggi femminili richiamano il coinvolgimento delle donne nella bufera. La figura di Lucia, la giovane contadina che indica agli uomini del gruppo dove nascondersi e li informa sulla presenza dei tedeschi accampati vicino al torrente, è delineata con molta naturalezza ed ha anche un significato più profondo. La donna è sempre portata ad aiutare e non esita.
Il film si chiude con un atto di fiducia nella collaborazione e nella lotta. Il comandante, contro il parere di altri, accetta di dare le armi anche a Vincenzo un giovane disertore della divisione repubblichina Monte Rosa. È importante attivare nuove forze per resistere e vincere. Con i pentiti e con gli operai fuggiti dalla fabbrica nasceranno i nuovi gruppi di combattimento.
https://www.youtube.com/watch?v=QwxnZJle2Y4
(“Achtung! Banditi!” da https://www.youtube.com/watch?v=QwxnZJle2Y4)
UOMINI E NO (1980, Valentino Orsini)
Il film è documento del sangue versato dai futuri “vincitori”. I morti delle scene iniziali, stesi nella piazza, gli ostaggi fucilati sotto la luce di un riflettore, ricordano le numerose uccisioni perpetrate dai nazifascisti, che peseranno sulla sconfitta dei “vinti”. «Non era come in Africa e nemmeno come in Australia, non era né di sabbia né di pietre…», scriveva Elio Vittorini nel romanzo a cui si ispira Orsini sulla Milano occupata del ’44, la Milano della Resistenza contro nazisti e brigate nere, dei gappisti e delle rappresaglie efferate. Questa libera interpretazione che ripropone la sostanza di un momento storico nella sua fase di azione diretta, ci invita anche alla rilettura del testo. Ma qui i fatti sono i veri protagonisti della vicenda e dominano sui destini individuali, sulle problematiche particolari.
“Enne2”, capitano dei GAP a Milano, e gli altri, sono inquadrati nel vivo della lotta. Si delinea l’epoca, l’asprezza della situazione, i partigiani che in essa si battono, intellettuali, operai, uomini semplici e la crudeltà del nemico. L’atmosfera di Milano deserta ci riporta alle date precise dell’occupazione. Il regista riesuma il vuoto della città, nei suoi vicoli e nei viali percorsi dai vecchi tram. È l’atmosfera surreale di una tragica attesa, che fa paura in cui può verificarsi un’incursione delle brigate nere, o un’azione partigiana improvvisa. I volti della gente rivelano l’abitudine agli eccidi fascisti, alle retate, l’abitudine a fuggire per le strade, a infilarsi improvvisamente nei portoni, ma anche alla solidarietà spontanea. Non è casuale la figura dell’operaio sconosciuto che “Enne2”, pedinato, incontra sulle scale del palazzo e che non esita ad aiutarlo.
La morte “utile” di “Enne2” richiama la vicenda del partigiano comunista Dante Di Nanni che, braccato e ferito, si lanciò sui suoi aguzzini dal balcone dell’appartamento di Torino. Allo stesso modo il protagonista piomba imbottito di esplosivo sulle brigate nere e sul loro capo Cane Nero. Ogni gappista è cosciente del prezzo richiesto dal suo compito.
E il finale ci mostra che la Resistenza continua. Un operaio sconosciuto prende il posto di “Enne2”, prende la sua arma.
LA NOTTE DI SAN LORENZO (1982, Paolo e Vittorio Taviani)
Il film dei fratelli Taviani, è una grande rappresentazione della guerra e delle violenze e rappresaglie nazifasciste in Toscana nell’estate del 1944. È uno dei racconti filmici più significativi e poetici in tema resistenziale. Ferocia e crudeltà degli occupanti, da un lato, resistenza popolare e lotta per la sopravvivenza dall’altro. Tra gli umili personaggi, Rosanna (Sabina Vannucchi) che era bambina (Samanta Boi) nel ’44, narra la storia vista dal basso, ciò che ha vissuto insieme ai suoi compaesani durante l’occupazione tedesca. Quest’angolazione fa strada a numerosi simboli che circondano l’azione reale. Le vicende del paesino toscano di San Martino le cui case sono state minate dai tedeschi alla vigilia dell’arrivo degli Alleati, escono vivide e rafforzate dagli episodi piccoli e grandi, dalle emozioni di segno diverso, dai dati sociologici e dall’immaginazione. Agli occhi infantili di Rosanna i resistenti si sublimano in eroi omerici che tempestano di frecce il fascista in divisa da brigata nera, egli pure travestito in figura mitologica.
I paesani di San Martino pur così puntualmente fotografati nella loro toscanità, divengono simbolo della comunità umana obbligata a fronteggiare le forze del male. Così appaiono cercando scampo, sia durante la fuga dal paese che nel terrore dell’attesa nel Duomo dove avverrà la terribile strage da parte dei tedeschi.
Il film è dunque un’allusione all’essenza stessa della guerra, alla sua assurdità. Buoni o cattivi nella tempesta che li ha travolti, coraggiosi o vili, misericordiosi o crudeli, mentre cercano di sopravvivere e di salvare i propri cari, i personaggi, dai più approfonditi a quelli abbozzati, concorrono tutti armonicamente ad un’immagine totale, storica e umana.
L’AGNESE VA A MORIRE (1976, Giuliano Montaldo)
La storia dell’Agnese – ispirata all’omonimo romanzo di Renata Viganò – è quella di una crescita, di una trasformazione. Una donna di campagna, da lavandaia diviene staffetta partigiana. Quando i nazisti le strappano il marito, l’antifascista Palita, con l’accusa di aver dato asilo a soldati sbandati, lei prende il suo posto nella Resistenza.
L’attrice svedese Ingrid Thulin, anch’essa di origine contadina, accettò di buon grado la parte della protagonista, offrendo al personaggio naturalezza e spontaneità.
Seguiamo il cammino graduale della donna verso l’autonomia. Raggiungerà i partigiani per cui già lavora, vivrà la loro vita aspra tra i canneti delle valli, con funzioni di staffetta. Porterà armi, ordini, superando i posti di blocco tedeschi. Passerà con la bici sgangherata in mezzo ai soldati nemici, instancabile e decisa, con il volto precocemente invecchiato. La sua presenza porta una nota affettuosa, sollecita, per i Resistenti, uomini provati da ore di tensione e di attesa. Il suo contributo è duplice, materno e combattente. L’Agnese rappresenta il mondo femminile sommerso il cui segno eroico nella Resistenza si è perduto nella sordità ufficiale. La sua strada politica è appena iniziata; potrebbe continuare se la morte non la interrompesse all’improvviso in quel posto di blocco dove la vedremo giacere brutalmente eliminata.
IL PARTIGIANO JOHNNY (2000, Guido Chiesa)
Impegnarsi in prima linea, contro il deprecato regime, è importante per Johnny. Il potere di cui lo studente di Alba si sente investito lo inebria, nello stesso tempo sa di volerlo usare in modo legittimo. Con questo spirito prende la via delle Langhe alla ricerca dei ribelli e si arruola nella prima brigata che incontra. Il film di Guido Chiesa si ispira liberamente all’omonimo romanzo pubblicato postumo di Beppe Fenoglio, è un’interpretazione personale, nata dalla passione del regista per lo scrittore piemontese e dall’interesse di vecchia data per i fatti resistenziali. Vediamo il ritratto immediato di un giovane di quei tempi di furore, coerente con la sua scelta antifascista.
La struttura di film d’azione riprende personaggi, luoghi, ed episodi del libro, senza troppo entrare nella loro interna dialettica. È sul volto espressivo di Stefano Dionisi che si legge la crisi intellettuale del protagonista di fronte allo sfascio dell’esercito, dopo l’8 settembre, e scorre la sua rabbia di fronte alla riorganizzazione dei fascisti e alle prime esecuzioni di renitenti alla leva repubblichina. Evitando la protezione dei genitori, egli supera la zona grigia che lo circonda (fuggitivi, imboscati, attesisti) per partire. Il suo progetto è esaltante, morale. Incontra varie formazioni partigiane. I primi quelli “della Stella Rossa” sono dei proletari di varia provenienza, assai diversi da lui borghese colto. Nella convivenza sente repulsione per la rozzezza popolana che è parte della società reale, ma i momenti difficili annulleranno le distanze. Alla ricerca di un’organizzazione militare ben addestrata, trova i “badogliani” dal fazzoletto azzurro, più consoni al suo spirito. Festeggerà con i nuovi amici l’abbandono della città di Alba da parte dei fascisti, vivrà il dramma di successive sconfitte e della morte di vari compagni. L’inverno rigido lo vedrà vagare di cascina in cascina, fino all’ultimo pericoloso scontro col nemico.
Il fotogramma finale s’imprime nella mente. È nato un nuovo Johnny, non più libresco ma “fatto di carne e sangue”, senza più distacco di classe, un partigiano con il fucile puntato in un impari assalto, pronto a resistere fino alla morte. Una figura nuova, nata dalla fratellanza con i compagni.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/red-carpet/25-aprile-questa-sera-al-cinema/