“Operazione Apfelkern” film di Renè Clement (1946). Siamo in Francia. Il film ricostruisce l’episodio di un attentato a un convoglio tedesco alla vigilia dello sbarco in Normandia. Il racconto scarno ed essenziale, interpretato da ferrovieri autentici nell’ambientazione reale, durante la seconda guerra mondiale, mostra come gli cheminots attuavano, in accordo con la Resistenza locale, nelle stazioni e sui binari le loro azioni di sabotaggio. Così ostacolavano la macchina dell’invasione nazista avanzante, forte della collaborazione del governo di Vichy. I militanti di questa mobilitazione collettiva ci colpiscono per la loro inventiva e determinazione. La suspence dell’azione ci avvince. L’orologio è decisivo per il ritardo di un treno, per collocare un esplosivo o per il blocco di una linea che indebolirà i rinforzi e i piani nemici. E tremeremo per le vite in gioco.
La visione del film ci riporta al cinema europeo e alla sua immagine della Resistenza. Da noi una rappresentazione incisiva e indimenticabile sbocciò subito dopo il 1945 con i film di Rossellini, Visconti, De Santis e rifiorì poi in varie fasi successive imponendosi nel panorama mondiale. In altri Paesi d’Europa questa tematica apparve in tempi ed ottiche diverse. In Unione Sovietica, Francia, Jugoslavia spesso prevalse l‘iconografia di genere patriottico. In Polonia invase lo schermo la tragedia concentrazionaria, il tema della Shoah. In Cecoslovacchia e Ungheria si dovettero attendere gli anni 60, 70 e 80. In Germania, la rielaborazione del passato e il pentimento, raramente sfiorati qua e là, iniziarono ad essere affrontati negli anni 80. L’insieme di queste opere comunque, di varia data, ispirate a fatti reali, ci fa riafferrare il pathos della partecipazione ideale e delle peripezie che legarono i popoli europei in quegli anni. Al centro del ciclone hitleriano vediamo fotografati nella loro verità i crimini nazisti, gli eroismi dei resistenti, la durezza della lotta per la libertà. Ci colpiscono nei fotogrammi e nelle sequenze le ombre e le luci di questa grande battaglia, gli echi delle sofferenze delle popolazioni, lo strazio e vergogna dello sterminio degli ebrei e degli oppositori politici, dei rom, degli omosessuali, la violenza inaudita contro le donne, vittime predestinate e incolpevoli di ogni guerra, e poi le azioni dei generosi che offrirono la loro vita. Ecco alcuni esempi atti a rievocarci il clima di quegli anni decisivi.
“L’armata degli eroi” di Pierre Melville (1969) dal romanzo di Joseph Kassel. Siamo in Francia, di fronte alla radiografia di un’organizzazione del Maquis (la Resistenza francese). Il film scevro di trionfalismo ci porta dentro al gruppo gollista clandestino proiettato nella dura lotta quotidiana contro avversari temibili e nelle reazioni psicologiche di uomini totalmente votati alla lotta. Ci scontriamo con situazioni e dilemmi quotidiani che ci mostrano come si doveva combattere anche fronteggiando l’incubo della delazione. Non vi è solo il dinamismo dell’azione. La descrizione dei dubbi e delle angosce di fronte a scelte cruciali, come il dover uccidere i traditori rafforza la veridicità della narrazione.
“Mr Klein” (1976) di Joseph Losey smaschera la politica di complicità antisemita del governo collaborazionista di Vichy. È un tasto su cui a lungo i francesi hanno glissato. La Parigi del 1942 è in mano ai tedeschi. Il protagonista Robert, un libertino viziato dalla ricchezza, viene improvvisamente coinvolto nella persecuzione nazista a causa di un suo misterioso omonimo, un ebreo ignoto e latitante. Entriamo in quel contesto anomalo di caccia all’uomo che condannò un intero popolo all’ annientamento.
Come in un racconto kafkiano, seguiamo le mosse affannose di Robert per sfuggire all’errore che lo sta intrappolando fino a che non si perderà nella massa dei rastrellati, brutalmente sospinto come gli altri verso i vagoni diretti in Germania. Il caso assurdo del protagonista, inserito nella “normalità” della tragedia, ci avverte di un pericolo perenne: ogni persecuzione tende a dilagare superando i suoi stessi confini.
Con “L’infanzia di Ivan” di Andrej Tarkovski (1962) siamo nell’ex Unione Sovietica in un film poetico denso di idealità, di pacifismo e di amarezza, che protesta contro lo spreco di vite appena sbocciate altruiste, umili, invisibili. Ambientato nel pieno della seconda guerra mondiale, nella zona del fiume Dniepr, fa rivivere sullo schermo la Resistenza dall’angolazione di un dodicenne. La sua storia riflette quella di tanti giovanissimi che in vari Paesi hanno avuto un ruolo prezioso, infiltrandosi nelle linee nemiche, portando messaggi o effettuando sabotaggi. Benché i suoi superiori cerchino di proteggerlo e allontanarlo dal fronte, Ivan insiste e ritorna nelle zone pericolose.
Il tenente Galtsev, suo protettore, scopre solo alla fine della guerra, a Berlino, il sacrificio del ragazzo. Caduto prigioniero durante una delle sue esplorazioni, è stato impiccato.
Come dimenticare due film cecoslovacchi come “Diamanti nella notte”, capolavoro di Jan Nemec (1964) e “Treni strettamente sorvegliati” di Jiri Menzel (1966)? Nel primo seguiamo due ragazzi in fuga da un trasporto tedesco, inseguiti da gendarmi slovacchi collaborazionisti. Corriamo insieme a queste vittime incalzate dall’angoscia e dal desiderio di sopravvivere, sentiamo i morsi della fame e vediamo i luoghi, il bosco, le case di legno. Condividiamo la paura e il presagio della fine, la fine stessa e la grottesca ballata dei vecchi gendarmi, emblemi del regime di Tiso, che festeggiano in un’osteria con birre e salsicce la cattura delle due prede. Nel secondo, tratto dal romanzo di Bohumil Hrabal, film giovanile con l’occhio della contestazione anni 60, incontriamo le ragioni della pubertà pur nella gravità della guerra. Il giovane Milos, assunto come aiutante del capostazione, in una piccola stazione ferroviaria boema in piena occupazione tedesca, malgrado i pericoli del mondo circostante, vive la prima esperienza d’amore con l’eccitazione degli anni verdi. Sua partner è una partigiana che evade per un attimo dal brivido dell’azione di sabotaggio contro un treno di munizioni. Con la stessa disponibilità dei suoi primi approcci amorosi, l’adolescente si presterà a sistemare l’esplosivo e perderà la vita.
Con “Il tamburo di latta” (1979) di Volker Schlondorff, film metaforico ispirato dal romanzo di Gunter Grass, ambientato nella città di Danzica, il cinema tedesco affronta a suo modo quel cupo periodo della storia contemporanea, abbracciando la tesi dell’infantilismo della società germanica sotto il nazismo. La protesta del piccolo Oskar, sconvolto dalle violenze crescenti familiari e di regime, si esprime nel rifiuto di crescere e nel battito ossessivo di un tamburo di latta. Sfilano attraverso l’ottica infantile parate naziste, manifestazioni razziste, l’Anchluss che toglie la libertà all’Austria, le ultime resistenze polacche infine la guerra e la disfatta.
Ma è ne “La rosa bianca” (2005) di Mark Rothemund che troviamo un episodio di opposizione interna al nazismo, scovato nell’apparente massiccia sudditanza del popolo tedesco alla dittatura hitleriana. Quella del gruppo di studenti pacifisti della “Rosa Bianca” di Monaco è un’impresa temeraria, volta ad aprire gli occhi ai coetanei sul vero volto del patriottismo nazista. Innumerevoli manifestini di denuncia dei crimini contro popolazioni inermi, stragi di innocenti, persecuzione razzista contro gli ebrei, eliminazione dei diversi vennero diffusi nelle università e nelle strade della Baviera ed in altre città tedesche e molte lettere vennero spedite da questi giovani coraggiosi. I volantini ciclostilati clandestinamente furono distribuiti nell’Università cittadina, la Ludwig Maximilian. Spicca nel film il personaggio di Sophie Scholl, instancabile militante del gruppo, arrestata, interrogata dalla Gestapo, processata e ghigliottinata insieme al fratello e all’amico Christophe. Se oggi può apparirci remota e forse incomprensibile l’ipotesi di una rinuncia alla vita come la sua, per una scelta morale, ricordiamoci che fu proprio questa disponibilità ideale a contraddistinguere la Resistenza.
Non sarebbe utile rivisitare il meglio di questa filmografia? Farla conoscere ai giovani con rassegne e approfondimenti nelle scuole? Rievocare il volto nobile di una comune esperienza europea e il sangue versato per la libertà oggi godibile, proprio ora che nuovi minacciosi fantasmi ultradestrorsi si affacciano all’orizzonte?
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 24 Aprile 2018
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