Roma, esterno notte. Alcuni uomini si calano lungo un muro per scrivere con la vernice, a grandi caratteri, uno slogan politico: “Il sol dell’avvenire”. In realtà la scena contiene i titoli di testa e con essi il titolo del quattordicesimo lungometraggio di Nanni Moretti, tornato a una sceneggiatura originale dopo aver realizzato nel 2021 la trasposizione cinematografica del romanzo Tre piani di Eshkol Nevo (per la prima volta nella sua carriera cinematografica non da un suo soggetto originale). Il gioco dei rimandi può cominciare: il finale di Palombella rossa (1989) vedeva molti dei personaggi del film salire una collina dove un sole di cartapesta diventava occasione per una iconografia di stampo socialista, dove tutti si protendono verso il sol dell’avvenire della rivoluzione.
Palombella rossa è il riferimento principale di questa ultima opera del regista romano, prossimo ai 70 anni: alla caduta del muro di Berlino, Moretti rifletteva su cosa potesse ancora significare dichiararsi comunista. Ambientato intorno a una piscina in cui il protagonista Michele Apicella, dirigente del Pci, cerca di recuperare la memoria dopo averla persa in un incidente stradale, la ronda dei personaggi mostrava l’enorme fatica di tutelare la propria identità politica in una interminabile partita di pallanuoto (sport realmente praticato dal regista), che diviene il paradigma di una contesa storica che sembra impossibile da vincere. Di culto la scena in cui Michele ritrova in un suo articolo la traccia per capire chi sia: “Io sono un comunista!” (nel cinema di Firenze in cui ho visto il film, in quel momento scoppiò un applauso in sala…).
Mentre cura il montaggio di Palombella, Nanni Moretti gira un documentario nelle sezioni Pci gettando uno sguardo alla realtà di un partito chiamato a ripensarsi con riferimenti totalmente nuovi e che si intitola La cosa (1990), perché questo tutti ci chiedevamo; cosa sarà il principale partito della sinistra italiana?
Nell’ultimo film Moretti riprende quel filo, scegliendo una data storica di passaggio. Roma, 1956. Nel quartiere periferico del Quarticciolo sta arrivando l’illuminazione pubblica e Ennio, segretario della sezione locale del Pci e redattore de L’Unità, sta aspettando l’arrivo del circo ungherese Budavari (vi ricordate? il temuto pallanuotista di Palombella rossa, con il tormentone di Silvio Orlando “Marca Budavari, marca Budavari!”), ospite in città per cementare i rapporti tra i due popoli.
Ma i fatti di quei giorni dell’insurrezione ungherese e la conseguente repressione militare da parte dell’Urss solleva un dubbio atroce di coscienza: è possibile essere comunisti senza far riferimento all’Unione Sovietica? Ennio resta legato alla linea del segretario Togliatti, mentre la compagna Vera, sarta e militante del partito, vorrebbe che Ennio avesse il coraggio di seguire la strada della coscienza, prendendo le distanze dal regime socialista.
Mentre si gira il film, secondo una delle dinamiche ricorrenti di Moretti (Sogni d’oro, Il caimano, Mia madre: ma prima, di Fellini, Truffaut e altri ancora) del film nel film, il regista Giovanni vive una fase drammatica: la moglie Paola – sua produttrice storica, adesso però impegnata a produrre uno dei classici film di crimine violento adesso molto in voga) – vuol lasciarlo, la figlia Emma intende sposarsi con un uomo molto più anziano di lei, il finanziatore del film finisce in galera, rendendo impossibile la fine delle riprese. Soprattutto, Giovanni non capisce cosa sia diventato il cinema contemporaneo, che “non è solo una questione di estetica, ma di etica”.
I tentativi di salvare il film lo portano a confrontarsi con i responsabili di Netflix, panacea universale per tutti i problemi produttivi (“i nostri film sono visti in 190 paesi, 190 paesi” gli ripeteranno fino allo sfinimento): ma i loro criteri per definire un’opera cinematografica sono incompatibili con la visione del regista. Il film sembra destinato alla rovina: come deus ex machina arrivano però i produttori coreani del film di Paola, che si dicono interessati a finanziarlo. Colgono nella sceneggiatura, dicono, un senso ineluttabile di fine: dell’amore, del comunismo, di ogni speranza, della vita, apprezzando molto il suicidio finale di Ennio, sconvolto dall’impossibilità di conciliare ragioni del cuore e fedeltà al partito. Pure Giovanni sembra affascinato da questa prospettiva di uscita di scena, come teme Paola.
Tutto sembra risolversi in tal senso: ma Giovanni non è più convinto di quanto ha sceneggiato. Cerca e realizza un finale diverso secondo la logica del “e se”, “e se” con cui non si fa la storia, ma i film, volendo, sì… Ennio scende in piazza sotto le finestre di Togliatti dimostrando che c’è buona parte della base del partito che non condivide la demonizzazione della rivolta ungherese: la segreteria del partito rompe con l’Unione Sovietica e la tradizione stalinista (nella sezione del partito ricostruita in studio Giovanni strappa la parte di un manifesto che raffigura Stalin: è un dittatore, non lo vuole nel suo film), realizzando quel comunismo eretico che in tanti hanno sperato. Nel corteo di festeggiamento per la svolta operata, musicanti e artisti del circo in testa, si sfila ai Fori Imperiali in un clima di allegria.
Nel corteo vediamo i protagonisti di tutta la vicenda narrata da Moretti, ma anche attori e attrici di riferimento delle sue opere precedenti. Passando di fronte alla cinepresa, Giovanni, sorridendo, fa ciao con la mano. Una didascalia dichiara che la teoria di Marx ed Engels può continuare a farci vivere più felici, recuperando le speranze perdute.
La vicenda si innerva nelle fissazioni e le nevrosi del cineasta romano, che i suoi fans conoscono bene. Ma si apre anche agli slanci gioiosi e vitali di sequenze bellissime, con il solito ruolo fondamentale delle canzoni. Giovanni confessa a Paola il suo desiderio di girare una storia di amore con molte canzoni italiane: di questo film immaginato troviamo frammenti attraverso la sua fantasia, nelle vicissitudini di due giovani innamorati. Li vedremo poi ballare con i loro bambini sulle note di Voglio vederti danzare di Franco Battiato: e tutta la troupe balla con Giovanni. Come pure si introduce il “motore!” dell’inizio riprese con Sono solo parole di Franco Moro. O in auto con Paola si giustifica l’uso delle deprecate pantofole – che non sono solo una calzatura, ma “uno stile di vita” – ammesso solo per Aretha Franklin che in The Blues Brothers canta Think.
Questo è il film di Moretti con più espliciti riferimenti al cinema di Fellini. Si cita direttamente La dolce vita (è il film che i due innamorati vedono in sala), e il finale con il circo – stavolta per le strade di Roma, non lungo l’anello chiuso della pista come in 8 e 1\2 – diviene la rassegna delle “dolcissime creature” che il maestro riminese e quello romano ci presentano come la possibilità di dare risposta concreta alle angosce della sterilità dell’ispirazione o dei fallimenti, esistenziali e storici, in cui si vedono bruciare gli ideali collettivi.
Affezionarsi alle persone, nonostante tutto, rimane il modo di conservare quella tenerezza con cui fare cinema senza bisogno di idolatrare la violenza o il senso di morte. Perché la storia continua a remarci contro e ci consegna alla constatazione implacabile di essere parte di una minoranza sempre più esigua, che ha un potere ridotto nel considerare i fatti che non si cambiano (la scena più straziante di Palombella rossa è quella in cui il pubblico della partita vede in tv la scena del Dottor Zivago in cui Lara se ne va tra la folla senza che il protagonista possa raggiungerla).
Palombella rossa stesso termina con il giovane attore che interpreta Michela Apicella da bambino, che non riesce a trattenere le risate di fronte al sol dell’avvenire di cartapesta. Eppure, di utopie abbiamo ancora bisogno: facciamo in modo che non sia un disperato bisogno, ma la scelta consapevole di nuove strade. Leggo già recensioni che parlano di un film che narra una logica usurata, quella di una sinistra finita e patetica, con il solito linguaggio alla Moretti, che ripete stancamente sé stesso. In realtà siamo di fronte alla volontà deliberata di portare la fantasia al potere, liberandola dal giogo ideologico; per azzerare certi passaggi fallimentari della storia e riprendersene il carico, nella consapevolezza che “Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare”, come scriveva Ernest Hemingway.
Ci resta la fantasia, diamine, e con quella molti film “sovversivi” che possiamo continuare a fare. Perché a forza di sognare una storia che sia andata diversamente forse riusciremo a trovare ancora il desiderio di costruirla, futura, più decente e abitabile.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato venerdì 5 Maggio 2023
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