Ragioni di stato o criteri umanitari nel gestire i flussi migratori? Su questo dilemma bruciante che divide oggi politiche, associazioni e singoli, Andrea Segre ha realizzato un docufilm scarno ma dignitoso, modesto nell’espressione visuale eppure denso di motivi di riflessione. Il film apparso al recente festival di Venezia (menzione speciale Premio Human Rights Nights al Cinema dei Diritti Umani) affronta la complessa tragedia della Libia partendo dall’esperienza di un alto funzionario del ministero degli Esteri incaricato di tagliare gli sbarchi dei rifugiati rinviandoli ai centri di raccolta territoriali. Il protagonista, Corrado Rinaldi (correttamente interpretato da Paolo Pierobon) ex poliziotto e amante della scherma, è un uomo distante da ideologie a cui è stato raccomandato di evitare rapporti personali con i migranti che potrebbero intaccare la sua fermezza nella gestione del problema.
Il film mette in luce come un piccolo passo in più nell’umano, un avvicinamento al dolore e all’ingiustizia può significare l’apertura alla solidarietà scavalcando le dure regole amministrative.
«Per far pensare e discutere lo spettatore – afferma il regista – abbiamo adottato lo sguardo di chi è fermamente convinto che gestire e bloccare il traffico di migranti sia la cosa giusta da fare. Non partiamo dallo sguardo cattivo e xenofobo, ma dall’accettazione dell’ordine delle cose».
Ecco quindi Corrado nel suo viaggio libico, negli incontri sul campo, con gli addetti ai lavori, con chi dirige l’affare migranti e specula sulle vicissitudini dei disperati, arricchendosi col traffico umano verso l’Europa. C’è anche un collega maneggione, Luigi Coiazzi, ormai esperto del territorio (il bravo Giuseppe Battiston) che lo informa e consiglia sui risvolti dell’ambiente. Da professionista esercitato, Rinaldi si guarda intorno per il nuovo compito. Seduto davanti ai bassi tavolini con fragranti bevande magrebine, impara a conoscere ospiti cortesi ma ambigui. Poi non può evitare la visione delle persone, tutti quegli uomini e donne ridotti a numeri, raggruppati e sospinti come animali nella loro prigione dai guardiani che li maltrattano a bastonate.
Ritroviamo a questo punto immagini tristemente note, echi di un clima concentrazionario. È difficile non pensare con amarezza “gli olocausti non sono mai finiti”. Siamo abituati ai numeri profusi dai media per definire l’umanità sofferente, ridotta a forma indeterminata, i morti dei terremoti e delle alluvioni come i migranti perseguitati dalle guerre, annegati torturati, stuprati. Quelle cifre statistiche cancellano le vite singole, una diversa dall’altra, speranze, odissee, terribili ferite e si può tranquillamente lavorare con i decreti e le carte. Fra gli internati, a un tratto, Rinaldi è colpito da Swada (Yusra Warsama) una giovane donna somala che chiede il suo aiuto.
Tutto si svolge in un attimo, nella consegna furtiva di un indirizzo, ma intanto è scattato in lui, uomo ordinato, un guizzo di cambiamento già preparato dalla visita scioccante. Ha visto i reclusi, ha incontrato gli occhi supplicanti della donna che vuole raggiungere il marito in Finlandia. Quante donne ormai si muovono numerose dall’Africa, partono per percorsi stressanti, fra privazioni inaudite, accettano rischi terribili con i figli o incinte pur di sfuggire a persecuzioni e violenze e ne subiscono altre. Non sono viaggi di piacere o d’avventura, sono fughe da situazioni estreme. Pierobon non può celare sul suo volto controllato l’ombra di queste presenze. Perché, afferma l’attore: «Ciò che lui si costringe a tener nascosto è dentro di lui». Tornato a Roma non riesce a dimenticare la donna e si dà da fare per aiutarla, farle recapitare il denaro e realizzare il trasferimento in Europa. I due comunicano via skype, nasce uno scambio di idee, un feeling, potrebbero perfino diventare amici. Ma ecco l’intervento dei superiori che lo sollecitano ad affrettare la firma dell’accordo con i libici.
Il blocco delle partenze dietro compensi in denaro comprende garanzie di spostamenti e accoglienze rispettose degli standard europei, ma abbiamo visto qual è la realtà dei centri di raccolta. Rinaldi è in preda a un conflitto interiore, deve scegliere tra la sua carriera e l’alternativa umanitaria, ma alla fine si adegua all’ordine delle cose. Quando la prossima barca verrà bloccata al porto vedrà anche Swada tra i respinti, ricondotti al loro calvario.
Il rientro del protagonista nei ranghi è riassunto nel finale, nell’immagine di una serena cena borghese con la moglie e i figli. L’allusione metaforica e la contrapposizione delle due sorti è amara. Corrado simboleggia infatti tutti coloro che, pur essendo onesti, sembrano aver “metabolizzato l’ingiustizia”.
La politica che professa il salvataggio dei migranti poi non esita ad abbandonarli nelle mani di aguzzini senza scrupoli. I proponimenti dell’Europa liberata dal nazismo e sanciti dalla stessa Carta mondiale dei diritti inviolabili dell’individuo, sono sorvolati a favore di interessi ristretti ed egoistici e di orientamenti pragmatici. La democrazia ha fatto passi indietro.
«Ma è proprio inevitabile che l’altruismo sia sconfitto? – chiede Segre in un’intervista – e se un giorno il rischio fosse nostro? La sfera dell’essere umano non può essere trascurata». Come esempio illuminante cita il diritto dei nostri giovani a muoversi, studiare all’estero, oggi messo in pericolo dalla Brexit. Da questi ragionamenti è nato il film, che, per l’immediatezza del reportage, tiene desta l’attenzione dello spettatore ed è apprezzabile proprio per la sua presa di posizione contro l’indifferenza. Coerente con le finalità dello Zalab (associazione per la produzione di documentari e progetti a sfondo sociale) a cui aderisce il regista, s’inserisce nel dibattito europeo per una politica diversa nel nord Africa e scuote in qualche modo il pubblico portandolo a pensare ad una nuova rotta, alla salvaguardia della persona.
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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