Ognuno ha le proprie icone di riferimento, immagini di un’arte, di una cinematografia, della scrittura, della musica, e le considera eccellenze assolute. È tempo di dichiarare a lettori e lettrici di Patria Indipendente le mie.

Federico Fellini dietro la macchina da presa

Quella cinematografica è – tra tante altre, che saranno esposte a tempo debito – in primis Federico Fellini. Un maestro con pochi eguali per capacità tecnica, inventiva, originalità, acutezza di lettura dei fenomeni sociali, così da farli diventare parametri storici. Ma al contempo un regista in grado di parlare delle proprie frustrazioni, ossessioni, fantasie, la vita colta come parametro di espressione di un sé che può dire a molti altri. Una delle sue frasi più note era “Niente si sa, tutto si immagina”. Si pensi alla genialità di un autore che con 8 e 1\2 fa un film sulla sua reale incapacità di girare un film, mostrando una crisi di inventiva che si tradurrà in un capolavoro della storia del cinema.

Amarcord (dal romagnolo a m’arcord, io mi ricordo) ci racconta della memoria che diviene un itinerario su cui convergere, facendovi magari confluire il proprio senso di nostalgia, perché l’artista sa tradurre in universale quel che avverte a livello personale.

La memoria proposta è quella di un anno a Borgo San Giuliano e Rimini durante gli Anni 30: raccontato attraverso un gruppo composito di personaggi, capaci di ricreare tutto un contesto, da quello familiare del giovane protagonista, Titta, e delle figure caratteristiche del paese, fino a quello propriamente storico. Si rivivono le grandi suggestioni collettive di eventi come il passaggio del transatlantico Rex, o il transito delle auto da corsa che partecipano alle 1000 miglia. Insieme a memorie e sottili malinconie del transito nella propria giovinezza, un ballo immaginato davanti al Grand Hotel o lo smarrirsi nella nebbia, le fascinazioni erotiche giovanili come i riti di passaggio di una generazione dal destino particolare.

Anni 30: quindi il fascismo che impera. Il film, all’uscita nel 1973, fu accusato di essere troppo indulgente con il regime, dandone tutto sommato una visione bonaria, edulcorata. In realtà Fellini e Tonino Guerra (che co-sceneggiava) hanno colto alcuni degli elementi fondamentali della dittatura.

Le scene del raduno fascista alla presenza del podestà in visita, leggono la dimensione popolare del fascismo stesso, negli slogan, le dinamiche del consenso, l’omologazione, la fruizione di un immaginario collettivo di cui Fellini sa mostrare l’aspetto grottesco e artificioso. Nel contempo segnato in filigrana da terribile violenza, anche se apparentemente contenuta (le leggi razziali erano all’orizzonte…).

La sequenza in cui il padre di Titta, l’anarchico Aurelio, viene chiuso in casa dalla moglie Miranda (meravigliose le baruffe tra i due) per impedirgli di partecipare al sabato fascista indossando un provocatorio fiocchetto giustappunto da anarchico, ha seguito in quella in cui Aurelio stesso viene purgato con olio di ricino perché lo si pensa responsabile di un evento precedente – di cui vi dirò – mentre un gerarca, reduce e invalido del conflitto mondiale, una sorta di figura dannunziana, assiste alla purga annotando come sia incomprensibile il non aderire al vento dominante (“ma perché questa ostinazione a non voler capire…”), il non convertirsi a una condizione così adeguata a questo Paese come il fascismo.

(Bundesarchiv)

Bene, qui abbiamo tutta l’aggressività di un regime che si impose anche perché seppe adoprare gli strumenti repressivi come quelli seduttivi: in particolare, la seduzione di una capacità di governare per le virtualità dell’uomo solo al comando, mito che affascina il nostro popolo con una frequenza preoccupante.

“La Gradisca”

Tutte le figure di rilievo del paese convergono nell’immaginario fascista: dal parroco ai docenti del liceo che Titta e i suoi amici frequentano svogliatamente, all’élite di paese squisitamente fascista, più o meno ascrivibile agli ideali del regime (come lo zio di Titta, fratello di Miranda, che vive da parassita in casa di Aurelio e più che altro pensa alle donne) e ben rappresenta chi si allinea per convenienza, fino alle figure femminili, mostrate negli stilemi usuali del maschilismo di regime. La Gradisca, considerata l’ideale erotico tra le donne del borgo, viene offerta a un aristocratico di passaggio e trova questo suo soprannome proprio nella circostanza in cui gli offre le sue grazie con una gentile disponibilità: “Signor principe, gradisca…”.

Lavorazione di Amarcord. Foto di Davide Minghini, Biblioteca Gambalunga Rimini

La scena più toccante (per me) e più felliniana del film (destino di un autore del firmare un aggettivo con il proprio nome, grande onore riservato a maestri e maestre), da conservare dalla sua visione, è quella in cui, nella notte, durante i bagordi dei fascisti che occupano il paese, si odono le note de L’internazionale: provengono dal campanile del borgo. I fascisti accorrono e cominciano a sparare finché il grammofono da cui si diffonde la musica non cade al suolo, ridotto al silenzio. Una sequenza bellissima, di una poetica esaustiva. Il tocco gentile di una memoria sovversiva solo apparentemente domata mentre imperversano gli “All’armi, all’armi siam fascisti” di una generazione che stava conducendo l’Italia nel baratro. La sequenza si chiude filmando uno striscione su cui compare il celeberrimo “Dio, patria e famiglia” adesso tornato così in auge…

Il cognato di Aurelio ha fatto la spia e per questo l’uomo è stato purgato: le conseguenze dell’olio di ricino – e Titta non capisce quanto è accaduto e prende in giro il padre per la sua diarrea – ci mostrano quanto stiamo dimenticando, le azioni repressive di una dittatura che ha spadroneggiato per vent’anni, con le reazioni avverse di pochi. Atti di controllo sociale da parte di un regime che restano espressione di un istinto e una attitudine di violenza che hanno prodotto ben di peggio, alla confluenza tra squadrismo e cultura borghese. Una storia che continua: altre latitudini, altre dimensioni ideologiche. Ma i totalitarismi si fondano sulla stessa criminale tristezza, un consueto disumanesimo magari apparso nei tratti del folklore di quanto sembrava popolare, inoffensivo, magari espressione di una “buona morale” …

Per dirci una volta di più che il re nudo non smette di essere pericoloso, ma non è più credibile. Denunziarlo in questa condizione è l’inizio di ogni sua possibile sconfitta.

Don Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana