Lucia Filippone con l’aiuto regista Gabriele SmirigliaIl mediometraggio della giovane regista Lucia Filippone narra, attraverso la viva voce di sei testimoni, la Resistenza a Venezia e dintorni: dalla famosa Beffa del Goldoni all’uccisione dei 7 martiri. Gli episodi più violenti attutiti attraverso l’uso di minuscole marionette, così da non turbare gli spettatori più piccoli. Un documentario che chiede di crescere – come avviene al ragazzino che ascolta le memorie dei sopravvissuti e la memoria dei luoghi – e prendere in consegna quella Storia; un lavoro mosso dall’urgenza di non perdere neanche una parola, prima che sia troppo tardi. Lucia Filippone è nata a Treviso nel 1987. Da sempre appassionata di scrittura per il grande e il piccolo schermo, si è laureata prima in Lettere all’Università di Padova (2009), poi in Televisione, Cinema e New Media all’Università Iulm di Milano (2011). Da anni lavora come autrice e regista di documentari, video, pubblicità e programmi televisivi. Nel 2015 ha vinto il Premio Luciano Vincenzoni per giovani soggettisti con la sua opera “Il Diavolo Nero”.

Quando e perché nasce il progetto?

Il progetto è nato nel 2015 in occasione del 70esimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ricorrenza che la concomitante celebrazione del centenario della Grande Guerra aveva fatto passare un po’ in sordina. Dopo aver ascoltato i racconti di Mirco Caenazzo, ex partigiano, ho pensato che fosse un peccato perdere un tale patrimonio storico, sociale e culturale solo per una questione di età anagrafica. Bisognava salvaguardare la viva testimonianza di questi patrioti prima che fosse troppo tardi. Così ho cominciato a cercare gli ultimi protagonisti della Resistenza ancora in vita, a raccogliere le loro esperienze e a confrontarle con le pubblicazioni riguardanti l’argomento, un lavoro che ha richiesto parecchio tempo, ma che alla fine ha dato buoni frutti.

Un fotogramma del film

Era la prima volta che ascoltavi la viva voce dei testimoni partigiani? Se no, quando ancora?

Sì. Sfortunatamente nella mia esperienza scolastica non ho mai sentito parlare di Resistenza. Della seconda guerra mondiale si toccano gli eventi principali, difficilmente si riesce ad approfondire. Solo all’università ho trovato un docente di storia contemporanea che aveva impostato un modulo sulla RSI e la Resistenza universitaria tra Padova e Venezia. In quella circostanza non venni a contatto con partigiani in carne ed ossa, ma con testimonianze scritte, per esempio le lettere di Concetto Marchesi, Silvio Trentin e di altri patrioti.

Basta osservare i titoli di coda per capire che il film ha visto una partecipazione anche familiare alla realizzazione. A questo proposito, quanto ha contribuito la tua famiglia nella trasmissione dei valori legati alla Resistenza? Quale altra agenzia ritieni se ne dovrebbe occupare?

La mia famiglia è stata fondamentale nella realizzazione del film. Pur non avendo vissuto o fatto parte della Resistenza, tutti noi condividiamo quegli ideali di libertà, giustizia, democrazia, patria… È una cosa che sentiamo dentro, un impegno civile e civico che dovrebbe essere comune a tutti e invece sempre più spesso viene a mancare.

Sarebbe troppo facile dire che ad occuparsene dovrebbero essere la scuola o l’Anpi, ma penso che la maggior parte del lavoro spetti alle famiglie. Nel bene o nel male, siamo il prodotto della nostra famiglia.

È un fatto che il film non abbia trovato dei produttori e sia stato autoprodotto: perché pensi sia accaduto? Conosci altri Paesi o realtà da questo punto di vista più sensibili e attente?

Mi è stato detto che un film con un argomento come questo non avrebbe avuto un pubblico ed effettivamente così è: le persone hanno una concezione strana e spesso sbagliata riguardo ai partigiani (briganti, disertori, poco di buono…) e difficilmente accettano di vedere un docufilm sulla Resistenza.

Non trovando case di produzione interessate, abbiamo cercato vari sostegni.

Tanti complimenti per il progetto e tante promesse da parte di molti, ma nessuna sostanza.

Ora, i testimoni avevano una certa età e non potevamo rischiare di perderli, così l’unica via per salvaguardare questa importante parte della storia italiana è stata quella di dar fondo ai risparmi di famiglia.

Non so come funzionino le realtà degli altri Paesi, ma meno supporto di così non si può dare.

Una foto della presentazione del film alla 74esima mostra del cinema di Venezia

Il mediometraggio Li chiamavano Ribelli ha avuto un gran successo quando è stato presentato a Venezia nel 2017, ma è adatto, per durata e linguaggio utilizzato, anche alle scuole. Ti è capitato di essere invitata da alcuni istituti? Che riscontri ha avuto, il film, dal mondo della scuola?

Si sono tenute alcune proiezioni dedicate alle scuole e sono andate benissimo: sale cinematografiche piene, studenti entusiasti che hanno fatto domande a me e ai testimoni presenti. La partecipazione e il gradimento sono stati altissimi. E siamo rimasti stupiti in particolare dall’attenzione con cui i ragazzi seguivano il film: senza fiatare, senza perdere una battuta.

Li chiamavano ribelli ha vinto il “Premio 25 aprile” 2018: con quale motivazione? Puoi dirci qualcosa su questo premio? Sezioni, partecipanti, giuria? Chi lo promuove e a chi si rivolge?
Il concorso nazionale “Filmare la storia”, che si tiene a Torino, premia le opere audiovisive realizzate da e per le scuole italiane, che abbiano come argomento la storia del Novecento. Li chiamavano Ribelli ha vinto il “Premio 25 Aprile” nella sezione riservata ai videomakers come miglior documentario sulla Resistenza. Il premio è promosso dal coordinamento delle Associazioni della Resistenza del Piemonte in collaborazione con l’Anpi nazionale. In giuria anche storici, esperti di cinema, insegnanti e studenti.

La motivazione, a firma del presidente di giuria Bruno Gambarotta è la seguente: “Registri espressivi diversi, che alternano interviste, percorsi sul territorio e animazioni con pupazzi, consentono di giocare il racconto su piani differenti. Il film trasmette bene le peculiarità della Resistenza veneziana e fa emergere chiaramente come la maturazione di un ragazzo passi anche attraverso la consapevolezza dell’impegno di chi lo ha preceduto e l’assunzione di nuove responsabilità”.

L’unica testimone donna, la staffetta Adriana Martignoni recentemente scomparsa, commuove particolarmente, specie quando chiede – quasi scusandosi – di poter dedicare il film a tutti quelli che, come suo fratello, non sono tornati dai campi o sono morti combattendo. Qual è stata la testimonianza che ti ha più colpito? C’è qualcosa restato fuori dal film che avresti voluto – a posteriori – inserire?

Tutte le testimonianze ci hanno colpito, in modi diversi ma nel profondo. Parlando, interagendo con gli intervistati, si è creata una grande empatia. Da un lato il dolore nel ripercorrere quelle vicende, la commozione, tanto per i testimoni quanto per noi, dall’altro i momenti di goliardia, di timide confessioni, che ce li hanno fatti sentire così vicini a noi. Trovarsi davanti una persona novantenne, i cui occhi brillano mentre ripercorre la sua giovinezza, la guerra, le azioni sempre al limite… Abbiamo avuto la percezione di rivederli ragazzi, di avere di fronte a noi quei giovani ribelli.

Ovviamente non potevamo inserire tutto. Avevamo 8 ore solo di interviste! E abbiamo dovuto tagliare quasi 40 minuti di film montato, in modo da mantenere cadenzato il ritmo e una durata consona all’orario scolastico. Una scelta sofferta, ma che ha premiato. Spiace per varie vicende che sono rimaste nell’ombra, ma che avrebbero meritato una maggiore considerazione, come quella della staffetta Ada Salvagnini, che, nel portare clandestinamente da Padova a Venezia alcune bottiglie molotov, rimase gravemente ustionata dal liquido fuoriuscito da una di essere e lottò tra la vita e la morte per un mese, curata in casa dai compagni.

Credi che ti occuperai ancora di Resistenza nell’ambito del tuo lavoro? E, in ogni caso, come ti pare di sperimentarne i principi nella quotidianità, specie di questi tempi?

Di solito cerco di spaziare per quanto riguarda gli argomenti, ma potrebbe ricapitare di parlare di Resistenza. Sicuramente dalle interviste sono emersi degli interessanti spunti per un lungometraggio. Chissà… Bisognerebbe trovare le persone giuste, che credano nel progetto e lo sostengano. In un’Italia come quella di oggi, in cui troppi ignorano o hanno dimenticato la nostra storia, sarebbe opportuno rispolverare l’album dei ricordi. Potremmo ritrovare molte analogie che adesso ci sfuggono e potremmo dare un nuovo significato ai concetti di libertà e democrazia. Potrebbero cambiare tante cose. Forse i giovani non lascerebbero il Paese e rimarrebbero, così come i loro coetanei di allora, per cercare di sistemare le cose. Resisterebbero.

per informazioni: lichiamavanoribelli@gmail.com

Un trailer del film