«Nessuno si fa strada da solo, men che meno una donna! Devi trovare un buon partito!», dice la zia di Jo March alla nipote che rivendica il proprio sogno di affermazione.

Sta tutto qui il succo di questo film di Greta Gerwik, “Piccole donne”, premio Oscar 2020 che, ispirato all’omonimo romanzo di Louisa May Alcott del 1868, portatore di una visione moderna e anticipatrice e letto da migliaia di adolescenti delle vecchie generazioni, solleva problematiche femminili ancora attuali.

Nella vicenda delle quattro ragazze di Concord, contea di Middlesex, in Massachusetts. nei loro sentimenti e diverse reazioni, in un mondo tutto maschilista che rispecchia la biografia dell’autrice e riflette anche il curriculum della regista californiana, impegnata in tutte le cause progressiste, possiamo ritrovare incorniciato il tema secolare della lotta contro l’inferiorità della donna. L’identificazione di Jo (Saorse Ronan) con l’autrice del romanzo è un’invenzione di Greta Gerwik che rende il personaggio emblematico. La protagonista, cardine della trasposizione cinematografica, rivendica il diritto di divenire scrittrice e di affermarsi, ma è presa sotto gamba dall’editore che sfrutta il suo talento e le impone miseri compensi. La zia danarosa e supponente (Meryl Streep) la invita a tornare nei ranghi, a rinunciare a velleità irrealizzabili, a fare un buon matrimonio altolocato e a sottoporsi al copione familiare. Ciò che conta è la ricchezza. Ma le scelte della ragazza sono controcorrente, per la scrittura, per la sua meta, la vedremo lottare. Malgrado le differenze di abiti e di costume – siamo all’epoca della guerra di Secessione americana – spicca nel film l’antitesi tra i valori effimeri del denaro e del privilegio sociale e quelli del cuore e dello spirito, presenti anche nel clima e nei fatti di oggi. Ecco perché la riproposta sullo schermo potrà interessare un pubblico non solo giovanile e non solo femminile e illuminare chi non è ancora libero da pregiudizi sul problema donna.

Suffragette inglesi (da https://sl.sbs.com.au/public/image/file/53db7ece-467f-4258-b043-c561cb85b110)

I dilemmi di fine Ottocento delle sorelle March hanno in effetti lo stesso segno di certe vicissitudini delle donne di oggi. Cosa è cambiato nel percorso sempre difficile degli ingegni femminili malgrado i passi in avanti di una collettività spronata eroicamente dal femminismo? Nella società globale che almeno in Occidente ha abbandonato apparentemente il prototipo delle tre k (cucina chiesa e camera dei bambini) l’ostacolo dell’immaginario machista (la donna oggetto moglie o madre sottomessa) ingombra sempre l’esistenza muliebre. Vi si aggiungono la pirateria finanziaria del profitto e le ipocrisie istituzionali. Il lavoro manuale o intellettuale delle donne ovunque sottopagato è un enorme vantaggio per i padroni, in famiglia, nelle aziende e negli uffici.

Da un lato vediamo i decolli femminili, i risultati eccellenti negli studi, nell’arte, nella scienza, nello sport, nei media, dall’altro le disparità salariali, le esclusioni dai vertici istituzionali, le penalizzazioni nelle carriere e peggio ancora nella cronaca quotidiana gli stupri, i femminicidi. Ci angustia la cattura di molte donne alla subalternità che persiste per paura, per debolezza, ignoranza, frivolezza, isolamento. La Alcott insegna: bisogna cominciare presto a capire e resistere.

Nel film le sorelle appaiono come la personificazione di vari lati dell’animo femmineo. La forza dell’ingegno che mira ad imporsi (Jo), la dolcezza e fragilità (Beth), i sentimenti materni e l’amore (Meg) la vanità e superficialità (Amy).

I ruoli portanti e contrapposti di Jo ed Amy, interpretati da brave attrici (premiate con l’Oscar la Ronan e la Pugh) sovrastano quelli delle altre sorelle. La prima esprime l’orgoglio femminile vincente che non si arrende, proprio come la Alcott. La più piccola Amy (Florence Pugh) è il suo opposto, capricciosa, ancora infantile e in segreta competizione con lei. Desiderosa di successo, somiglia a tante ragazze di oggi, col miraggio dell’apparenza, delle “cose”. “Arrivare”, “apparire”. Ma qual è l’approdo? Ieri le feste delle debuttanti e un principe azzurro facoltoso, oggi le truffe della bellezza, gli abbagli delle comparse in tv, i reality, i narcisismi, l’effimero e per tutte, le cocenti delusioni.

Jo instaura col vicino di casa Laurie (Timothée Calamet), ragazzo intelligente e anticonformista un rapporto di amicizia tra pari, originale per quei tempi. Non accetta di sposarlo anche se Laurie le piace, ma ragiona sull’urto inevitabile delle loro personalità e vede in pericolo la propria autodeterminazione. Solo in seguito, desiderosa di affetto e stanca della solitudine, rinuncerà alla situazione di single e accetterà il matrimonio. Ma non con Laurie che si sposa con Amy. Il suo compagno sarà Friedrich (Louis Garrel), uomo colto e rispettoso della parità.

La scelta delle nozze è un compromesso necessario. L’editore pretende per la pubblicazione del romanzo autobiografico di Jo (e della Alcott) una conclusione che deve piacere al grande pubblico. Anche questo particolare riporta ai condizionamenti a cui spesso devono sottostare, anche nel presente, le intelligenze femminili. Quanto ad Amy, dopo i viaggi a Parigi e a Londra, si accorgerà dei propri limiti nella pittura e nella vita, ridimensionerà i suoi programmi grandiosi ritrovando una dimensione umana nell’amore per Laurie.

La sorella maggiore Meg (Emma Watson) ha prospettive semplici, aspira alla felicità domestica e la soddisfa sposando John (James Norton), un bravo insegnante. Caccerà la tentazione dell’avere, punterà sul dare, apprezzando il valore della condivisione di un ménage modesto ma sincero.

Beth (Eliza Scanlen) sensibile e artista, vive in un mondo ideale, si identifica con la musica. Il signor Laurence, nonno benestante e paternalista di Laurie (Chris Cooper), commosso dalla sua grazia e disponibilità, le donerà quel prezioso pianoforte che è tutto per lei, prima che la malattia tronchi precocemente i suoi giorni.

Se le protagoniste compiono a loro modo una libera scelta di vita, un certo merito va alla madre Marmee (Laura Dern). Forse poco appariscente nel contesto filmico, fa però in tempo a dare l’idea di una genitrice intelligente e comprensiva che regge da sola i fili dell’armonia familiare. È attenta a incoraggiare il legame affettivo tra le sorelle, l’altruismo, il libero sviluppo delle loro qualità e l‘acquisizione di una responsabilità personale. Il padre cappellano (Bob Odenkirk) impegnato nelle operazioni di guerra riflette invece l’assenza maschile, emblematica di una condizione diffusa, la lontananza. Il che ci fa riflettere su un altro fenomeno tutt’altro che risolto: il peso dell’educazione dei figli ancor oggi enormemente sbilanciato, troppo spesso sulle spalle esauste della donna, quale ne sia la ragione.

Nel romanzo come nel film Laurie, John, Friedrich, i giovani partner scelti dalle piccole donne rappresentano mentalità nuove e antitradizionaliste, rispetto e collaborazione verso le loro amate.

Seguendo lo scorrere dei fotogrammi scopriamo anche il gusto pittorico di diverse scene, il fascino della natura, come negli indovinati paesaggi marini e quelli invernali. Significativa e ricca di umanità la sequenza del Natale in cui la mamma invita le figlie a rinunciare alla loro colazione festiva per donarla a una famiglia di poveri del vicinato.

Certo, per chi non conosce il romanzo, non è sempre facile seguire nel film la successione temporale dei fatti. La narrazione procede per tasselli rievocativi. Gli stacchi dei flash back, dal presente alla memoria del passato di Jo narratrice, sono a volte troppo bruschi e privi di dissolvenze. Ma ciò che è interessante è l’attualizzazione dell’intreccio portata a buon fine.

Lo slancio delle sequenze è tutto contemporaneo, mostrando come odierni sentimenti e gesti che escono dalle strettoie delle date. La solidarietà delle sorelle verso i più deboli, l’istintiva propensione alla giustizia per sé e per gli altri, ma anche i desideri, le debolezze, rinverdiscono l’immagine antica dell’album fatta di costumi pittoreschi, gonne lunghe e merletti, scavalcando il tempo e suggerendo somiglianze e confronti con le inquietudini giovanili intorno a noi. Ci portano ad una convinzione finale: anche queste esperienze sono servite. La lotta continua. Ora le piccole donne sarebbero tra le manifestanti del 2000, in leggings e minigonne e nella voce unanime di protesta “NON UNA DI MENO”.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice