Elio Bartolozzi (da https://www.youtube.com/watch?v=JtX_MF3pMIo)

Si dice che i grandi uomini cavalcano la storia, in questo caso è la storia che ha deciso di entrare, in maniera prepotente, nella vita di un uomo e di renderlo un “grande”, nonostante la sua estrema semplicità.

Stiamo parlando di Elio Bartolozzi, classe 1924, nato a Mangona, località di Barberino del Mugello, quarto di cinque figli, da Angiolo, mezzadro, e da Maria Isola Marchi, casalinga.

All’età di sei anni, a causa di un incidente di gioco, perde l’occhio destro, cosa che gli crea delle difficoltà nel seguire gli studi. Finita la terza elementare, ripone il calamaio e il quaderno e inizia ad aiutare il “babbo”.

In piena seconda guerra mondiale, nel 1942, al raggiungimento del 18° anno di età, viene sottoposto alla visita di leva. È un ragazzo 1,73 m, con un viso squadrato, la fronte alta e spaziosa, insomma un bel ragazzo, se non per la menomazione visiva che lo rende “rivedibile”, con i coscritti del 1943. Elio è contento di poter continuare la sua vita di contadino e poter aiutare i genitori, insieme al fratello tredicenne, Dario. Del resto altri due fratelli, Gino (classe 1919) e Dino (classe 1921), sono sui fronti bellici, rispettivamente, della Russia, il primo, e della Jugoslavia, il secondo.

L’8 settembre 1943 viene annunciato l’armistizio, ma non la fine della guerra come sperato da tanti. L’Italia è occupata dai tedeschi, che instaurano la Repubblica di Salò, nasce la Resistenza. Il nostro protagonista assiste agli eventi senza schierarsi. Nonostante le pressioni del maresciallo dei Carabinieri, fascista, che gli dice «O stai da una parte o dall’altra. Se non sei con noi, nei fatti oltre che con le parole, sei contro di noi», lui stava con la terra e con la sua famiglia.

Ma la storia ci mette lo zampino e una sera d’aprile del 1944, mentre sta terminando di lavorare nei campi, vede una colonna partigiana avanzare verso la stazione ferroviaria di Montorsoli. «Si trattava di due distaccamenti provenienti entrambi dalle prime bande di Monte Morello e […] confluiti nelle due brigate Lanciotto e Fanciullacci […]. Al comando […] Marino Cosi che aveva fatto parte del gruppo delle Panche». [1]

Di lì a poco, sente il fragore delle armi e poi il silenzio. Secondo le fonti fasciste, ci sono tre feriti tra i militari e tre civili, mentre i partigiani parlano di dieci miliziani caduti. Nel frattempo Elio, come se nulla stesse accadendo, rientra in casa e si prepara a mettersi a tavola, quando bussano alla porta. Frastornato, apre: sono i partigiani, gli chiedono di trasportare con il carro due feriti, fino a Pescina. Uno dei due è il ricercatissimo Camelli Lino, detto il Lupo. “Io sentendo questo m’impressionai molto, perché pensai d’essere preso dai tedeschi dopo, ma pazienza, tirai a salvare i due partigiani”. Senza rendersene conto, dinanzi alla vita di due uomini, aveva optato per salvarli, consapevole delle possibili conseguenze, che non si fecero attendere.

Infatti, non appena tornato, verso l’una di notte, non fa in tempo ad andare a letto, che viene costretto ad aprire la porta alle cagoule repubblichine e naziste, le quali hanno saputo, da un informatore, del suo appoggio ai partigiani. Vogliono sapere dove ha portato i feriti.

Non aspettano che parli, gli danno “pugni, calci, schiaffi e poi non contenti” gli sputano in faccia.

Villa Fossati conosciuta come “Villa Triste”, uno dei quartier generali del famigerato Pietro Koch e del suo reparto speciale inquadrato nelle SS italiane. Alcuni locali divennero stanza di tortura (da https://socialpopularnews1.altervista.org/ crimini-dei-fascisti-la-banda-koch-le-torture-villa-trieste/)

Elio dice che ha lasciato i partigiani, con i feriti, ad un crocicchio nei pressi di Pescina, aggiunge che non ha chiesto dove sarebbero andati, dal momento che a lui non interessava. Lo ammette, con semplicità e senza problemi, poiché non ha fatto niente di male, se non aiutare qualcuno in difficoltà. Del resto, aggiunge, lo hanno costretto con le armi, come stanno facendo loro. Ma ha dimenticato con chi sta parlando. Lo prendono, lo pestano, lo chiamano “Traditore!”. Quando si rendono conto che insiste con la versione del crocicchio, si spazientisco, lo trascinano fuori casa e lo fanno salire su un camion, quindi lo portano alla sede delle SS, villa Trieste, in via Bolognese.

Qui, riprendono l’interrogatorio, con l’aggiunta di maltrattamenti, sono “assettati di sangue”. Elio ripete innocentemente quanto ha detto a casa, ma gli aguzzini non si accontentano ed essendo stanchi, si danno il cambio. Solo dopo molte ore, decidono di rinchiuderlo in una cella sotterranea, senza finestre. Ve lo accompagnano a suon di calci e di spinte. [2]

Verso le 11 del giorno dopo, gli viene portato il rancio, acqua calda con pane tedesco.

Alle 9 di sera viene fatto salire su un camion, insieme ad altre persone, e condotto al Carcere delle Murate di Firenze. Vi rimane per due lunghi, interminabili, mesi. Durante i quali è “sconsolato, non mi si faceva giorno in viso”, unico conforto le visite della madre e la possibilità di ascoltare la messa, ogni due settimane.

Poi, la sera dell’11 giugno, gli viene detto di prepararsi a partire, destinazione sconosciuta. Viene preso in consegna, insieme ad altri, dalle SS che li fanno salire sugli autocarri. Ripassa dinanzi a casa sua, la saluta con la mente e la piange con il cuore, ma non può fare altro. Quindi aspetta di vedere cosa succede. Al mattino scopre la destinazione: Fossoli.

Il lager di Fossoli (da https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_Fossoli)

Dalla metà del febbraio 1944, Fossoli è un Polizei-und Durchgangslager (Dulag 152), cioè un lager di Polizia e di transito sotto il comando tedesco, dipendente dal Servizio di sicurezza di Verona, di cui è responsabile il maggiore delle SS Friedrich Bosshammer. Comandante del campo è un sottufficiale SS, Karl Titho, aiutato dal maresciallo Hans Haage. [3]

Il primo giorno trascorre con il rito del cosiddetto “incorporamento”, cioè bagno, taglio a zero dei capelli, assegnazione del triangolo rosso, proprio dei detenuti politici, e del numero. Il suo è 1710, da quel momento ha perso il nome, il cognome e ogni elemento di umanità.

Ben presto, si rende conto che a Fossoli non ci sono regole, se non quella di non poter fuggire, ma per il resto s’è liberi di fare quello che si vuole. Non riesce a scrivere a casa, per l’avanzata degli Alleati non può ricevere alcun pacco, quindi deve ingegnarsi.

La fortuna gli viene incontro. Data la sua esperienza di contadino, viene nominato, insieme ad altri 7 detenuti, ortolano del campo. In questo modo può mangiare verdura e sopravvivere. Anche se al campo si vive “con la morte alla gola”, poiché ogni sera, durante l’appello, appariva il maresciallo delle SS “che aveva la nota degli eliminati, il quale chiamava per numero, a chi toccava toccava”. Inoltre, Elio apprende della tragica morte di Leonardo Gasparotto, esponente di Giustizia e Libertà, eseguita per ordine del comandante del campo, solo perché sospettava che stesse preparando un tentativo di fuga.

La sera del 5 agosto viene fatto salire su una colonna di autocarri, destinazione Austria, Gau Oberdonau, Mauthausen.

Il viaggio è lungo, dal momento che i ponti sul Po sono stati bombardati dagli Alleati. Dopo 30 ore di viaggio giungono a Bolzano, presso il Polizeiliches Durchgangslager, nel sobborgo di Gries.

Qui l’accoglienza è il preludio di quello che troverà nel lager, cioè maltrattamenti gratuiti e fame. In particolare ricorda la tortura di un poveretto: “Lo legavano per le mani, nudo e lo trascinavano per il piazzale, dopo un giro o due lo piazzavano sotto la pistola dell’acqua diaccia e lo lasciavano e poi lo ritrascinavano e poi lo rilavavano fino alla durata di 4 ore e alla quarta il poveretto era costretto a passare da questa all’altra vita”.

Il pomeriggio del 10 agosto, vengono trasferiti alla stazione mediante una marcia in mezzo ai frutteti, una tortura per degli affamati, ma guai a raccogliere una mela o altro, la morte era la punizione. Sono stipati in 40, in vagoni bestiame con i finestrini bloccati dal filo spinato.

Per un caso, la porta del vagone dove viaggia il nostro protagonista non viene bloccata, dopo tanto patire riescono a sbloccarla, ma sono costretti a richiuderla perché prossimi alla stazione del Brennero. Rinviano a dopo, ma i militi s’accorgono dell’anomalia e chiudono bene il portellone.

Cinque compagni di sventura decidono di fuggire lo stesso, manomettono il filo spinato e saltano giù, dal treno in corsa. Elio e gli altri giunti a Salisburgo segnalano la fuga dei compagni, onde evitare ripercussioni. Il viaggio continua, in mezzo a città bombardate che fanno presagire l’arrivo degli Alleati.

Giunti a Mauthausen, il treno si ferma sino alla sera. All’improvviso si aprono i portelloni, nessuno crede che sia la stazione d’arrivo, ma devono ricredersi subito, quando le guardie li spingono con il calcio dei mitra fuori dai vagoni e li costringono a inquadrarsi per 5. Quindi li conducono verso il campo a passo di marcia, divertendosi a punire chi sbaglia. Entrato al campo, si rende conto di ciò che lo aspetta e assiste al maltrattamento con il nervo di alcuni compagni. Viene assegnato a una delle tre baracche, dorme a terra, sopra altri compagni, senza coperte. Il secondo giorno sono tutti inquadrati, portati nel cortile, quindi passano a consegnare i vestiti, gli effetti personali, le valigie e ogni altro avere. A Elio viene concesso di tenere la cinghia. Quindi a colpi di nervo, accompagnato alle docce.

Dopo gli consegnano delle mutande e nient’altro. I deportati sono scortati a una baracca di disciplina, lasciati per cinque giorni al dileggio e al piacere di delinquenti polacchi, russi, spagnoli, che hanno assunto il ruolo di “Prominenten”, anche detti “Pridurki”. [4]

Lo scopo è far comprendere che devono obbedire e che la loro vita vale niente.

Al termine di questa “educazione” viene consegnato il numero, a Elio tocca 82271, che deve portare come un braccialetto sul braccio, un paio di pantaloni e una giacca: “da noi quella roba erano stracci, che non gli avrebbe ricevuti neanche il camiciaio” e inoltre gli viene comunicato che dovranno lavorare per “far vincere la guerra e per guadagnarsi il cibo”.

Entrata principale del lager di Gusen, composto da tre dei quarantanove sottocampi del campo principale di Mauthausen (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Campo_di_concentramento_di_Gusen)

Viene trasferito al campo di Gusen, dipendente da Mauthausen, distante 4 km. Da questo lager “non c’era verso di partire” se non dal camino.

Bartolozzi, insieme ad altri 40 italiani, viene assegnato a un capò, ex criminale, che non li manda a lavorare per i primi tre giorni, ma li tiene alle sue dipendenze, facendoli patire le peggiori atrocità. Il quarto giorno vengono condotti in una miniera, devono estrarre sabbia. Lavorano per 12 ore e ogni giorno vengono assegnati a un capò nuovo.

Elio riesce a stabilire dei buoni rapporti con tre internati, con i quali condivide le giornate, le notti e, soprattutto, la speranza di rientrare a casa sano e salvo.

Giunge aprile, la situazione è difficile: “la fame ormai che non era più fame, il sonno non più sonno, il gelo non più gelo”. Elio è smunto, come molti suoi compagni di prigionia, teme di non farcela e di diventare un destinato alle camere della morte.

Ma la mattina del 5 maggio accade il miracolo, gli Alleati entrano nel campo e “proprio il giorno della liberazione anch’io ero alla fine delle mie gambe, non stavano più ferme […] gli occhi mi brillavano [febbrili], di me non rimaneva quasi nulla, la mia immagine era quella di uno scheletro che camminava”. I compagni si gettano alla ricerca dei kapò per eliminarli e vendicarsi, ma Elio decide di rimanere nella baracca, non ha forze e non vuole rischiare di morire, proprio quando è stato liberato.

Per sua fortuna, un compagno cattura due conigli e la sera può annotare “ho ripreso un po’ di forza e di spirito […] sebbene il mio morale sia sempre stato alto, alimentato dal pensiero di tornare a casa dai miei cari”. [5]

Nei giorni seguenti trova le energie necessarie per intraprendere il viaggio di ritorno. Il 22 maggio 1945, il comando Alleato gli consegna un certificato d’identità e adesso via, verso casa.

Impiega un mese per raggiungere il territorio italiano. Il 25 giugno ottiene dal Comitato di assistenza ai rimpatriati del Cnl dell’Alto Adige, un foglio di via, perché possa viaggiare da Bolzano a Sesto Fiorentino. Passano due giorni e il 27 giugno Elio ottiene un documento dal Comando territoriale di Bologna, Centro alloggio militari e reduci (doc. n. 36022), per proseguire in direzione di Firenze. Arriva nel capoluogo toscano il 28, quindi sale su un camion, direzione Montorsoli, più o meno come aveva fatto all’andata, per poi avviarsi a Ceppeto. L’ultimo tratto è duro, deve scarpinare, dal momento che in pochi lo riconoscono e gli offrono un passaggio sul carro. Una donna però lo riconosce e corre ad avvertire la famiglia, che lo accoglie a braccia aperte, ci sono tutti, tranne la nonna, morta qualche anno prima.

Il proposito è quello di riprendersi e di ritornare forte come al momento della cattura. Nel frattempo, comprende che il suo arresto non è avvenuto per caso, ma per una spiata, come rivelerà all’autore della “Bibliografia dell’oppressione nazista” e celebre psichiatra Andrea Devoto: «Elio quando racconta del contadino che ha accompagnato a casa sua tedeschi e fascisti dice: “Poi ci sarebbe un’altra cosa, ma questa l’ho tenuta [per me], bisognava tenerla: perché lì [a casa mia] i tedeschi ce li ha portati uno e a me mi hanno massacrato di botte, e quello non è stato toccato».

Ma non lo denuncerà, la vita dei campi prima e la prigionia dopo gli hanno insegnato che non è la rabbia, la violenza e la vendetta a dare serenità; per questo motivo, dimentica, o meglio lascia sbiadire il nome, nel suo cuore, per poter continuare a vivere sereno e con il sorriso fino al gennaio 2004, quando ci ha lasciato, restando tuttavia un imperituro, chiaro esempio di eroismo quotidiano.

Stefano Coletta, professore di storia


[1] Elio Bartolozzi, La mia vita prigioniera, Memoriale di deportazione di un contadino toscano a cura di Marta Baiardi prefazione di Enzo Collotti, Mursia, Milano 2009-2010.

In Introduzione, pg 38

[2] Intervista di Andrea Devoto a Elio Bartolozzi, cit.

[3] Sessi, Frediano. Elio, l’ultimo dei Giusti: Una storia dimenticata di resistenza (Italian Edition), Marsilio. Edizione del Kindle.

[4] http://www.deportati.it/dizionario/p/prominenten/

[5] Sessi, Frediano. Elio, l’ultimo dei Giusti: Una storia dimenticata di resistenza (Italian Edition), Marsilio. Edizione del Kindle.

Per approfondire anche:

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=3&cad=

rja&uact=8&ved=0ahUKEwiXm7aHo-PYAhUFUhQKHRBvALcQFgg0MAI&url=

https%3A%2F%2Fwww.fondazionefossoli.org%2Fit%2Fnews_view.php%3Fid%3

D489&usg=AOvVaw26KJD_Y_xlpTCQFg297efg