
Tra il 1941 e il 1943 l’occupazione militare italiana in Montenegro provocò saccheggi, deportazioni, fucilazioni con migliaia di vittime civili. Nella confusione delle settimane successive alla dichiarazione di Armistizio molti soldati italiani sceglieranno però di combattere i tedeschi aderendo alla Resistenza jugoslava. Sono ventimila, la metà circa dei quali non torneranno mai a casa dalla guerra. In Montenegro si forma la più grande unità partigiana interamente italiana in Jugoslavia, la divisione Garibaldi, che ha combattuto fino alla completa liberazione del territorio e viene rimpatriata via mare nel marzo del 1945. A questa vicenda Eric Gobetti ha dedicato molte ricerche, che sono confluite nel libro La Resistenza dimenticata (2018, Salerno editrice) e nel docufilm Partizani (2015, disponibile sulla piattaforma openddb.it).

Nel corso della lotta partigiana i comandi superiori jugoslavi hanno eseguito alcune indagini per accertare eventuali crimini di guerra commessi nei mesi dell’occupazione. Una decina di ufficiali italiani vennero giudicati colpevoli e fucilati. Come si sa, l’Italia non ha avuto un procedimento analogo a quello di Norimberga e i condannati in Montenegro sono gli unici criminali di guerra fascisti che subiscono un processo per ciò che hanno commesso durante le occupazioni militari. In questo racconto di cui Eric Gobetti ci ha fatto omaggio, l’autore prova a immedesimarsi (a partire dal nome!) nell’esperienza di quegli uomini, immaginando le loro emozioni, il loro punto di vista, la loro confusione. Il protagonista è un personaggio di fantasia, ispirato però a eventi realmente accaduti. Con questo racconto Eric Gobetti ha vinto nel giugno 2025 il premio letterario montenegrino Polimski Soko.
Il maggiore Gobetti
Sono il maggiore Gobetti Enrico, comandante del III battaglione dell’84° reggimento di fanteria della divisione Venezia. Sono nato a Pistoia il 6 marzo 1917. Cosa volete ancora? Lo sapete cosa dice la Convezione di Ginevra sui prigionieri di guerra? E poi io non mi considero un prigioniero, perché io sto dalla parte vostra, siamo alleati adesso, o no? Perché allora mi state interrogando? Comunque io non ho niente da nascondere, vi voglio raccontare tutto. Non solo tutto quello che so, ma tutto quello che sono. E allora ricomincio.
Mi chiamo Enrico Gobetti, sono nato il 6 marzo 1917, a Pistoia. Ho 27 anni, ne devo fare 28. Ero comandante del III battaglione dell’84° reggimento della divisione di fanteria da montagna Venezia. Sono stato in Albania, prima, poi in Montenegro. Ero qui a Berane, lo sapete vero? Ci sono stato per due anni, oramai era quasi casa, avevo più amici che a Pistoia. Davvero! Non mi credete? Collaborazionisti? Non so, non saprei. Per me erano tutti montenegrini, gente del posto, come facevo a sapere, a distinguere? Erano brava gente. Che ci aiutava, certo. Ma noi aiutavamo loro. Ma mica solo i soldati, quelli che combattevano con noi. Eravamo amici di tutti, qui in città, dei negozianti, dei contadini, delle ragazze… Non fraintendetemi. Noi delle ragazze avevamo rispetto. Va bene, ok, non tutti, lo ammetto, ho sentito anche io certe storie, ma c’erano anche storie d’amore, davvero, c’era un soldato che…

Darinka? Sì. Me la ricordo. Ero il comandante, sì. Ufficiale di complemento. Non sono di carriera, io. Lavoravo in uno studio legale, ho fatto l’università, Giurisprudenza, io volevo fare l’avvocato, avere uno studio mio, difendere le persone, gli innocenti. E ora guardatemi, mi tocca difendere me stesso e non so nemmeno da dove cominciare. Non so nemmeno se sono innocente. Fascista? Non ero fascista. Sì, lo so, lo dicono tutti. Ma davvero, io non ero fascista. Certo, avevo la tessera della Guf; sono i Gruppi Universitari Fascisti. Ma quella ce l’avevamo tutti. Insomma, non era facile senza tessera in Italia. Dovete capire… Se c’è una cosa che ho imparato nei Guf è quella di diffidare dei capi, dei gerarchi, dei regimi. C’erano tutti quei capetti, ognuno si sentiva un piccolo Duce, e ci teneva a dimostrarlo. Insopportabili! Uno peggio dell’altro…
Sì, anche io comandavo, è vero. Ma non sono mai stato bravo con queste cose. Sono ufficiale di complemento, ve l’ho detto, io non so come si fa la guerra. Molti colleghi ne sanno più di me, chiedete a loro, quelli professionali. Io eseguivo gli ordini, cercavo di fare il giusto, il mio dovere di soldato. Obbedire e comandare, guidare e farsi rispettare. Sembrano solo parole, ma quando hai di fronte il nemico che ti spara addosso non hai molta scelta.
Vi voglio raccontare una cosa. No, davvero, ascoltatemi voi adesso, per un momento, senza fare domande. La data del 10 agosto 1941 non vi dice niente, vero? Ascoltate. Quel giorno faceva un caldo infernale, sui camion stavamo tutti con gli elmetti in mano. E quando ci siamo buttati giù di corsa, nessuno che trovava il suo. E poi il rumore, il sangue; il sangue che si mischiava con quello degli altri. Contadini con operai, avvocati con cavalieri dell’Ordine di Malta. Siamo tutti uguali davanti alla morte. E anche alla paura: nervi e intestini. L’orrore, la rabbia, l’impotenza. Lì, buttato fra le ruote dei camion piangevo, stringevo gli occhi e pregavo. E meno male che c’era il sergente Bonfanti, che quello sì che la guerra la sa fare, e mi ha trascinato via, nel fosso della strada. Poi tutto è finito com’era cominciato. Cinque, dieci minuti al massimo; a me sembrava una vita intera. Una delle tante perse quel giorno. Dodici caduti. Per la patria, si dice. Gli abbiamo fatto un bel funerale, col generale, la banda, il cappellano militare e tutto il reggimento sull’attenti.
Ecco, questa è stata la mia guerra. Loro ci sparavano addosso. Scusate: voi ci sparavate addosso, e noi non ci capivamo niente. Mi chiedevate se ricordo la fucilazione. Certo che me la ricordo. Darinka si chiamava. Che nomi, da queste parti! Come tutti quei Giurisich, Stanisich, Giucanovich… era difficile ricordarseli tutti, e distinguerli. Verdi, bianchi, rossi. Noi ci scherzavamo: sembrava il tricolore! I nostri, quelli più fedeli, erano i verdi, ma ce n’erano pochi. Poi c’erano i bianchi, che ti potevi fidare fino a un certo punto, ma almeno combattevano davvero contro i rossi. Erano i nostri alleati, ma non sembravano proprio dei soldati. Avevano la barba lunga, puzzavano di grappa e montone. Però sapevano combattere, combattevano per qualcosa. Per la patria, dicevano; ma quale? Quante patrie avete da queste parti?

Come facevamo a capire che anche voi comunisti combattevate per la patria? Voi combattete per Stalin, ci dicevano, e ci pareva semplice. La vostra patria è il mondo intero, ci dicevano, che vuol dire non avere nessuna patria. Ma come si fa senza patria? E come stare senza padre, figli bastardi senza una direzione. Invece voi la direzione la sapete, la vostra strada è l’idea. Che è anche un’idea di patria. Solo che non è la patria di ieri o di oggi, ma quella di domani. Sembra una cosa da matti, ma ora forse un po’ la capisco. Lottate per una patria che non c’è, una patria che forse non ci sarà mai. Eppure combattete, tutti insieme, serbi, montenegrini, musulmani, albanesi. E tutti insieme combattete senza pensare alla morte, ma al futuro. Voi non vi nascondete sotto ai camion; vi gettate davanti alle mitragliatrici, fino a quando non le fate saltare a furia di bombe a mano.

Come si fa a combattere contro gente così? Mi fate paura, anche adesso che vi conosco, anche adesso che siete qui davanti in carne ed ossa e mi state processando per cose che ho fatto prima, o che non ho fatto mai. Che cosa ho fatto davvero? Qual è la mia colpa? Noi dei vostri ne prendevamo pochi. Prendevamo i poveretti, i contadini che si incontrava per strada, i pastorelli sulle montagne. Stavano tutti con voi, così ci dicevano. E forse era vero. Perché qualche volta si trovavano le prove. Come quella ragazzina che teneva sotto le vesti i vostri volantini comunisti. Aveva già diciott’anni? L’abbiamo fucilata, sì. Era giusto? Non lo so. Bisogna sapere da che parte stare, in guerra. Lei lo sapeva. Io non lo so. Lei non ha mosso un muscolo, ci guardava e non diceva niente. Io ho dato l’ordine. In guerra funziona così. Obbedire, comandare. Io ricevo un ordine, i miei soldati lo eseguono. Una scarica ed è tutto finito. Era incinta, la ragazza. La lettera per il fidanzato l’ho tenuta io, la volete vedere? Il piombo, il sangue. Pochi secondi. Io ricevo ordini e li dò. Così funziona.

Poi un giorno ti svegli e arriva un ordine che non capisci. La guerra è finita, sì, ma bisogna resistere ad attacchi “da qualunque provenienza”. Cioè? L’abbiamo capito presto. Eravamo come topi in trappola, in fondo al Montenegro. Coi gatti tutto intorno e stavolta c’erano anche i tedeschi. Quando il generale ci ha riuniti aveva gli occhi rossi. Io credo che avesse pianto. Ha ricordato il fratello ucciso sull’Isonzo, nell’altra guerra, e ci ha chiesto da che parte stare. Non ci arrenderemo! tuonava. Aveva ragione, lo sapevamo tutti che aveva ragione, ma con chi stare? Da soli in quel buco non si poteva vivere.
Poi le cose sono andate avanti da sole. Il vento si alzava ogni mattina più insistente, il sole calava più presto. Settembre, ottobre. Quando ho visto la colonna di Dapcevich che entrava a Berane quasi non ci credevo. Erano i primi comunisti che vedevo in vita mia. Quasi pensavo che non esistessero nella realtà, me li immaginavo tutti come Darinka: belli, spavaldi, giovani e incoscienti. Invece ce n’erano di tutti i tipi: alti e magri, belli e brutti, vecchi e quasi bambini. E le donne, coi pantaloni e la giacca militare e la stella rossa sul berretto. Mi pareva un sogno, un incubo, come se cento, mille Darinka fossero uscite dalla tomba per chiedermi ragione, per dirmi: cosa ci faccio qui, a diciassette anni?

E all’improvviso ho capito. Il popolo. Sporco, stracciato, bello o brutto, era il popolo che marciava tra le vie di Berane. Così, d’istinto, ho abbracciato una di quelle drugarize e lei mi ha abbracciato anche, e mi sono sentito meglio, e ci siamo sorrisi e abbracciati ancora e ancora e quel giorno, quel 10 ottobre 1943 non me lo dimenticherò mai, perché è stato come quando da bambino che ti sbucci un ginocchio e la mamma ti consola e fra le lacrime sai che poi tutto passa, che si fa la crosta e che quella ferita è il segno della crescita, il segno che stai diventando grande. Ci credevo davvero, quel giorno.

Poi, neanche una settimana dopo eravamo già al fronte, coi tedeschi che attaccavano da tutte le parti. Voi lo sapete che significa avere uno stuka che ti piomba addosso dall’alto? Con quel sibilo d’inferno che non senti neanche il compagno che ti dice di gettarti a terra, rimani lì, a guardare la bomba che cade, lenta, in mezzo ai tuoi soldati e li vedi come birilli cadere in tre o quattro. E poi scappare per le montagne, scappare per giorni, per settimane, con la neve al ginocchio, la bava alla bocca dalla fame, le labbra che si spezzano per la sete. Fa male tutto, ogni singola parte del corpo, e perdi pezzi. Pezzi di vestiti, di scarpe, di munizioni. Pezzi d’orgoglio. Ti cresce la barba, sempre più lunga, arrivano i pidocchi. E tu cammini, cammini, cammini…Sì, voi lo sapete cosa vuol dire; ma per noi era dura, e non avevamo nemmeno la patria da sognare, la vostra patria nuova da immaginare.
Ecco, ho finito. Volete sapere quanti dei vostri ho ammazzato? Nessuno. Non ci credete? Ho sparato, sì, ho sparato nel nulla, nel vuoto. E le fucilazioni? Ve l’ho detto. Comandare, obbedire. È una macchina, funziona coi suoi ingranaggi. Giudicatemi, sono pronto. Aspetto qui. Un posto vale l’altro, tanto poi siamo tutti terra e polvere. Non so se sono stato capace di difendermi, credo proprio di no. Forse in fondo non sarei stato un buon avvocato. Almeno non lo sono stato di me stesso. Le mie colpe le ho, lo so, ma davvero avevo qualche alternativa? Aspetto qui. Un posto come un altro. Morire in Montenegro o a casa fa lo stesso.

Tanto andrò comunque di là, da Darinka. Voglio andare da lei e abbracciarla, come ho abbracciato quella drugariza. Chissà se troverò le parole, se ci sono parole per dire quello che sento? Io muoio così, stupidamente, per una patria vecchia e ingiusta, per un mondo fatto di guerra e violenza, un mondo che non ho mai voluto. Lei se n’è andata felice, con la sua nuova patria negli occhi, il futuro nel cuore. Solo una cosa, Darinka, vorrei dirti: io ancora non lo sapevo che eri tu dalla parte giusta.
Eric Gobetti, storico del fascismo, della seconda guerra mondiale, di Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Sul tema è autore di documentari, “Partizani” e “Sarajevo Rewind”, e di numerose monografie; esperto in politiche della memoria, per Laterza ha pubblicato “Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)” nel 2013, nella serie ‘Fact Checking’ “I carnefici del duce” nel 2023 e “E allora le foibe?” nel 2021. Nel 2024 ha scritto per la Miraggi edizioni: “Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići”
Pubblicato lunedì 8 Settembre 2025
Stampato il 08/09/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/8-settembre/maggiore-gobetti-sarai-fucilato/