Muore “oggi che il verde è così verde”, un uomo gigantesco. Renzo Balbo era nato il 7 novembre 1930 da una famiglia di Cossano Belbo, nelle Langhe.
Mario Soldati, amico suo e della moglie Iti Richelmy, lo tratteggia così nel suo Vino al vino: “Medico, cavalcatore, cacciatore terrestre e subacqueo”. Un uomo di azioni, certo, ma anche di pensiero e parola: coltissimo lettore, poeta, fotografo (Oggi che il verde è così verde), fu assistente del regista Lewis Mileston.

Alzo gli occhi dal pc e lo guardo, in una foto che mi ha regalato e che abbiamo incorniciato, saltare un ostacolo in sella alla cavalla Eclipse; poco lontano, negli scaffali della libreria, i molti volumi che mi ha regalato: Foscolo, Bembo, i lirici greci…

Ho conosciuto Renzo e Iti ormai vent’anni fa: il mio professore di tesi, Silvio Ramat, mi aveva consigliato di dedicarmi al poeta Tino Richelmy, così avevo provato a contattare la figlia per farmi raccontare qualcosa in più, che nei libri non si trovava. L’incontro e la conoscenza con loro è stato il più grande dono che i miei studi mi hanno dato. Sono stata a trovarli diverse volte, nella loro bellissima dimora di Collegno. Ma nel 2012, quando sono tornata finito il dottorato – sempre sulle carte e gli scritti di Tino Richelmy – mi hanno fatto il regalo più bello e per me inaspettato: qualche giorno nella casa di famiglia dei Balbo, a Cossano Belbo.

Da lì, Renzo al volante della sua macchina azzurra, con me a fianco e Iti seduta dietro con il pointer Febo, mi ha accompagnata per tantissimi dei luoghi della Resistenza nelle Langhe, tutti posti che io avevo conosciuto soprattutto dalla letteratura, tanto che ero certa che, se fossi inciampata lì, cadendo avrei rischiato di strappare una pagina. Il comando di Castino, il campo di aviazione di Vesime, Mango, Santo Stefano Belbo, il cimitero di Cossano, la strada di Valdivilla… In ogni luogo, tra le ginestre in fiore, fumando le Dunhill che gli regalavano gli inglesi o scavalcando qualche muretto a secco, fissando le terre bianche lontane o i rittani verso i quali andava a fiutare Febo, che richiamavo battendo le mani, sempre Renzo mi raccontava di quella che era stata la stagione migliore della sua vita: “Voglio molto bene a quel periodo – dirà – perché mi ha fatto vedere tutto quello che era giusto vedere”.

Venti mesi di Resistenza sua e dell’intera sua famiglia: lui, “Pulce”, giovanissima staffetta ma già pronto e formidabile tiratore, avvezzo com’era alla caccia alle pernici, e poi il padre Umberto e il fratello Adriano. E ancora lo zio Giovanni Balbo, “Pinin”, caduto in un’imboscata nazifascista sulla strada di Valdivilla, e il cugino Piero Balbo, nome di battaglia “Poli”, comandante della II^ Divisione Autonoma Langhe, quel comandante “Nord” che Fenoglio immortala nel suo Partigiano Johnny. Attorno a loro le schiere degli ultimi, dei “vinti”, pronti a sfamare, vestire, nascondere, a rimanere in silenzio, e perciò a morire, per non tradire i partigiani. Renzo ricordava, e gli si incrinava allora la voce di commozione, quei contadini, quelle donne e uomini poveri, come titani enormi, abbattuti forse, ma mai davvero sconfitti in quella guerra di Liberazione.
Balbo ha sempre custodito e raccontato la Resistenza come fosse il più prezioso degli averi di una famiglia grande come tutta l’Italia e a ogni 25 aprile, a Valdivilla, la difendeva commemorandone gli eroi, i molti noti, i moltissimi oscuri. Tanti dei suoi ricordi sono raccolti, trasfigurati (ma solo in parte) dalla finzione narrativa, ne La pelle del coniglio (ed. Araba Fenice, 2021).

Ricordo di essere stata una volta a Torino proprio in occasione dell’uscita del libro, mi accompagnava mio papà. Anche allora, come tutte le altre volte (troppo poche, mi dico, ora che è troppo tardi) dopo cena o nel pomeriggio, tra una chiacchierata e l’altra, Renzo prendeva l’armonica, la suonava e cantava per noi: vecchie canzoni popolari o canzoni francesi degli anni Quaranta e Cinquanta. Suonava di gusto, con piacere.

Viveva – ha vissuto – di gusto e con piacere. La luce delle sue risate improvvise e schiette comparabile solo con quella azzurra dei suoi occhi. Renzo è stato intervistato, ed è una intervista da sentire fino alla fine, da Laura Gnocchi per il progetto Noi Partigiani il 17 novembre del 2022: aveva da poco compiuto novantadue anni, ma era davvero solo una questione di cifre, e non di età.
Sono certa, l’ho provato di persona, che Renzo non sia mai stato altro che giovane, anzi, giovanissimo, com’è rimasto per sempre da quel lontano settembre del ’43. Che se ne sia lentamente andato è, con tutta evidenza, una necessità giusto materiale. Un avvenimento logico, razionale e tuttavia – come mi ha detto Iti – una donna eccezionale, intelligente, colta, spiritosa, retta e attentissima – del tutto paradossale e inaccettabile.
Era con lei quando Carlo Levi, rientrando con loro da un’escursione, gli rivelò “Gli italiani hanno paura di essere liberi”. “Da allora io so – ammise Renzo – che gli italiani hanno paura della libertà: perché essere liberi vuol dire essere esattamente a posto con la coscienza”. Ma “È tutto bello” concludevi sempre alla fine di qualsiasi tuo discorso, perché in fondo tu sei stato capace di essere libero e ti piaceva così tanto vivere, che ogni cosa trovava in questa tua ostinata, visibile passione la propria sintesi. Ed è vero, Renzo, visto coi tuoi occhi è tutto davvero, ancora così: bellissimo.
Pubblicato lunedì 2 Giugno 2025
Stampato il 04/06/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/renzo-balbo-la-lunga-vita-di-una-giovanissima-staffetta/