È un onore e un impegno partecipare e contribuire a questo appuntamento con la vostra storia e con la nostra storia. Se mai c’è stato un momento in cui è stata cruciale la strada della memoria e della storia, è proprio quello che stiamo attraversando adesso. Raramente abbiamo assistito come in questa fase a discussioni politiche e culturali che sembrano essere disincarnate dal tempo e dai luoghi, dominate da una sorta di schiacciamento sul momento: è reale ciò che vedo adesso o meglio ciò che mi compare o mi viene fatto comparire davanti. E ciò che vedo io è l’unica cosa che abbia importanza, con il conseguente prevalere di un soggettivismo senza limiti che produce effetti molto seri.
Il primo è che ciascuno sembra diventare dipendente dai messaggi che riceve, anzi, da cui viene bombardato. Il secondo è che io – il mio piccolo, modesto, inadeguato io – diventa la misura di un mondo in cui non rimane che poco spazio riservato alla storia (cioè da dove veniamo e come abbiamo fatto ad arrivare qui) e a ben vedere anche al futuro (perché senza idea del punto di origine diventa impossibile vedere dove andare). Il terzo è che cresce un senso di esclusività delle proprie esperienze individuali e di gruppo di appartenenza: fino al paradosso di non poter parlare…di giraffe se non si è giraffa!
Non finisce qui lo spiazzamento. Si progettano innovazioni nell’ordinamento scolastico e l’accento cade sul made in Italy come masse di nuovi indirizzi, ma più che per facili ironie linguistiche ci si sofferma poco sul carattere più profondo dello sviluppo economico del Paese ed è addirittura il Sole 24 Ore a dover ricordare a tutti che la base di esso non sono tanto alberghi e ristoranti quanto le aree industriali integrate intorno a poli avanzatissimi di tecnologia e innovazione produttiva e gestionale. Intanto nelle scuole concretamente esistenti si indebolisce la storia e si è cercato di eliminare la geografia. Altrove, in Paesi meno fortunati – ma vedo segnali che li stiamo rincorrendo – procede il surrogato meschino e al fondo reazionario della cultura della cancellazione, che ben oltre le buone intenzioni (quando ci sono) diventa cancellazione della cultura.
Proviamo allora a riprendere un filo di razionalità. Il nostro nome, ANPI, dice che siamo partigiani d’Italia, quella democratica, solidale, civile. In una parola, nata e fondata storicamente, l’Italia antifascista. Se dovessi definire con un piccolo numero di parole la funzione che credo dobbiamo svolgere per essere all’altezza della nostra storia, cioè portare nella realtà di oggi il patrimonio dei resistenti, direi che dobbiamo riguadagnare il senso della profondità del nostro agire, del nostro essere, del nostro sentire.
ANPI sta in questo difficile incrocio di strade divergenti. Memoria e storia sono gli strumenti che mettiamo a disposizione, per fare la necessaria ricognizione, cioè il riconoscimento dei percorsi e delle prospettive. Per loro natura, sono strumenti che mettono anche sé stessi in discussione e per questo sono una base sicura di confronto democratico e crescita laica.
Memoria, cioè il senso e la percezione delle cose e degli avvenimenti, attiva in quanto recupero e forma del vissuto, anche nelle sue componenti psicologiche e di sedimento individuale e collettivo. Le memorie non si incrociano, si scontrano, perché ciascuno ha la sua, ma sono tessere di un mosaico che non si eliminano ma ne definiscono limiti e caratteri.
Storia, cioè il senso profondo e la prospettiva che danno un senso ai fatti, la cui certezza è acquisizione progressiva, fino a diventare la base condivisa di un popolo (e senza la quale quel popolo semplicemente non esiste), perché di una base su cui poggiare il futuro si ha bisogno.
Tutto questo è messo alla prova dai grandi sconvolgimenti di cui siamo contemporaneamente responsabili, vittime e testimoni.
La crisi ambientale: riflettiamoci bene ma è certo per “poca storia” che è difficile cambiare strada, basti pensare al difficile confronto globale sulle responsabilità della produzione della CO2.
La crisi demografica: dove è bassa e dove è alta, le grandi migrazioni che, dice la Dichiarazione dei diritti umani fin dal 1948, artt. 13 e 14, sono un diritto degli esseri umani. Le migrazioni mettono alla prova la nostra stessa storia – sovente per nulla neutrale, anzi, rispetto alle cause profonde di esse – cioè le tradizioni e l’organizzazione culturale, civile, istituzionale.
La crisi digitale: cioè un mondo in cui rischiamo di non saper più distinguere il vero dal falso, in cui l’invasività dei mezzi di comunicazione contiene sia la finestra aperta sul mondo sia la chiusura in una sfera intorno a sé o a una ristretta cerchia di persone, più omologate che accomunate da valori e obiettivi.
Questi tre processi epocali stanno approfondendo e dando una nuova dimensione al tema centrale delle disuguaglianze su scala nazionale e globale. Se una grande parte del mondo ha conosciuto l’uscita dalle condizioni più estreme, nuove disuguaglianze si vanno affermando e incrinano la fiducia nel futuro. Per molti Paesi già sviluppati, le nuove contraddizioni mettono in discussione il difficile rapporto tra la fine del mese e la fine del mondo, per dirlo con uno slogan. Queste sono le nuove frontiere per lo sviluppo della democrazia e non solo per la sua difesa.
Come l’ANPI può contribuire, essendo un soggetto politico – che contribuisce cioè a formare idee e modi di pensare e agire – ma non può essere partito politico? Dove sta la linea che separa le due dimensioni? Come si applica la Costituzione, come cioè essa si traduce in politiche concrete spetta ad altri soggetti, quelli che chiedono la legittimazione elettorale.
La nostra democrazia va difesa e soprattutto sviluppata e questo è il nostro impegno.
Essa va certamente difesa e vanno visti, riconosciuti e contrastati pericolosi revisionismi e negazionismi. Voglio fare un solo esempio, tra i tanti. Se la Polizia identifica un cittadino in un teatro – e non mi sono unito al coro di chi ha visto in questo un sopruso – la stessa Polizia o i Carabinieri o i magistrati non possono non identificare e anche denunciare su due piedi gli artefici di una indegna gazzarra fascistica in un’aula di tribunale, a meno di fare diventare questo un sopruso.
Va altrettanto certamente sviluppata perché questo è il modo – e soprattutto la necessità – di trasferire nella realtà di oggi i valori e i principi del più importante passaggio storico dell’Italia moderna. Resistenza, Repubblica e Costituzione sono stati gli atti fondativi del nostro Paese, il Risorgimento vero perché completo, socialmente, civilmente, istituzionalmente. E questa interezza, questa completezza sono avvenute nel segno dell’antifascismo. L’impronta della nostra democrazia è il suo carattere espansivo e partecipativo, non di delega a superpoteri ma allargamento delle basi e dei contributi; carattere unitario contro ogni tendenza che più che differenziazione si dovrebbe chiamare di ampliamento delle disuguaglianze. Sono gli articoli 2, 3 e 4 della Costituzione che determinano tutta l’architettura fondamentale e sono all’origine di tutti i fondamentali principi della prima parte, cui la seconda deve essere coerente nel sostegno e per l’attuazione e vorrei dire l’inveramento.
Dobbiamo reagire alla non positiva situazione per cui invece di promuovere una grande fase di ampio confronto nel Paese tutto sembra attendere il momento cruciale di un referendum: la logica di uno “scontro finale” o come si dice oggi con espressione francamente inaccettabile della “madre di tutte le battaglie” è la negazione – anch’essa inaccettabile – del ricorso alla più efficace ed effettiva risorsa democratica, cioè il confronto aperto, la scommessa sulla partecipazione e l’impegno.
Diciamo anche, tra parentesi, che quella espressione ha origine in una guerra tra le più sbagliate e sanguinose. Anzi, parentesi nella parentesi, l’art. 11 della Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra come soluzione alle controversie internazionali, ma le cose sono cambiate: la guerra, nella seconda metà del Novecento e fino a oggi non ha risolto alcuna controversia, anzi ciascuna guerra e – ce ne sono state tante – ha creato nuovi, più complicati e più gravi problemi di quelli che la avevano scatenata. La guerra deve diventare un tabù e anzi deve tornare a essere un tabù innanzitutto l’idea, e le parole, gli atti, i progetti che fanno dell’impiego delle armi nucleari un possibile strumento di guerra.
Ecco perché parlare di queste cose in questi 80 anni del sacrificio dei Fratelli Cervi. Perché la loro vicenda storica, personale e collettiva, continua a indicare ciò per cui siamo impegnati:
– un mondo in cui c’è impegno individuale e solidarietà sociale;
– un mondo in cui ci sono insieme progresso tecnico e amore per le radici nella terra;
– un mondo in cui c’è il primato dell’indipendenza e della dignità come conquista per sé e diritto di tutti;
– e poi perché è il mondo in cui sul trattore, simbolo di operosità e lavoro, troneggia il mappamondo, cioè la spinta a conoscere e capire il mondo.
Oggi si dice che la dimensione locale deve essere inserita nel mondo globale. Albertina Soliani si chiede, a ragione, se i Fratelli Cervi verranno ricordati tra altri 80 anni. Anch’io, come lei, penso che sarà il frutto di una cura costante per crescere cittadini consapevoli e che in questo sta la forza della democrazia. I Cervi usavano un altro linguaggio, quello delle cose-simbolo e delle azioni dirette e coinvolgenti, non dell’individuo ma della forza collettiva e sociale: ci parlano ancora e noi dobbiamo ascoltarli.
Sta per iniziare un nuovo anno: alle speranze di un anno più sereno e di pace si affianca la promessa di un impegno che non viene meno, né oggi né per il futuro.
Alessandro Pollio Salimbeni, vicepresidente nazionale Anpi
Pubblicato sabato 30 Dicembre 2023
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/sulla-strada-dei-fratelli-cervi/