Se il materiale di cui è fatta la rivoluzione è spesso costituito dalle parole, la decolonizzazione prende corpo anche nelle sale dei congressi delle città europee. A Roma, in Campidoglio, dal 26 marzo al 1 aprile 1959 si tiene il secondo “Congresso degli Scrittori e Artisti Neri” organizzato dalla Société africaine de culture fondata dall’intellettuale senegalese Alioune Diop, con il patrocinio dell’Istituto italiano per l’Africa, a cui partecipano i più importanti scrittori e artisti neri africani e americani come Aimé Césaire, Mongo Beti, Cheikh Anta Dipo, René Piquion, David Diop, Paul Niger, il capo di Stato della Guinea Sekou Touré e il futuro presidente della Nigeria Benjamin Nnamdi Azikiwe, oltre a diverse personalità politiche.

Un evento storico, a poche settimane dalla vittoria della rivoluzione cubana, che si tiene a Roma sia per garantire maggiore visibilità a livello internazionale sia perché l’Italia rappresenta uno snodo strategico in virtù della posizione geografica verso la Tunisia indipendente.

Tunisi, 1959. Frantz Fanon durante la conferenza stampa per il congresso degli scrittori

Frantz Fanon, definito dal leader algerino Hocine Aït-Ahmed il «fondamentalista dei diritti dell’uomo», detta la linea del congresso romano sottolineando il ruolo della cultura nazionale nel processo rivoluzionario: «la lotta organizzata e cosciente, intrapresa da un popolo colonizzato per ristabilire la sovranità della nazione, costituisce l’espressione più profondamente culturale», e nelle risoluzioni finali si afferma che l’indipendenza politica e la libertà economica sono condizioni indispensabili per il progresso culturale dei popoli sottosviluppati in generale e dei paesi «negro-africanos in particolare».

Aimé Fernand David Césaire (Basse-Pointe, 26 giugno 1913 – Fort-de-France, 17 aprile 2008) è stato un poeta, scrittore e politico francese, originario della Martinica. Inventò il termine “negritudine”

Alcune relazioni vengono raccolte nel numero doppio monografico di “Présence Africaine”. Spiccano gli interventi di Césaire, L’homme de culture et ses responsabilités; Senghor, Éléments constructifs d’une civilisation d’inspiration négro-africaine; Fanon, Fondement réciproque de la culture nationale e de la lutte de liberation. Quest’ultimo viene tradotto e pubblicato da “Rinascita” (Nazione, cultura e lotta di liberazione) e si incentra sul legame reciproco tra cultura nazionale e lotta di liberazione, uno dei filoni centrali del dibattito postcoloniale.

Frantz Fanon (Fort-de-France, 20 luglio 1925 – Bethesda, 6 dicembre 1961)

Fanon ne coglie il ruolo fondamentale: «Dopo uno o due secoli di sfruttamento, si produce una vera anemia nel panorama culturale nazionale. La cultura nazionale diventa un complesso di abitudini, di tradizioni esteriori, di istituzioni disgregate: mancano insomma mobilità, creatività vera, fermento intellettuale. Miseria popolare, oppressione nazionale e inibizione della cultura sono un’unica cosa. Dopo un secolo di dominio coloniale, la cultura si pietrifica all’estremo, si sedimentata, si cristallizza. Il deperimento della realtà nazionale e l’agonia della cultura nazionale sono tra loro in rapporti di interdipendenza. Appunto per questo è quanto mai importante seguire l’evoluzione di questi rapporti nel corso della lotta di liberazione».

Giovanni Pirelli (Velate, 3 agosto 1918 – Genova, 3 aprile 1973)

In Italia, è grazie all’attivissimo Giovanni Pirelli, partigiano, curatore – tra l’altro – delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (1952) e delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (1954) che si diffondono il pensiero e le opere di Fanon.

Così rileva la storica Mariamargherita Scotti nella biografia di Giovanni Pirelli (Vita di Giovanni Pirelli. Tra cultura e impegno militante): «molto prima dei più noti movimenti di solidarietà anticoloniale tipici degli anni Sessanta, si assiste in quegli anni a un lavoro collettivo di portata non indifferente, che coinvolge decine di persone di diversa formazione culturale e politica». Per esempio, le celebrazioni del 25 aprile diventano un ideale ponte che collega la vittoria sul nazifascismo con le lotte dei popoli del Terzo mondo contro l’Occidente colonialista. Si comprende quindi la mobilitazione di settori politici, ambienti civili, militanti, gruppi di intellettuali che si impegnano a favore delle battaglie dell’anticolonialismo terzomondista e a sostegno della guerra d’Algeria.

Nel febbraio 1961 l’intellettuale e scrittore ha intenzione di pubblicare le opere di Fanon, si reca a Tunisi per conoscere lo psichiatra martinicano algerinizzato immerso nella scrittura dei Les damnés de la terre e tra i due si salda un’ammirazione reciproca. A Fanon era stata già diagnosticata la leucemia e morirà nel dicembre dello stesso anno.

Pirelli inizia quindi a promuovere dall’interno della casa editrice Einaudi una ricca produzione editoriale per diffondere la causa della battaglia algerina, tra cui spicca I dannati della terra con prefazione di Jean-Paul Sartre che registra un successo mondiale in quanto propone in piena decolonizzazione un’ideologia terzomondista ai paesi che stanno nascendo al di fuori dello schema Occidente vs. Oriente. Si tratta di un attacco sferzante contro quell’imperialismo «demone flaccido, simulatore, dall’occhio debole, di una follia rapace e spietata» (come lo aveva definito Joseph Conrad), i cui «segni della violenza, nessun dolore cancellerà: è la violenza soltanto che può distruggerli.

E il colonizzato si guarisce dalla nevrosi coloniale cacciando il colono con le armi», ammonisce l’intellettuale francese. Un «libro esplosivo sulla violenza africana e sul razzismo europeo», aveva titolato “l’Unità” del 24 novembre 1961 all’uscita francese del volume per Maspero, «Non è un libro, ma una pietra scagliata contro la finestra l’Occidente», commenterà il “Time” il 30 aprile 1965.

Pochi libri sulla decolonizzazione hanno suscitato tanta attenzione e tante controversie. Nei dieci anni dalla pubblicazione, I dannati della terra viene ristampato otto volte in Francia, conta quattro edizioni negli Stati Uniti e tre in Gran Bretagna; è vietato in Algeria. D’altronde gli attacchi fanoniani all’impero colonialista saldano le rivendicazioni liberazioniste che superano le riflessioni sulla negritude: «Noi dobbiamo apertamente rifiutare la situazione alla quale vogliono condannarci i paesi occidentali. Il colonialismo e l’imperialismo non si sono sdebitati con noi quando han ritirato dai nostri territori le bandiere e le forze di polizia. Per secoli i capitalisti si sono comportati nel mondo sottosviluppato come veri criminali di guerra». Fanon e altri intellettuali e leader africani cercano di abbattere l’egemonia esercitata dall’ideologia imperialista che alla fine dell’Ottocento era diventata ormai parte integrante di culture che sono state celebrate nel corso del Novecento nei loro aspetti meno deplorevoli. Si tratta di quella che Basil Davidson ha definito una “resistenza secondaria”, cioè ideologica, che si distingue dalla prima fase di “resistenza primaria”, caratterizzata dalla lotta armata, e rappresenta un tentativo di ricostruire «una comunità frantumata, proteggendo o ricostituendo il senso e la realtà comunitari contro tutte le pressioni del sistema coloniale».

Il Premio Letterario “Della Resistenza” Città di Omegna

La “cultura della resistenza” espressa da Fanon in Italia viene premiata con l’assegnazione il 22 settembre 1962 del Premio Letterario “Della Resistenza” Città di Omegna per I dannati della terra (Einaudi 1962) quale «primo manifesto teorico della rivoluzione anticoloniale». Avevano preceduto il rivoluzionario antillese, il direttore di “Alger républicain” Henri Alleg, nel 1959, per La question, prima importante denuncia della tortura praticata dalle forze armate francesi nella repressione della guerriglia algerina, tradotto da Einaudi col titolo La tortura e impreziosito dall’introduzione di Sartre.

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Pechino nel 1955

Proprio all’intellettuale francese la città di Omegna conferisce il premio l’anno successivo per la sua intera opera, e nel 1961 a Gunther Anders per il libro-testimonianza Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, sempre pubblicato dalla torinese Einaudi con la prefazione di Norberto Bobbio.

Istituito il 27 maggio 1959, il Premio rappresenta un appuntamento alto della cultura italiana e internazionale. Nato da un incontro tra l’allora sindaco Pasquale Maulini con Cino Moscatelli, Mario Soldati e Mario Bonfantini, in tredici successive edizioni ha visto la collaborazione di prestigiosi nomi della cultura italiana; della giuria hanno fatto parte, tra gli altri, Guido Piovene, Mario Soldati, Sergio Antonielli, Carlo Salinari, Adriano Seroni, Mario Spinella, Paolo Spriano, Gianni Rodari, Cesare Zavattini, Rossana Rossanda, Italo Calvino, Franco Fortini. Nel 1962, per la giuria, guidata da Guido Piovene, l’opera di Fanon rappresenta un’ulteriore occasione per diffondere le istanze della battaglia anticolonialista e annodarla all’impegno militante di parte della cultura italiana in chiave antifascista, come si evince dalle motivazioni di assegnazione: «I suoi obiettivi polemici non sono soltanto il colonialismo tradizionale, ma anche le tendenze neocolonialiste con le quali il neocapitalismo occidentale cerca di prolungare il proprio dominio. È proprio questo il vero avversario che ci troviamo oggi davanti in un’Italia in cui le tendenze più retrive paiono respinte in seconda fila, ma la coscienza di tutti, specialmente degli intellettuali, è chiamata ad individuare le nuove maschere della reazione e i nuovi terreni di lotta».

Africa: tra mummificazione della cultura e analfabetismo
Al di là dei toni retorici, negli scritti di Fanon si fa riferimento agli “strumenti” della cultura occidentale che hanno legittimato e sostanziato le politiche oppressive, come in Razzismo e cultura: «L’imposizione del regime coloniale non comporta di per sé la morte della cultura autoctona. Anzi, da un esame storico emerge che l’obiettivo voluto non è tanto la sparizione totale della cultura preesistente quanto la sua agonia prolungata. La cultura che una volta era viva e passibile di sviluppi, si chiude, atrofizzata nello statuto coloniale, stretta nella morsa dell’oppressione. […] La mummificazione della cultura produce quella del pensiero individuale. L’apatia che tutti notano nei popoli coloniali non è che la conseguenza logica di tale operazione. Rimproverare costantemente all’“indigeno” la sua inerzia è il colmo della malafede». L’intellettuale martinicano aveva già affrontato dieci anni prima la complessa tematica del discorso postcoloniale, ovvero il potere formativo e deformativo del linguaggio e le condizioni culturali che esso esprime e impone, nel suo Pelle nera, maschere bianche: «Parlare una lingua equivale ad accettare un mondo, una cultura». Ogni lingua europea, in quanto veicolo d’espressione coloniale – il francese in Senegal, il portoghese in Angola – assiste l’atto coloniale.

In questo contesto è determinante il processo di acculturazione del popolo, ovvero riconoscere il potere della parola, per creare una nazione. Nei fatti alla maggior parte dei popoli africani è mancato proprio il “potere della parola” nonostante le battaglie di leader come Amílcar Cabral, Thomas Sankara, Samora Machel, consapevoli che non fosse sufficiente scolarizzare le popolazioni, bensì avviare un percorso di “educazione alla libertà”, di “coscientizzazione” (per dirle con Paulo Freire) per far uscire questi popoli dalla “cultura del silenzio” di stampo coloniale e per divenire – finalmente – soggetti attivi della trasformazione socio-culturale e della democratizzazione della società. Così non è stato, per diverse concause: relativismo culturale, guerre civili, scontri etnici, pandemie, ecocidio, e così via.

In questi anni i dati sull’analfabetismo in Africa continuano a sorprendere e preoccupare. Nell’Africa subsahariana un adulto su tre non è in grado di leggere; 48 milioni di giovani (tra i 16 e i 24 anni), sono completamente analfabeti. Il tasso di alfabetizzazione nei vari Stati raggiunge dei livelli incredibilmente bassi: i tredici Paesi con il più basso tasso di alfabetizzazione si trovano tutti in Africa, tra questi, i peggiori sono il Niger (37%), il Mali (39%), il Burkina Faso (39%) e l’Etiopia (45%).

Nel dettaglio, secondo i dati dell’Istituto statistico dell’Unesco (Isu) rilevati nel 2019, «di tutte le regioni, l’Africa subsahariana ha i più alti tassi di esclusione dall’istruzione. Più di un quinto dei bambini tra i 6 e gli 11 anni non va a scuola, seguito da un terzo dei bambini tra i 12 e i 14 anni quasi e il 60% dei giovani tra i 15 ei 17 anni non frequenta istituzioni scolastiche».

L’analfabetismo africano rimane quindi un problema diffuso, una piaga, e spesso maggioritario nella popolazione, ed inoltre emerge quanto l’istruzione di base continui ad essere quindi un privilegio per pochi. Uno dei motivi principali è la difficoltà di accesso alla scuola e all’istruzione, aggravata dal digital divide che non favorisce l’istruzione da casa. In Ciad, ad esempio, il Paese con il tasso più basso secondo i dati dell’Unesco, si stima che nel 2019 oltre 700.000 bambini non siano andati a scuola, di cui il 71% femmine.

Se si confronta la tabella degli indici educativi africani con quella del resto dei continenti e subcontinenti, i paesi subsahariani si trovano in fondo. È evidente che tutti questi fattori incidono sulle prospettive dei giovani africani e dell’Africa, un continente giovane, ambizioso, ricco di culture, con i quali i paesi occidentali continuano ad approcciarsi con centrica superiorità invece di aprirsi con “plasticità culturale”, secondo l’acuta definizione dell’antropologo Vittorio Lanternari.

Andrea Mulas, storico Fondazione Basso