Amadou si affretta a legare la bici alla ringhiera sotto la pioggia battente. Dall’applicazione del cellulare ha già confermato il suo arrivo al fast food nel centro di Roma che lo attende per consegnare un nuovo ordine.
Entra all’interno del ristorante, mette il cibo da asporto nel cubo termico che terrà in spalla, inforca la bicicletta e parte alla volta dell’indirizzo indicato. Ritornerà nei pressi del ristorante sperando di avere nuove consegne da effettuare. Nelle ore di maggior afflusso di ordini, riuscirà a consegnarne due l’ora.
“Non sempre è così: ci sono giorni in cui mi arrivano pochissimi ordini e passo molto tempo ad aspettare. Se arrivano ordini guadagno, altrimenti niente” spiega Amadou, maliano di 35 anni, che racconta di fare il rider da pochi mesi, quando, a seguito della crisi sanitaria, la ditta di traslochi con cui collaborava regolarmente non ha potuto più ingaggiarlo.
“Le prime settimane ero sempre on line per acquisire punteggio e prendere più ordini possibili” continua, in riferimento al free login utilizzato da alcune aziende del food delivery che non prevedono turni orari, ma una “sessione di lavoro” che può durare anche 24 ore. Amadou aggiunge di attendere un responso alla richiesta di conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. “Anche senza garanzie, questo è l’unico lavoro che mi permette di non diventare irregolare” dice con gli occhi fissi sullo smartphone in attesa di un nuovo ordine.
Pino, 48 anni è un rider, motorizzato, da cinque: “Il mio tempo così non vale nulla. Sto io per strada in balia del mercato e se va male ci rimetto solo io perché all’azienda non sono costato nulla” dice, chiedendo di non indicare il suo vero nome, mentre ci allontaniamo di qualche centinaia di metri dal ristorante della periferia romana dove spesso si reca per prendere il cibo da consegnare.
Nel corso di questa lunga pandemia i ciclofattorini continuano a garantire le consegne a domicilio di prodotti in vendita da esercizi commerciali (farmacie, supermercati, tabaccherie, ristoranti) che il cliente acquista da una piattaforma virtuale. Come tutte le altre categorie definite essenziali per gli ingranaggi socio-economici, i rider sono a forte rischio contagio. “Nel caso di contatti con persone positive dobbiamo rimanere in isolamento fiduciario, ma non abbiamo diritto a nessuna indennità – prosegue Pino – Diventa quindi paradossale dover scegliere se tutelare la propria salute o difendere le proprie fonti di reddito”.
Il ciclofattorino Pino percorre con il suo scooter una media di 150 chilometri a turno lavorativo di 8-9 ore per guadagnare un salario medio di 1.000 euro netti che gli consente di coprire le spese di affitto, del ciclomotore che usa per lavorare, nonché del mantenimento di sua figlia minorenne.
Senza diritto di assenza per malattia, congedo familiare e altre forme di ammortizzatori sociali, i lavoratori delle consegne a domicilio sono considerati dai loro datori, le multinazionali del food delivery, lavoratori occasionali o autonomi con partita Iva, benché siano a tutti gli effetti alle loro dipendenze. È uno dei discussi aspetti della gig economy, un modello in crescente diffusione che si basa su prestazioni lavorative discontinue on demand, ovvero a richiesta del fruitore (il cliente) della prestazione, divenuta instabile e discontinua e quindi con minori garanzie contrattuali.
Uno degli aspetti che disumanizza il rider e impone logiche del capitalismo è l’accettazione degli ordini: un rider ha priorità rispetto a un altro in base a un punteggio di valutazione della prestazione, il rating (basato su disponibilità, velocità, valutazione da parte dei clienti), e alla posizione di classifica del lavoratore, il ranking. Se il rider assegnatario dell’ordine lo rifiuta o non lo accetta in breve tempo, si innesca un meccanismo ad asta determinato da un algoritmo, in cui lo stesso ordine viene proposto ad altri fattorini, sempre sulla base del ranking. Sulla stessa logica si basa anche l’assegnazione delle ore lavorative.
Una regressione della già critica situazione si è avuta con l’accordo siglato tra Ugl e Assodelivery (associazione che rappresenta l’industria italiana del food delivery a cui aderiscono Deliveroo, Glovo, Social Food e Uber Eats), in vigore dal 3 novembre dello scorso anno. Il protocollo stabilisce una retribuzione oraria di 10 Euro, ma considera solo il tempo di consegna che è calcolato da un algoritmo e non quello di attesa, mantenendo il cottimo, bloccando l’introduzione di una paga oraria prevista dalla legge 128/2019, in linea con i livelli salariali stabiliti dai contratti collettivi di categoria e aggirando di fatto le tutele della subordinazione. Il controverso patto è stato definito “truffa” e contestato perché sottoscritto solo dall’Ugl, organizzazione sindacale poco rappresentativa dei rider.
“Era difficile peggiorare la nostra situazione a livello contrattuale, con questo accordo ci sono riusciti” chiosa Pino, aggrottando la fronte. “Da un compenso fisso di 2,20 euro a consegna – continua – si è passati a 1,30 euro, mentre per la quota chilometrica su Roma, si è passati da 45 centesimi a 42”, dice mentre fa una lunga boccata alla sigaretta.
“La tariffa in questione – spiega Antonello Badessi della sigla sindacale Riders Union Roma – è sul tempo stimato e il calcolo si basa sul fatto che l’azienda senza socializzare i criteri afferma che per quell’ordine devi impiegarci una certa quantità di tempo quando in realtà si potrebbe impiegarci di più anche solo per l’attesa al ristorante. Alcune aziende – continua il portavoce – hanno interpretato alla lettera questo criterio e hanno passato ordini stimati per 5 minuti e pagati su questa base quando il tempo reale è oggettivamente maggiore. Addirittura Glovo e Uber ne passano per poco più di un euro mentre altre aziende hanno posto dei limiti e non sono scese sotto certe quote, ma in sostanza è che per tutte in media la paga oraria è diminuita”.
Che il campo delle consegne a domicilio fosse un terreno piuttosto delicato lo mostravano anzitempo le numerose proteste di ciclofattorini che già dal 2016 invadevano i social network e le piazze da New York a Hong Kong, passando per decine di città italiane, chiedendo il riconoscimento della subordinazione, un monte ore garantito e diritti sindacali. Le ultime giornate di mobilitazione in Italia proclamata dai sindacati confederali e da sigle sindacali sono state il 30 ottobre 2020, contro l’accordo tra Ugl e Assodelivery, e il 26 marzo, quest’ultimo anticipato da quello del 22 della filiera di Amazon, dove entrambe le categorie dei lavoratori hanno chiesto alla collettività di sostenere la loro lotta evitando di fare acquisti o ordinare pietanze attraverso le piattaforme. Le due categorie sono infatti interne al settore della logistica, diventato sempre più nevralgico nella produzione capitalistica che ha saputo sfruttare lo sviluppo delle piattaforme e con condizioni di lavoro spesso manuali e con bassa qualifica.
Non si tratta, tuttavia, di “lavoretti” come un luogo comune ha spesso etichettato gli addetti alle consegne a domicilio della gig economy. Il termine “gig” indica infatti “lavoretto”, ma è una definizione fuorviante, come già attestava il rapporto dell’Inps del 2018: su tutta la platea dei gig workers italiani – inclusi gli autisti di Uber o gli addetti alle pulizie delle applicazioni, per esempio – vi è un’alta incidenza di lavoratori tra i 30 e i 49 anni e per gli over 50 è un paracadute contro la disoccupazione, smontando la retorica del secondo lavoretto scelto dai giovani (18-29 anni) che incidono poco meno del 10%.
Nel maggio 2020, il Tribunale di Milano aveva previsto il commissariamento di Uber Eats, contestando il reato di caporalato digitale, mentre di recente, a seguito di una lunga inchiesta, la Procura della Repubblica della stessa città ha definito “sistema schiavistico” il rapporto di lavoro che Deliveroo, Just Eat, Foodinho (che controlla Glovo) e Uber Eats hanno stipulato con circa 60mila rapporti di lavoro intercorsi dal 2017 al 31 ottobre 2020, imponendo il recupero di contributi e premi assicurativi dei lavoratori in questione ed elevando una ammenda di 733 milioni di euro per aver violato gli standard di salute e sicurezza. Di seguito, le multinazionali del food delivery hanno depositato ricorso all’Ispettorato del Lavoro che lo ha respinto, confermando che i rider non sono lavoratori occasionali a cui spetta una paga oraria in linea con il Ccnl Logistica, Trasporti, Merci e Spedizioni, nonché tutti i diritti del lavoro subordinato secondo la legge. L’Inps, nel frattempo, sta provvedendo a riconoscere i contributi non versati per i fattorini delle quattro società ispezionate nel periodo riferito dalla procura.
Secondo una stima della Cgil, i ciclofattorini italiani sono circa 20 mila, benché non esistano dati ufficiali per via del potenziale aumento di questi ultimi mesi. Anche sull’onda di questo incremento fenomenologico, lo scorso 24 marzo, Cgil, Cisl, Uil e Assodelivery hanno sottoscritto, alla presenza del ministro del Lavoro Andrea Orlando, il Protocollo Quadro Sperimentale per la legalità, secondo cui le società aderenti ad Assodelivery si impegnano ad adottare un modello organizzativo idoneo a prevenire comportamenti scorretti all’interno di un’azienda e l’impegno delle piattaforme a non ricorrere ad aziende terze, almeno fino a quando non verrà creato un apposito albo delle stesse piattaforme. Tra i punti principali del patto vi è anche la costituzione di un organismo di garanzia che avrà il compito di vigilare super partes sulle dinamiche lavorative dei rider e riportare segnalazioni alla Procura della Repubblica, coordinandosi con il Tavolo di Governance e Monitoraggio, del quale fanno parte anche i rappresentanti dei lavoratori, oltre che le aziende.
Le organizzazioni sindacali hanno inoltre raggiunto un accordo con la società di food delivery Just Eat per il primo contratto collettivo aziendale che inquadra i rider con una retribuzione prevista dal Ccnl Logistica, inferiore del 10% per i primi due anni, e con le tutele della subordinazione, esito della lotta dei ciclofattorini autorganizzati con i sindacati. Scoober, il modello di inquadramento già presente in altri Paesi dove la multinazionale opera, è stato avviato nella città di Monza da metà marzo e assumerà oltre 4 mila rider sul territorio nazionale.
“Ci auguriamo – conclude Badessi di Riders Union Roma – che le pressioni giunte dalle inchieste giudiziarie, compreso anche un effetto indiretto della legge in Spagna, convincano Assodelivery a scendere al tavolo di trattativa con i sindacati per la regolamentazione del settore. Continueremo la battaglia”.
Pubblicato venerdì 30 Aprile 2021
Stampato il 04/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/mica-bello-pedalare-se-la-schiavitu-gira-in-bici/