Un recente e sintetico comunicato del Governo informava che il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 31 gennaio, su proposta della Presidente e del Ministro della Cultura, aveva approvato un disegno di legge per l’istituzione del Museo del Ricordo in Roma. Il Museo — precisava il comunicato — avrà lo scopo di contribuire a conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, di ricostruire e narrare la storia degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, dell’esodo dalle loro terre e della più complessa vicenda del confine orientale italiano, anche in coerenza con le finalità di cui alla legge 30 marzo 2004, n. 92, di istituzione del «Giorno del ricordo».
Il comunicato aggiungeva che alla gestione del museo provvederà una “Fondazione Museo del Ricordo”, ente di diritto privato costituito dal ministero della Cultura, aperto alla partecipazione della Regione Lazio e di altri soggetti pubblici e privati. Una valutazione più precisa si potrà dare quando il disegno di legge sarà reso pubblico, ma fin da ora è lecito affermare che l’istituzione del Museo del Ricordo segue, nell’impianto e nelle finalità, la legge n. 92 del 30 marzo 2004, istitutiva della Giornata del ricordo, di cui costituisce, per così dire, una prosecuzione. Infatti, il comma 1 dell’art. 1 della legge n. 92 recita: «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del ricordo’ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». E il successivo comma 2, con riferimento alle iniziative da svolgersi nell’arco della giornata, precisa che esse sono anche «volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero».
Analogamente, può essere considerato un ulteriore svolgimento della legge n. 92, il disegno di legge n. 1457 e connessi, “Modifiche alla legge 30 marzo 2004, n. 92, in materia di iniziative per la promozione della conoscenza della tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata nelle giovani generazioni”, licenziato dalla Camera l’8 febbraio 2024. Esso dispone l’indizione di un concorso annuale tra gli studenti universitari e dei corsi di alta formazione artistica, musicale e coreutica, per la realizzazione di un’installazione temporanea, da esporre per la durata di un anno in occasione del Giorno del ricordo in un capoluogo di regione, differente ogni anno.
Viene inoltre istituito nello stato di previsione del ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) un fondo di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2024, 2025 e 2026 «per promuovere e incentivare, nel rispetto dell’autonomia scolastica, i “Viaggi del ricordo nei luoghi delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata e nelle terre di origine degli esuli” per gli studenti delle scuole secondarie, al fine di far maturare la coscienza civica delle nuove generazioni, nonché di favorire il dialogo interculturale rispetto alle grandi sofferenze patite dalle popolazioni dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia a causa della Seconda guerra mondiale, durante e dopo il passaggio di quelle terre alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia». Malgrado l’asserita osservanza del principio dell’autonomia scolastica (alla quale forse si sarebbe dovuto aggiungere il principio costituzionale della libertà di insegnamento), i viaggi sono organizzati «a seguito di percorsi formativi rivolti ai docenti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado del sistema nazionale di istruzione e formazione secondo le linee guida del Ministero dell’istruzione e del merito per la didattica della frontiera adriatica».
Un altro elemento che caratterizza il provvedimento è il coinvolgimento della Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, chiamata a fare parte sia della Commissione di valutazione del concorso per la realizzazione di una installazione temporanea, sia del Comitato tecnico-scientifico del MiM chiamato a dare parere al Ministro sull’utilizzazione del fondo per i Viaggi del ricordo. La Federazione è altresì destinataria di un contributo triennale di 75mila euro annui, per attività di formazione condotte d’intesa con il MiM, insieme alle Lega nazionale di Trieste per la gestione del Sacrario del monumento nazionale della Foiba di Basovizza; all’Unione degli istriani di Trieste per la gestione del “Museo di carattere nazionale C.R.P. (Centro di raccolta profughi)” di Padriciano a Trieste; all’Istituto regionale per la cultura istriano fiumano-dalmata (IRCI) per la gestione del Museo delle masserizie dell’esodo “Magazzino 18” del Porto vecchio di Trieste. Alcune delle misure contenute nel provvedimento (che peraltro dovrà tornare al Senato per l’approvazione definitiva), appaiono peraltro rivelatrici dell’intento ultimo del legislatore. Sorprende infatti la scelta di escludere dal contributo pubblico per lo svolgimento di attività di formazione, istituti che hanno svolto in questo ambito una seria e approfondita attività di ricerca, come l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, autore di un apprezzato “Vademecum per la Giornata del Ricordo”.
Ma sorprende ancor di più che in una legge dello Stato vengano considerate oggetto di studio le “grandi sofferenze patite dalle popolazioni dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia a causa della Seconda guerra mondiale, durante e dopo il passaggio di quelle terre alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia”, dimenticando però di richiamare le altrettanto grandi sofferenze subite dalle popolazioni slave, residenti negli stessi territori, durante il Regime fascista e sotto l’occupazione militare italiana e tedesca. Sorge allora il sospetto che le “linee guida del Ministero per la didattica della frontiera adriatica” servano più che altro a impedire che qualche docente si faccia strane idee e pretenda di parlare ai propri alunni di tutto un periodo e non solo di un biennio, di una storia globale e non di un singolo evento, per quanto grave e meritevole di essere conosciuto.
Ma proprio in relazione alle non poche perplessità che sorgono dalla lettura del provvedimento licenziato alla Camera, l’ipotesi di dare vita a un Museo sulle tormentate vicende del confine italo-sloveno nel Novecento, se gestita in modo aperto, anche nel dibattito parlamentare, e scevro da ogni forma di strumentalità politica, potrebbe segnare un positivo cambio di passo e offrire un contributo utile per la diffusione tra un pubblico più ampio di quello degli addetti ai lavori di una conoscenza scientificamente fondata di una pagina drammatica e complessa della storia recente.
Il comunicato del Governo sul Museo ne tratteggia sommariamente il contenuto, riconducibile alla “memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe”, alla ricostruzione della “storia degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia” all’esodo di quelle popolazioni dalle loro terre e infine alla “più complessa vicenda del confine orientale italiano”, richiamando per l’appunto alla lettera la citata legge n. 92 del 2004. A ben vedere, anche nella legge, quando si passa dai tre nuclei tematici sopra richiamati (foibe, storia degli italiani nell’Alto Adriatico ed esilio giuliano-dalmata) al riferimento alla “più complessa vicenda del confine orientale” non si può non scorgere un salto logico, perché mentre i primi tre contenuti sono chiaramente enunciati, la nozione di complessità sfuma in una affermazione generica che viene enunciata ma poi lasciata sospesa, senza indicare, almeno nel testo della legge, che cosa essa possa significare.
Provando a entrare nel merito, si potrebbe ipotizzare che la complessità della vicenda del confine italo-sloveno consista proprio nell’essere una frontiera contesa, nella quale, nel corso dei secoli, ma soprattutto nel Novecento, gruppi linguistici, etnici e religiosi diversi hanno intrecciato le loro vicende, con momenti di collaborazione e di conflitto, di interferenza e di reciproca estraneità, subendo o promuovendo le rivendicazioni nazionali di entità statali contrapposte e spesso ostili. Così avveniva sotto l’impero asburgico, uso ad avvalersi dei conflitti di nazionalità per i propri fini di dominio; così è avvenuto dopo la Prima guerra mondiale, quando l’espansione dell’Italia nell’area Alto Adriatica e le sue aspirazioni imperiali hanno inasprito lo scontro tra i diversi irredentismi, ispirati in origine, nella loro matrice democratica e mazziniana, agli ideali di autodeterminazione dei popoli e degenerati poi in ideologie di supremazia nazionale; così è avvenuto alla fine della guerra mondiale nel cruento regolamento dei conti andato ben al di là della punizione dei collaborazionisti della Germania nazista e della Repubblica di Salò da parte dell’Esercito jugoslavo.
Questi conflitti si scatenarono attorno ai confini definiti alla fine della Prima guerra mondiale, con l’affermazione della supremazia italiana nei confronti dei gruppi linguistici, religiosi e nazionali sloveni e croati, già attuata dallo Stato liberale e portata dal fascismo e dalla guerra a sistematici livelli di violenza, culminati poi nell’occupazione del 1941 e nella ferocia della lotta antipartigiana, della deportazione dei civili e degli eccidi. Quegli stessi conflitti sono poi proseguiti dopo l’8 settembre 1943 con le cosiddette foibe istriane, con l’annessione di fatto al Terzo Reich della Adriatische Kunstenland comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, con la presenza dei cosacchi al seguito della Wehrmacht in Carnia, e in ultimo con l’ingresso delle truppe jugoslave a Trieste, al quale seguirono gli eccidi e la repressione posti in essere, come scrive la Commissione storica italo slovena, da un movimento di liberazione che si andava rapidamente trasformando in regime.
Si vuole qui mettere in rilievo un punto che sembra dirimente, sia rispetto all’applicazione della legge n. 92, sia rispetto a un futuro Museo del Ricordo: una storia del Novecento adriatico che tenga conto esclusivamente del punto di vista italiano non solo nega l’idea di complessità che la stessa legge afferma, ma pone sulla memoria di quegli anni un’ipoteca nazionalista, suscettibile di creare distorsioni anche sulla ricerca storica e di risolversi in una operazione di propaganda ripetitiva degli anacronistici paradigmi della Guerra fredda. Basti pensare, a questo proposito, alla rappresentazione delle foibe come la Shoa italiana, vero e proprio cavallo di battaglia delle destre, che applica il paradigma genocidiario della pulizia etnica a una realtà che non ha nulla a che vedere con quanto avvenne nei campi di concentramento nazisti, né per dimensione, né per modalità di esecuzione e per finalità perseguite; una rappresentazione che drammatizza e insieme banalizza una vicenda che, nella sua tragicità, presenta caratteri specifici, e deve essere ricostruita per quello che effettivamente fu, ossia una ondata repressiva di grande intensità, abbattutasi sugli italiani non in quanto etnia, ma come gruppo sociale egemone, dato che l’intento del regime jugoslavo era quello di utilizzare la violenza in chiave politica, per capovolgere le gerarchie sociali e nazionali costruite dal fascismo, appagando in tal modo le aspirazioni slovene e croate.
Sembra evidente, che la complessità (e la drammaticità) evocata dalla legge n. 92 è legata a una pluralità di narrazioni, di memorie e di prospettive. Adottarne una a scapito di altre, vuole dire condannarsi per forza di cose, anche al di là delle migliori intenzioni, a ricostruzioni parziali, distorte, declinate secondo una prospettiva nazionalista, che trasforma la costruzione della memoria pubblica in una mera operazione propagandistica, destinata inevitabilmente a riproporre un anacronistico sciovinismo, in contrasto con lo spirito di conciliazione e di collaborazione tra i popoli e gli Stati (anche nella ricostruzione delle rispettive vicissitudini) che ha animato, alle origini, la costruzione europea.
Nella sua formulazione, ma ancora più nella sua attuazione, la legge istitutiva della Giornata del ricordo appare rivolta a sollecitare la memoria delle sofferenze degli italiani, ma non della storia complessiva di quel territorio nella prima metà del Novecento, durante il regime fascista, e durante l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia tra il 1941 e il 1945. È dunque legittimo chiedersi che cosa ne sarà della ricerca storica, della sua autonomia, se si pretende di attuare una legge dello Stato prescrivendo non solo qual è l’oggetto del ricordo, ma implicitamente anche qual è l’oggetto dell’oblio. Certamente, questo è un rischio che si insinua di frequente nelle leggi memoriali, ma esso emerge con maggiore evidenza nel caso della legge n. 92, che più di altre, andando oltre il mero invito a ricordare, lascia intravedere l’affermazione di una verità storica di Stato che altri soggetti pubblici hanno voluto rendere più espliciti ventilando (e talvolta, attuando, come in alcune mozioni approvate da Regioni governate dal Centro-Destra) misure sanzionatorie nei confronti degli storici o delle case editrici non allineati alla versione ritenuta ufficiale.
In linea generale, poi, la memoria, sia come elemento qualificante di una riscoperta della sfera della soggettività da parte della storiografia, sia come oggetto della legislazione, deve essere considerata per quello che essa realmente è: soggettiva, parziale e selettiva, mescolanza di testimonianza e ricordo, parte integrante della realtà storica (e come tale è stata riscoperta e valorizzata negli ultimi anni), ma non identificabile tout court con essa, fonte preziosa, ma anche fuorviante, se assunta in modo acritico. Anche per questo motivo, occorre prendere le distanze da una logica perversa (che in più occasioni ha trovato spazio nelle celebrazioni della Giornata del ricordo) di “lottizzazione” della memoria, per la quale ogni parte politica rivendica un ruolo esclusivo, anche se non dichiarato, di custode e interprete del ricordo di eventi, luoghi, personaggi, costruendo attorno ad esso un discorso pubblico che, più che alla celebrazione, punta alla delegittimazione dell’avversario politico del momento.
Ancora più improvvida, ma su una linea analoga, l’iniziativa di un Treno del ricordo, patrocinato dal Governo, nella quale memoria e storia sono affastellate in una narrazione che unisce una stravagante rivendicazione di italianità dei territori istriani e dalmati “iniziata nel 221 a.C. con la presenza dei romani” (con un’argomentazione che potrebbe portare a rivendicare del pari l’italianità di mezza Europa) a una improponibile assimilazione della vicenda della deportazione degli Internati militari italiani in Germania (dei militari, cioè, che rifiutarono di servire la Germania e la Repubblica sociale, salvando così l’onore dell’Esercito italiano) a quella del viaggio degli esuli giuliano-dalmati, come peraltro ha fatto rilevare il Forum delle associazioni antifasciste e della Resistenza in un recente comunicato, nel quale si precisa, tra l’altro: “Le drammatiche vicende degli IMI, determinate dalla loro decisione di aderire a fascismo e a nazismo, nulla hanno a che vedere con quelle altrettanto drammatiche, ma originate da altre motivazioni e sviluppate in un diverso contesto, degli esuli giuliano dalmati”.
È auspicabile, da parte di chi intraprende simili iniziative un maggiore impegno sul piano del rigore storiografico, in assenza del quale, commistioni ingiustificate e forse anche strumentali sono suscettibili di dare vita a narrazioni gravemente distorte, in contrasto palese con il dichiarato intento di provvedere alla formazione civile delle giovani generazioni. La trama memoriale può operare come terreno di confronto e di dialogo solo a condizione che si prenda atto, anche nella legislazione e nella condotta delle istituzioni, della molteplicità delle memorie singole e collettive, e delle narrazioni a esse connesse, e della possibilità che convivano e si confrontino, confluendo in un discorso pubblico pacificato perché plurale e inclusivo. È quanto è avvenuto il 13 luglio 2020 il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e il Presidente della Repubblica slovena Borut Pahor, quando, in occasione delle celebrazioni per la restituzione alla comunità slovena del Narodmi Dom di Trieste, incendiato dai fascisti cento anni prima, hanno reso insieme omaggio al monumento di Basovizza e successivamente al cippo in ricordo di quattro antifascisti sloveni condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e fucilati nel 1930.
Ricapitolando, si può dunque convenire, senza riprendere l’ormai stantìa polemica su un presunto negazionismo richiamato a ogni piè sospinto dai corifei della destra ultranazionalista, che una indagine storica seria sulla vicenda novecentesca dell’area alto adriatica richiede che venga assunto, come dato di partenza l’elemento di complessità definito dalla contiguità, in quella frontiera, di una pluralità di gruppi linguistici e nazionali, dal variare dei loro rapporti, nell’ambito di entità statali succedutesi nel tempo e in relazione a momenti di rottura, quali sono state le due guerre mondiali e la dominazione fascista, che hanno fatto precipitare elementi di conflitto endogeni, ai quali si sono aggiunti fattori esogeni altrettanto condizionanti (si pensi solo alla presenza dei cosacchi in Carnia).
Si tratta di un principio che, ove applicato, potrebbe concorrere a correggere alcune distorsioni della legge n. 92 e riportarla alle sue finalità originarie, liberandola dalle incrostazioni propagandistiche che ne alterano il significato e ne impediscono la piena attuazione. Anche l’impostazione del Museo potrebbe concorrere in questa direzione e su questo tema, e su queste pagine, Eric Gobetti ha dato delle indicazioni tematiche di indiscutibile valore scientifico. Ma forse si può aggiungere un’ulteriore considerazione, partendo dalla questione della localizzazione del Museo. A tale proposito il Ministro della Cultura ha sottolineato il significato dell’insediamento a Roma, a rappresentare la valenza nazionale della questione. Resta da chiedersi come mai, tra i soggetti chiamati a promuovere la Fondazione che dovrebbe gestire il Museo, salvo successive adesioni, sia indicata esplicitamente la Regione Lazio e non il Comune di Roma, ma ancora di più sorprende l’assenza della Regione Friuli Venezia Giulia.
Se però veramente si volesse fare qualcosa di nuovo e di utile, e forse si è ancora in tempo a farlo, sarebbe importante trarre le conseguenze dal discorso fatto finora per rendersi conto che la vicenda del confine italo-sloveno non è una vicenda solo nazionale, ma transnazionale, che coinvolge tre Stati, Italia, Croazia e Slovenia, e che la costruzione di un discorso pubblico sull’intera vicenda, la promozione della ricerca, la narrazione degli eventi potrebbero assumere un significato e una valenza realmente europea se promossi e realizzati congiuntamente, dai tre governi, dai loro istituti di ricerca, dalle loro università, dai singoli studiosi. Non dimentichiamo la rilevanza, ai fini dell’apertura di una seria riflessione storiografica, del documento della Commissione storica italo slovena; quel documento ha più di venti anni, ma lo spirito di collaborazione, la volontà di approfondimento, il sostrato etico di un discorso storico che guarda alla riconciliazione potrebbero rivivere associando a una impresa senz’altro meritevole tutti gli altri protagonisti della vicenda. E qualora si volesse comunque conservare al governo italiano la titolarità dell’iniziativa, la gestione scientifica dell’Istituto potrebbe comunque essere affidata a studiosi di diversa nazionalità, che rappresentino diverse tendenze scientifiche e punti di vista nazionali differenti, e la stessa collocazione del Museo potrebbe riflettere questa dimensione non più angustamente nazionale.
L’internazionalizzazione di una tale istituzione restituirebbe profondità alla riflessione storiografica e trasparenza agli intenti di suoi promotori.
Ci si consenta di chiudere con le parole di un grande storico italiano, Federico Chabod. Nel 1943, concluso un memorabile ciclo di lezioni sull’idea di Europa, Chabod raggiunse la Valle d’Aosta, per unirsi alla Resistenza. Nella sua militanza partigiana, Chabod si batté coraggiosamente e con convinzione anche per salvaguardare l’italianità della Valle dalle mire del governo francese che, per volontà dello stesso generale De Gaulle, aspirava ad annetterla alla Francia. Chabod si fece allora portavoce delle istanze autonomistiche di quel territorio che, come le zone del confine orientale d’Italia, aveva subito pesantemente la politica di italianizzazione forzata del fascismo, e sostenne presso il Governo italiano e presso il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia e del Piemonte la necessità di concedere immediatamente lo Statuto di autonomia che fu poi effettivamente concesso nel settembre 1945 (Chabod stesso fu il primo Presidente della Regione) e trasformato in legge costituzionale dall’Assemblea Costituente.
In uno dei memoriali inviati al Ministro della Guerra del Governo Bonomi, Chabod si esprimeva in questi termini: “Sembra a me che sarebbe bello e nobile da parte della nuova Italia iniziare, per prima in Europa, una politica di larga libertà nelle zone di frontiera, in quelle zone cioè dove vecchi nazionalismi europei avevano sempre fatto sentire più duramente il loro peso, facendo così di quelle strisce estreme dei territori statali degli inevitabili punti d’attrito, dei fatali focolari d’irredentismi, pretesto e motivo poi facile per le guerre e le avventure nazionalistiche. Noi dobbiamo farne invece degli anelli di collegamento tra una nazione e l’altra, dei ponti di passaggio su cui s’incontrino gli uomini dei vari Paesi e imparino a smussare gli angoli, a lasciar cadere le diffidenze, a deporre la boria delle nazioni”.
Quelle nobili parole rimasero in larga parte inascoltate, e furono sopraffatte dal clamore proveniente da altre parti del Paese e in particolare proprio dal confine orientale dell’Italia, dove, nell’arco di pochi anni si erano susseguiti senza alcuna interruzione terribili episodi di violenza, alimentati da nazionalismi radicali e radicalizzati, prima quello italiano e poi quello jugoslavo, sordi a qualsiasi ipotesi di soluzione dei conflitti che non consistesse nel ricorso indiscriminato alla forza. Ma a distanza di anni, quelle parole, frutto di una riflessione storica oltre che politica, conservano tutto il loro valore, non solo come auspicio per un tempo a venire, ma soprattutto come richiamo a valori etici e politici fondanti di una nuova qualità della vita civile e della convivenza tra le nazioni; in tempi di nuovi conflitti, di nazionalismi risorgenti con tutta la loro mostruosa carica di violenza, di integralismi e di rinnovati furori bellici, quelle parole ricordano quanto sia necessario uno sguardo disinteressatamente rivolto a scrutare il passato per cogliere in esso i segni di un futuro migliore e degno di essere vissuto.
Pubblicato domenica 11 Febbraio 2024
Stampato il 05/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/foibe-un-treno-un-museo-e-la-memoria-a-scartamento-ridotto-ancora-sulla-giornata-del-ricordo/