Cara Presidente Meloni, caro Ministro Sangiuliano,
ho appreso con piacere che avete annunciato l’istituzione a Roma di un museo nazionale del Ricordo delle violenze avvenute al confine italo-jugoslavo durante e dopo la Seconda guerra mondiale.

Già i mass-media lo definiscono entusiasticamente “il museo delle Foibe”. Mi permetto di scrivervi perché nel comunicato stampa che accompagna il lancio del progetto si auspica il contributo di “soggetti pubblici e privati” e io, modestamente, studio da decenni quella vicenda. Ho addirittura scritto un libro che magari avete sentito nominare: si intitola E allora le foibe?, edito da Laterza nel 2021.

Ho letto anche che è prevista la spesa di 8 milioni di euro; ma io, sebbene non abbia uno stipendio dalla crisi del 2008, vi vorrei offrire la mia collaborazione gratuitamente, perché da cittadino penso, esattamente come voi, che ognuno debba fare la sua parte per il bene del Paese. E poi condivido lo scopo di far conoscere agli italiani “la complessa vicenda del confine orientale” e le sue drammatiche conseguenze: le foibe e l’esodo. Il nostro obiettivo comune è quello di impedire che drammi del genere si ripetano, condannarne storicamente i responsabili, e contribuire così a rendere il mondo un posto migliore, dove i conflitti si possano risolvere con la mediazione e la trattativa e non con le armi e la violenza.

Data questa premessa, sono certo che presterete la massima attenzione alle mie proposte, che vanno nella direzione auspicata dalla legge che vent’anni fa ha istituito il Giorno del Ricordo. D’altronde che senso avrebbe non ascoltare i consigli degli studiosi più esperti, gli unici titolati a parlare con cognizione di causa di eventi storici tanto delicati?

Ecco quindi le mie proposte per il museo che si farà.

Nell’immagine, la statua di Italo Svevo (1861-1928) sullo sfondo della Trieste mitteleuropea

Primo. Il museo deve rappresentare chiaramente il territorio in cui quegli eventi si sono svolti, sottolineando la compresenza plurisecolare di varie identità culturali e linguistiche, fra cui quella italiana, e il peso notevole delle identità miste: individui come il famoso scrittore triestino Italo Svevo, che tutti abbiamo studiato a scuola, ebreo-italiano-tedesco cosmopolita e plurilingue.

6 aprile 1941, invasione e occupazione della Jugoslavia

Secondo. Il museo deve identificare in maniera corretta il momento storico in cui quei fatti si sono verificati, dunque la Seconda guerra mondiale, un conflitto a cui l’esercito fascista ha partecipato al fianco di quello nazista. Sarà dunque chiaro ai visitatori che l’Italia ha invaso la Jugoslavia (in particolare i territori sloveni e croati oltre il confine), non il contrario, e che i partigiani jugoslavi hanno combattuto per liberare il proprio Paese da un’invasione, esattamente come hanno fatto i nostri partigiani dopo l’occupazione tedesca.

Il 12 luglio 1942, villaggio di Podhum, L’eccidio di civili croati da parte delle forze di occupazione italiane. In primo piano, il monumento alle vittime della strage

Ovviamente non si potrà evitare di parlare dei tanti crimini di guerra commessi dall’esercito italiano in quei territori di confine tra il 1941 e il 1943, compresa la strage di Podhum, vicino a Fiume, in cui l’intera popolazione maschile venne sterminata, e il campo di concentramento di Arbe, su un’isola della Dalmazia, dove 1.500 civili — donne, vecchi e circa 200 bambini — morirono di fame a causa della deportazione italiana.

Campo di Arbe, creato dal comando della Seconda Armata italiana nel luglio 1942, i bambini jugoslavi giocano nel fango

Terzo. Quando si tratterà il tema delle foibe istriane (quelle del 1943) i curatori sapranno indicarne chiaramente le motivazioni nella rabbia della popolazione croata oppressa da vent’anni di fascismo, una popolazione a cui è stata negata la stessa identità nazionale, impedendogli addirittura l’uso della propria lingua madre in luoghi pubblici.

Dietro il manifesto, il Narodni Dom, la casa della cultura di Trieste incendiata e distrutta dai fascisti nel 1920

Grazie a questa premessa sarà possibile per il visitatore comprendere l’odio che una tale oppressione ha generato e le conseguenze concrete nella breve fase di anarchia successiva all’Armistizio dell’8 settembre 1943, e si stupirà forse che le vittime di quelle violenze siano state solo 400 su decine di migliaia di italiani, e quasi tutti membri delle strutture di potere fascista.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Qualora si scegliesse di raccontare la storia di alcune figure emblematiche, come la povera Norma Cossetto, risulterà chiaro che la vittima è stata scelta perché membro del partito fascista e figlia del principale gerarca locale, quindi per ragioni politiche e non perché italiana. L’ultima delle sale dedicate a questa fase mostrerà senza dubbio la conquista tedesca del territorio, l’uccisione di 2.500 civili italiani e croati (anche loro vittime inermi di quella lunga stagione di violenza) e l’uso propagandistico delle foibe da parte dei nazisti, attraverso la diffusione di immagini di corpi riesumati e la descrizione di torture e stupri senza alcuna prova.

Quarto. Anche nelle sale dedicate alle violenze del 1945 dovrà essere chiaro il contesto storico, unico modo per comprendere qualunque evento del passato. La prima sala sarà dedicata alla durissima contrapposizione ideologica e militare degli ultimi due anni di guerra: da una parte la collaborazione di migliaia di italiani, sloveni e croati con il governo tedesco della regione, il loro supporto alla repressione antipartigiana e alla politica nazista dello sterminio; dall’altra i partigiani sloveni, croati e italiani che hanno lottato per porre fine a quella terribile violenza al fianco di tutti gli altri eserciti alleati.

Sarebbe auspicabile che un’intera sala sia dedicata ai 30.000 italiani che hanno combattuto da partigiani in tutta la Jugoslavia, fra il 1943 e il 1945 e che sia tributato il giusto omaggio ai 10.000 caduti (il doppio delle vittime delle foibe) di quella coraggiosa scelta: personalmente posso fornire i filmati delle interviste che ho realizzato per il documentario Partizani. A questo punto risulterà chiaro perché l’esercito di liberazione jugoslavo abbia allestito campi di prigionia per tedeschi e collaborazionisti, e perché molti di loro sono stati processati sommariamente e condannati a morte, in un fenomeno che verrà correttamente inquadrato nella “resa dei conti” che si verifica in tutta Europa a fine guerra.

Un pannello dedicato alle cifre, condivise ormai da tutti gli studiosi, mostrerà come le 4.000 vittime italiane rappresentano meno del 5% di tutte le vittime della giustizia sommaria dei partigiani jugoslavi, rendendo possibile comprendere l’entità del fenomeno e le sue motivazioni politico-militari e non nazionali. La conferma arriverà infine dalla sala dedicata alle uccisioni prettamente ideologiche, ovvero le decine di attivisti politici eliminati dalla polizia jugoslava stalinista perché ritenuti pericolosi per il regime, e non per la loro appartenenza nazionale. Se si vuole fare riferimento alla Shoah, bisognerà sottolinearne la totale differenza sia nei numeri che nelle motivazioni, e sottolineare che i responsabili delle violenze di fine guerra avevano in precedenza lottato contro il nazismo e quindi contro chi conduceva la Soluzione Finale alle sue più estreme conseguenze.

Confini Italia-Jugoslavia 1913-1954

Quinto. Una sezione del museo, ben distinta delle altre, sarà dedicata all’esodo, descritto correttamente come parte di un fenomeno europeo, conseguenza della sconfitta dell’Italia e della Germania nella guerra mondiale. Dopo aver fatto chiarezza sulle cifre (300.000 profughi, di cui 60.000 funzionari e coloni immigrati da pochi anni e 50.000 sloveni e croati) e sulle tempistiche dell’esodo, verranno mostrate le cartine che evidenziano il ripetuto spostamento del confine italo-jugoslavo fra la prima e la seconda guerra mondiale. Il visitatore avrà così modo di appurare come la vittoria nella Grande Guerra aveva consentito all’Italia di annettere uno vasto territorio abitato da popolazioni miste, che viene solo in parte perduto con la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Si mostrerà come le richieste territoriali italiane e jugoslave erano altrettanto valide, in un territorio abitato da entrambi i popoli, e come l’accordo finale abbia favorito gli sconfitti, cioè l’Italia, a cui sono rimaste le due principali città: Trieste e Gorizia.

Una trattazione delle diverse motivazioni che hanno spinto i profughi a lasciare quelle terre, scegliendo l’esilio in circostanze difficili e di epocali cambiamenti politici, potrà essere fatta con il contributo delle tante testimonianze raccolte dagli studiosi, dalle associazioni degli esuli e dagli istituti storici della Resistenza. Il tema dell’accoglienza ricevuta in Italia si potrebbe attualizzare mettendo a paragone la volontà di accoglienza mostrata allora dallo Stato italiano, pur in una condizione di prostrazione materiale, con le misure di respingimento e criminalizzazione dei profughi adottate oggi da una società benestante e in pace. Facendo uso di documenti e testimonianze, sarà possibile evidenziare le attività svolte dalle istituzioni nazionali e locali (tra cui le amministrazioni comuniste) per accogliere gli esuli, ma anche sottolineare la difficoltà d’integrazione da essi incontrata, in una dinamica di timore e competizione per le poche risorse disponibili (cibo, casa, lavoro) con le popolazioni già residenti e con altri profughi.

Jugoslavia, partigiani italiani e jugoslavi insieme. Nella terza foto, del dopoguerra, combattenti della Divisione “Garibaldi” a Plevje per rendere omaggio ai Caduti (archivio fotografico Anpi nazionale)

In definitiva risulterà chiaro come i profughi di fine guerra provenienti dalla Jugoslavia, dalla Grecia, dalla Tunisia, dalle ex colonie africane, possano essere considerati le ultime vittime della guerra condotta e persa dal regime fascista al fianco della Germania nazista. In nessun caso, ovviamente, si dovrà utilizzare l’espressione “pulizia etnica”, che descrive fenomeni completamente diversi da quello in oggetto, come ben sapete.

Settembre 1983, il presidente Pertini in Montenegro, nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia in occasione del 40° anniversario della formazione della Divisione italiana “Garibaldi”. Tre sono immagini dell’archivio fotografico Anpi, riconosciuto dalla Soprintendenza dei Beni culturali di rilevante interesse storico, la prima a sinistra in basso è dell’archivio del Quirinale

Un’ultima sala potrebbe essere dedicata al trattamento riservato alle minoranze nazionali rimaste in Italia e in Jugoslavia dopo la guerra. Sarebbe bello che in chiusura si sottolineasse l’opera di pacificazione e di mediazione “culturale” condotta da queste comunità, da membri delle istituzioni come il presidente Sandro Pertini, che inaugurò il monumento ai partigiani italiani in Jugoslavia nel 1983, e da singole personalità come Sergio Endrigo, esule e cantautore bilingue.

Sergio Endrigo era nato a Pola, Croazia, nel 1933

Sono sicuro che abbiate apprezzato la mia proposta, che non ha altro scopo se non quello di aiutarvi a far conoscere correttamente questa vicenda ai nostri cittadini. Naturalmente immagino che contatterete altri storici altrettanto titolati di me: non faccio nomi per non offendere nessuno, ma so che sapete ben distinguere gli studiosi onesti dai propagandisti di professione. Ovviamente, per rispettare la verità storica ma anche onorare la memoria delle vittime, dovrete tenere conto anche della sensibilità degli esuli, delle associazioni partigiane e delle vittime delle violenze fasciste in Slovenia e Croazia (posso fornirvi i contatti, se serve).

Dubrovnik, Jugoslavia, fine aprile 1945, il capitano Angerlo Graziani passa in rivista 750 militari italiani pronti al rientro in Italia. Per due anni con la divisione partigiana “Garibaldi” avevano combattuto in Montenegro, Bosnia, Erzegovina al fianco dell’esercito di Liberazione jugoslavo contro i nazifascisti

Un museo così strutturato offrirebbe davvero ai visitatori gli strumenti per capire quella storia, comprenderne le dinamiche di violenze e poterle così individuare nel nostro presente e nel nostro futuro. Alla fine della visita sarebbe chiaro a chiunque che è stato il nazionalismo italiano a scatenare la violenza sul confine italo-jugoslavo, che è stato il fascismo a portare l’oppressione e poi la guerra in quei territori; che i partigiani italiani e jugoslavi hanno operato insieme per sconfiggere il nazismo e la sua volontà di sterminio; e che le foibe e l’esodo sono state l’estrema conseguenza di quella terribile stagione che nessuno vorrebbe veder tornare.

Gorizia, il punto di confine

Siccome però voi fate politica e non storia, mi preme sottolineare un altro aspetto positivo della mia proposta. La presentazione che ho ipotizzato, pur avendo una prospettiva italiana, è del tutto compatibile con la memoria collettiva di altri Paesi, con cui condividiamo la volontà di pacificazione all’interno della grande casa comune europea. Inoltre tale impostazione è perfettamente in linea con i valori fondanti dello Stato democratico che voi governate, poiché evidenzia le responsabilità storiche del nazionalismo e dei totalitarismi, a cui spesso fate riferimento nei vostri discorsi.

Credo dunque di aver contributo con una proposta non solo ineccepibile da un punto di vista storico, ma anche accettabile in un’ottica politica, poiché certo anche voi condividete con me la volontà di difendere in ogni modo la nostra democrazia, così faticosamente raggiunta grazie al sacrificio di tanti partigiani durante la seconda guerra mondiale. E ovviamente condividete con me la condanna “senza se e senza ma” di ogni nazionalismo e di ogni totalitarismo, e prima di tutto quelli che hanno fatto più male al nostro Paese: il nazionalismo italiano e il regime fascista.

Congratulandomi per la lodevole iniziativa e certo di un positivo e rapido riscontro, porgo distinti saluti. Cordialmente,

Eric Gobetti, storico. Ricordiamo, tra i suoi tanti libri, per i tipi di Laterza editore “E allora le foibe?” e l’ultimo uscito “I carnefici del duce”