«Dopo la rivoluzione sovietica, ma soprattutto nel periodo della Guerra fredda, la dottrina (Monroe, ndr) subisce una trasformazione, nel senso di considerare i partiti comunisti come un’emanazione diretta dell’Unione Sovietica, una schiera avanzata dell’espansionismo sovietico, cosicché qualsiasi vittoria del Partito comunista si configura come una invasione esterna pur presentandosi come un fatto di politica interna. La sola possibilità di una rivoluzione comunista, la stessa presenza dei partiti comunisti, o addirittura qualsiasi rivoluzione o trasformazione democratica (tipo Arbenz in Guatemala) vengono viste come se si trattasse di un intervento sovietico».
Così Lelio Basso, nell’aprile 1977, illustrava i caratteri della politica estera statunitense verso i Paesi latinoamericani, le cui radici affondavano nella cosiddetta “Dottrina Monroe” risalente al 1823.
«Questa evoluzione del concetto di minaccia esterna – continuava Basso – contro la quale gli Stati Uniti devono a loro volta intervenire (qualsiasi agitazione di tipo comunista, essendo un’aggressione esterna di origine sovietica), e poi la tendenza a identificare con i comunisti qualunque elemento, qualunque partito, qualunque movimento di sinistra, rende inevitabile il ricorso alla “Sicurezza nazionale”; dalla difesa contro un attacco esterno, si passa all’attacco contro le classi oppresse, poiché ogni agitazione sociale scaturita da motivi interni si trasforma in un’aggressione provocata da Mosca».
Si trattava di un argomento che era stato approfondito dal Tribunale Russell II sull’America Latina, fondato proprio dal leader socialista, che si era sviluppato su tre sessioni a partire dal 1974. Il “Tribunale Russell II contro la repressione in Brasile, Cile e America Latina” era stato presentato il 6 novembre 1973 nei locali della Fondazione universitaria di Bruxelles.
La riunione si era svolta in contemporanea, e ne rappresentava un momento di controinformazione, con la “Brésil Expo” organizzata nella capitale belga dal governo civico-militare brasiliano per propagandare i successi del “miracolo economico”.
Muovendo dall’esperienza del Tribunale Russell sul Vietnam, promosso da Lord Bertrand Russell e del quale il costituente italiano era stato relatore finale, il Tribunale Russell sull’America Latina (TRII) non avrebbe dovuto limitarsi alla denuncia delle violazioni dei diritti umani, bensì dimostrare come queste si fossero trasformate in un sistema di potere: “Naturalmente si parte dalle torture, come per il Vietnam si è partiti dai crimini di guerra, per mobilitare i più ampi strati dell’opinione pubblica. Ma le dichiarazioni del Tribunale devono basarsi su un quadro completo di tipo sociologico, economico, politico e culturale riguardante la situazione interna e internazionale del Brasile, soltanto in questo modo l’opinione pubblica internazionale potrà essere resa cosciente della realtà della situazione”.
Il TRII è stato un tribunale internazionale d’opinione che, nella forma di un procedimento “giurisdizionale”, ha condotto indagini, raccolto documentazione probatoria e testimonianze, realizzato udienze pubbliche, sottoposto al giudizio di una giuria internazionale (composta, tra gli altri, da personaggi del calibro di García Márquez, Julio Cortázar, Pablo Neruda, J.P Sartre, Simone de Beauvoir), e condannato con delle sentenze i governi dittatoriali latinoamericani in quanto colpevoli di “violazioni gravi, sistematiche e ripetute dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli”.
Come scrisse Sartre nell’Introduzione a I dannati della terra, “le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri. Questo rende la loro testimonianza irrefutabile”.
Proprio la testimonianza, ben al di là del significato giudiziario, fu al centro dell’esperienza del Tribunale e ne caratterizzò il dispositivo narrativo. Molte delle testimonianze originali giunsero in forma scritta, spesso con la richiesta di mantenere l’anonimato, ma furono circa un centinaio i testimoni che parteciparono e intervennero direttamente alle sessioni. Nell’archivio del Tribunale (presso la Fondazione Basso) sono conservate centinaia di testimonianze raccolte nel corso del tempo e provenienti da diverse fonti. In anni recenti il linguaggio della testimonianza, per sua natura transnazionale, si era rivelato nei movimenti terzomondisti, nella protesta contro la guerra in Vietnam, e aveva trovato espressione nello stesso Tribunale Russell I (1967) e poi nel movimento del Sessantotto per il rilievo dato all’autonomia individuale, priva di confini e non sottoposta alle logiche delle identità nazionali. All’inizio degli anni Settanta stava rimodellando le rivendicazioni politiche dell’attivismo transnazionale.
Non c’è dubbio che la “svolta testimoniale” procedette per vie plurime, in parallelo alla crescita di una cultura dei diritti umani. D’altronde nel 1971, era stata fondata Médecins sans Frontiéres, da medici e giornalisti francesi, per i quali l’idea di una forte témoignage – dal punto di vista umanitario – aveva il sopravvento sul silenzio della Croce Rossa.
È opinione abbastanza comune che proprio nel 1967 abbia inizio la terza fase della storia delle Nazioni Unite e dei diritti umani. In questo contesto, il Tribunale Russell II fu animato da una prolungata campagna internazionale di rivendicazione basata sulla costruzione e sulla mobilitazione di una vastissima rete di gruppi e di comitati, a livello nazionale e locale, in America Latina, in Nord America e in Europa.
Nelle sue sessioni si occupò di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay, Bolivia, Paraguay, Guatemala, Porto Rico, Santo Domingo, Colombia, Nicaragua e Haiti. Si configurò, cioè, come un “movimento sociale transnazionale”: una delle prime espressioni delle nuove forme di mobilitazione che segnarono la nascita della “società civile globale” nella crisi dell’ordine internazionale della Guerra fredda quali i processi di decolonizzazione, la rivoluzione cubana, i movimenti guerriglieri latinoamericani, la teologia della liberazione, i nuovi movimenti migratori, gli sviluppi del mercato globale, l’esaurimento dei presupposti del sistema bipolare delle relazioni internazionali.
Il TRII superò le vicende del subcontinente ma fu partecipe e interprete di una fase storica in cui maturarono questi profondi cambiamenti su scala globale. Come ha rilevato lo storico Giancarlo Monina, “in un’epoca di transizione, il TRII rappresentò una sorta di laboratorio o di microcosmo in cui si intrecciarono, in primo luogo, i percorsi di culture marxiste e cristiane, ma anche quelli riformisti di ascendenza liberaldemocratica, fino a coinvolgere, nello specifico contesto latinoamericano, ambienti antimperialisti di tradizione nazionalista e populista. Una fase in cui prevalsero le contaminazioni, in cui il vocabolario dei diritti umani si mescolò con quelli marxisti, antimperialisti e anticapitalisti, in un processo di confronto, scontro e osmosi”.
Il TRII rivestì, anche, per le donne e gli uomini latinoamericani terrorizzati e piegati dai sistemi repressivi dei regimi dittatoriali, un momento fondamentale di denuncia e solidarietà transnazionale. Le sessioni, anticipando di vent’anni le Commissioni sulla verità che sorgeranno nei diversi Paesi con il ritorno delle deboli democrazie, rappresentarono l’unica occasione di cui disposero i popoli latinoamericani per denunciare a livello internazionale le violazioni dei diritti umani in corso, la cosiddetta “dimensione degli orrori”, nel disinteresse delle più avanzate democrazie. È il caso dell’Argentina, la cui involuzione repressiva attuata dall’Alianza anticomunista argentina (la cosiddetta Triple A) venne denunciata nella sessione di Bruxelles (1975) ben prima che sopraggiungesse il golpe del 24 marzo 1976.
Di fronte alle migliaia di segnalazioni di desaparecidos e denunce di omicidi, di sequestri e sparizioni forzate che ricevette il Tribunale dai diversi angoli del Cono Sur, per la prima volta venne studiato il fenomeno della tortura quale strumento istituzionalizzato di repressione degli avversari politici; poi si analizzò il ruolo delle multinazionali come causa economica della violazione dei diritti umani, la nota “struttura contemporanea del saccheggio”, così l’aveva definita lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ne Las venasabiertas de América Latina, e, in ultimo, i regimi dittatoriali per crimini contro l’umanità.
Il Tribunale diede un contenuto sostanzialmente depoliticizzato (superando il mero formalismo giuridico della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948) alla categoria dei “diritti dei popoli”, in virtù della quale si proponevano quali soggetti di diritto internazionale i popoli del “Terzo mondo” e il loro diritto all’autodeterminazione, al controllo delle risorse naturali ed economiche del proprio territorio.
Attraverso questa chiave interpretativa, i linguaggi dei diritti umani si modellarono nella concreta lotta contro le dittature, diventando spazio comune e base di partenza per raggiungere “posizioni più avanzate”, riflesso della maturazione di una cultura globale dei diritti e di una nuova concezione dell’ordinamento internazionale. Lotte che ancora non hanno perso valore.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato domenica 5 Novembre 2023
Stampato il 05/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/tribunale-russell-ii-la-lunga-battaglia-per-i-diritti-dei-popoli/