Quarant’anni fa venivano uccisi a Palermo, crivellati da colpi di mitra bellico, Pio La Torre, dirigente nazionale e segretario regionale del PCI e Rosario Di Salvo, suo fraterno compagno, quella mattina e come sempre, alla guida dell’automobile che li portava alla sede del partito. Di Salvo coprì col proprio corpo La Torre, esplodendo, disperatamente ed invano, cinque colpi con la propria pistola.
Il tiro contro il partito comunista non era mai stato alzato a un livello tanto alto e significativo: con l’uccisione di La Torre non si colpiva solo il suo partito, ma la democrazia italiana e si toglieva di mezzo un “organizzatore politico di straordinarie qualità umane e intellettuali, un sostenitore irriducibile del dialogo tra forze democratiche, un campione di esemplare coerenza morale”, scriverà l’indomani il “Corriere della Sera”, per il quale non c’erano dubbi che fosse un omicidio politico.
Eppure, per uno strano evolversi delle analisi all’indietro, tipico del nostro Paese, mano a mano, molti osservatori, più o meno acuti ed interessati, iniziarono a diffondere il refrain che quello era stato un delitto di mafia, magari alta, ma mafia.
La moglie Giuseppina non si accontentò mai di questa versione riduttiva e di comodo, disse che qualcuno non aveva voluto la verità e che nelle attività investigative era scattato un “semaforo rosso”, e, tuttavia, nutriva, al pari di tanti onesti democratici, una misurata fiducia che, col tempo, verità e giustizia si sarebbero raggiunte scoprendo i mandanti politici.
Così non è stato e, quasi sicuramente, non sarà in futuro, ma vale la pena, comunque, di mettere in chiaro che sugli anni 1979-1983 in Sicilia, cioè su quella impressionante catena di assassinii – Mario Francese, Boris Giuiano, Cesare Terranova, Michele Reina, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Emanuele Basile, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici – e la decapitazione di una schiera di uomini del progresso democratico, ciascuno di essi inserito in posizioni di rilievo tali da potere imprimere una svolta effettiva nella vita politica della Sicilia e del Paese, non si è mai veramente voluto scendere in profondità, cioè scavare le ragioni nascoste di quella lunga fase tragica che ha visto gettare le fondamenta destinate al cambiamento della natura della nostra democrazia.
La Torre aveva combattuto la mafia da sempre, aveva fatto i nomi, nel silenzio generale, dei politici mafiosi e dei mafiosi politici che comandavano a Palermo.
Aveva capito, già nei primi anni ’70 che la mafia siciliana si era allargata al Nord, che operava nella finanza, che trattava alleanze con i fascisti.
Aveva elaborato la relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia, documento di studio, di analisi e di proposta, ancora oggi di stupefacente attualità, nonostante siano passati oltre quarant’anni.
Aveva introdotto un nuovo e allora assolutamente inedito linguaggio politico, dando nomi più autentici e realistici a situazioni e fenomeni, cosi la “mafia” lascia il posto al “sistema di potere mafioso”, “composto da uomini politici e da uomini in posizione chiave nel potere in Sicilia”; i delitti “eccellenti”, prima ricordati, erano omicidi molto pesanti, di uno stile diverso da quello mafioso tradizionale, decisi da un “Tribunale internazionale” costituito da personaggi di altissimo livello, e la mafia – struttura criminale – non può non avere un suo “stato maggiore nazionale”.
Aveva chiaro il vero volto del banchiere siculo-americano Michele Sindona, venuto in Sicilia per un progetto separatista e golpista, pedina di un gioco di ampio respiro internazionale che teneva insieme mafia, apparati americani, alta finanza e politici italiani.
Aveva intravisto, con nove anni di anticipo, il peso di strutture occulte di tipo militare-civile, che, poi, avremmo saputo essere la Gladio. Aveva presentato una proposta di legge per il contrasto alle associazioni mafiose da colpire, soprattutto, nei loro patrimoni criminali e che, dopo l’omicidio Dalla Chiesa, sarebbe diventata una legge dello Stato, fondamentale nella lotta alla mafia, che ha preso il suo nome.
Ma in questa fase drammatica della nostra storia, segnata dai deliri bellicisti delle grandi potenze e di tanti Stati vassalli, con il rischio di una catastrofe umanitaria senza precedenti, torna di cocente attualità il La Torre pacifista, protagonista negli ultimi mesi del 1981 e sino al 30 aprile 1982, di una eccezionale iniziativa politica di massa, in collegamento con altre forze politiche, culturali, religiose e sociali, contro l’installazione di una base missilistica americana a Comiso, il lembo più meridionale non soltanto dell’Italia ma dell’Europa.
Perché Comiso e non, poniamo, Pordenone? si domandava e scriveva: “Tutti sanno che oggi il Mediterraneo è uno dei punti più caldi del mondo, con molti focolai di guerra accesi. In questa situazione l’America di Reagan decide di installare la più grande base missilistica di Europa proprio a Comiso perché quei 130 missili non sono destinati ad essere puntati verso Nord, verso l’Urss, ma verso Sud, verso la Libia, verso quel Mediterraneo su cui Reagan vuole la supremazia”.
La Torre aveva lucida consapevolezza che la base missilistica, ove costruita, avrebbe trasformato la Sicilia in un avamposto di guerra e, quindi, in un “crocicchio di spie, di terroristi, di provocatori spediti qui a scontrarsi tra di loro, con il ruolo che, inevitabilmente, giocherebbe la mafia”.
E, a tal proposito – da politico acuto e dotato di robusti parametri interpretativi di fatti e accadimenti recenti o meno della nostra storia – ricordava (“Noi sappiamo” diceva, forse ripetendo l’Io so di pasoliniana memoria) come Lucky Luciano o Vito Genovese erano stati fatti uscire dalle galere americane e mandati in Sicilia a preparare lo sbarco alleato.
“È in Sicilia – proseguiva La Torre in alcuni suoi interventi di poco precedenti all’omicidio –che può scoppiare quella guerra atomica limitata di cui parlano gli attuali governanti americani. È qui che si rischia di diventare bersaglio di ritorsioni in uno scontro che va ben oltre i confini e la concezione difensiva del Patto atlantico ed è contrario agli interessi nazionali”.
Insomma, temeva fortemente che, in quel periodo, nel nostro Paese e non soltanto in Sicilia, si muovessero forze interessate “ieri come oggi” a impedirne lo sviluppo democratico, e a relegare la Regione “al ruolo di passiva colonia dell’impero”.
“Ma queste forze – dichiarava in una intervista alla rivista “Panorama” del 30 novembre 1981 – hanno sbagliato i loro calcoli e dovranno accorgersene molto presto”.
Affermazione di struggente volontà, ma i calcoli furono risolti al contrario. Tra Palermo e Comiso si è deciso il destino di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo.
La Torre è stato un pacifista di rilievo; sapeva che lottare contro i guerrafondai e i signori delle armi era molto pericoloso, sapeva che si muovevano interessi enormi nello scacchiere mediterraneo, ma confidava che il movimento della pace, avrebbe potuto fermare il pericolo del riarmo atomico, cioè la spaventosa escalation al termine della quale c’è la distruzione della civiltà umana.
Quella battaglia per la pace fu, almeno parzialmente, vinta, con lo smantellamento della base di Comiso e il progressivo rallentamento della corsa al riarmo anche a Est, altrettanto vogliamo confidare per l’oggi, pur in condizioni sicuramente mutate in peggio, anche per l’affievolimento della cultura pacifista e per l’eclisse della politica.
Quella di Pio La Torre è stata la storia emblematica di un’Italia che voleva e riusciva a pensare in grande guardando al futuro, che ragionava, lottava e non stava in silenzio.
È una storia che, negli anni in cui volgeva al termine, raggiunge livelli alti di un discorso tangibile e concreto sul potere, fuori da analisi superficiali e conformistiche. È una storia tragicamente interrotta dalla mente politica criminale che ha armato gli esecutori di quella stagione di sangue che ha inizio con Portella della Ginestra e arriva sino a via D’Amelio e alle stragi del 1993, passando per tutte quelle compiute per fermare le svolte democratiche e progressive della comunità nazionale.
La vicenda di Pio La Torre – politico e pacifista – appartiene alla democrazia, quella vera, fatta di partecipazione, lucidità e passione, che va ricordata e mantenuta dentro i canali delle troppe verità nascoste di questo Paese e che, oggi, presenta l’ulteriore elemento di una necessaria ripresa di attenzione e mobilitazione di lotta per la Pace.
Armando Sorrentino, vice presidente dell’Anpi Palermo, è l’avvocato che nel processo sull’uccisione di Pio La Torre ha rappresentato la famiglia e il partito comunista. È autore con Paolo Mondani del libro “Chi ha ucciso Pio La Torre? Omicidio di mafia o politico? La verità sulla morte del più importante dirigente comunista assassinato in Italia”, Castelvecchi editore, 1982
Ed ecco il video “Pio La Torre, venti anni dopo” di Ottavio Terranova, presidente provinciale Anpi Palermo e componente del comitato nazionale Anpi, realizzato nel ventennale della morte da Cgil Palermo e Centro di studi e iniziative culturali Pio La Torre. Buona visione.
Pubblicato venerdì 29 Aprile 2022
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