“L’utente da lei desiderato non è al momento raggiungibile, si prega di riprovare più tardi”.
Se la famosa frase attribuita a Henry Kissinger, “chi devo chiamare, se voglio parlare con l’Europa?” s’applicasse oggi, questa la probabile risposta a chi – dimostrando una certa fiducia nella UE – componesse il due nove nove undici undici (centralino della Commissione europea), chiedendo del responsabile della politica estera dell’Unione.
Anche se l’ex segretario di Stato delle amministrazioni Nixon e Ford ha recentemente messo in dubbio di aver effettivamente pronunciato quanto è oggi ormai divenuto un aforisma classico, la battuta sull’inesistenza di un numero telefonico – rectio di un modo – per contattare l’Europa, resta d’attualità. Evidenziando la mancanza di una singola linea di politica estera nel vecchio continente, le cui nazioni (intese come governi, ma anche come imprese nazionali) hanno spesso interessi diversi.
“Ora esiste una specie di numero da chiamare, ma non è assolutamente chiaro se l’America voglia concordare con l’Europa a chi debba appartenere la voce dall’interlocutore”, ha detto Kissinger a Varsavia qualche anno fa e – aggiungeremo noi – non è detto che tale paradigma si applichi solo agli Stati Uniti.
Lo dimostrano i recentissimi sviluppi libici, lo certificano l’incontro di Berlino ed i risultati della riunione del Consiglio Affari Esteri dell’Unione di lunedì 20 gennaio, che hanno avvalorato in modo palese quanto – nonostante le nomine di Catherine Ashton e Federica Mogherini prima – e di Joseph Borrell oggi – l’Alto rappresentante dell’Unione europea per le relazioni estere sia affetto da forme d’afonia congenita, lasciando ad altri leader nazionali il compito di esprimersi a nome del blocco o dei singoli.
Prendiamo, per dimostrare l’assunto, i risultati della riunione del Consiglio Affari Esteri della UE tenutasi lunedì 20 gennaio a Bruxelles, che ha confermato la volontà dei ministri degli esteri UE di rafforzare la presenza dell’Unione nello scacchiere mediorientale ed africano.
“L’UE riprende la mano su Libia Iran e Sahel” è stato l’incipit della comunicazione riassuntiva dell’incontro. Appuntamento definito “positivo” da tutti i partecipanti, in cui i ministri hanno mostrato un generale consenso a non lasciare “ad altri” la soluzione dei problemi. Dove “altri” va ovviamente letto immaginando gli Stati Uniti, la Russia e la Turchia, che hanno mostrato un’iperattività in quella zona del mondo che, tradizionalmente, vedeva non solo un’importante presenza degli europei (l’Italia in Libia ed in Iraq, l’encomiabile lavoro di Federica Mogherini con l’Iran, i francesi in Mali) ma anche una continua interlocuzione con le realtà locali che – sebbene spesso lasciata al “parastato” – ha caratterizzato gli ultimi 50 anni. Innegabile la capacità dell’ENI di comprendere meglio di chiunque altro le sottilità tribali libiche (anche perché in quelle zone lavorano dal 1959 come ENI, ereditando quanto l’Agip aveva cominciato sin dal 1939), così come ormai chiari a tutti sono i rapporti tra l’Ente italiano ed il territorio iracheno, tanto da influenzare la scelta di posizionare un contingente a Nassirya, dove l’ENI già sfruttava un locale giacimento petrolifero.
La UE intende quindi “riprendere la mano”, ma lo fa con un approccio ancora governativo – ovvero con alcuni Stati Membri che assumono la leadership su dossier specifici – in attesa di un’azione realmente comune. La riunione ha infatti sostanzialmente confermato che l’impegno europeo e la tregua dovranno essere duraturi, ma ha specificato che la UE deve ora riflettere sulle misure concrete. E spetta all’Alto Rappresentante Borrell fare proposte, in attesa del prossimo Consiglio di febbraio, lavorando di concerto con il Comitato politico e di sicurezza (COPS), che è una formazione permanente del Consiglio dell’Unione europea che contribuisce all’elaborazione e all’attuazione della politica estera e di sicurezza comune e della politica europea di sicurezza e di difesa, definendo e seguendo la risposta dell’UE in caso di crisi. Comitato che è composto dagli ambasciatori degli Stati Membri. E si ritorna quindi alla casella di partenza, in una suddivisione del lavoro che vede la Commissione di Ursula von der Leyen occuparsi di politica interna ed il Consiglio, guidato dal Belga Charles Michel, dedicarsi alla politica estera appoggiandosi sugli Stati Membri. A far da ponte tra le due realtà (la prima, indipendente e teoricamente la più adatta a sviluppare politiche nell’interesse dell’Unione – la seconda, legata a doppio filo ai voleri dei governi) lo Spagnolo Joseph Borrell, che delle due istituzioni è Vicepresidente, di certo non esecutivo.
Resta quanto ci lascia la riunione di Berlino, che ha sì visto la partecipazione di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (sedevano attorno al tavolo i rappresentanti di Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, ONU, Unione africana, Unione europea, Lega araba e USA) ma è stata sostanzialmente una pièce teatrale recitata su tre palcoscenici paralleli, con i due rivali Libici, Sarraj e Haftar, ognuno nella sua stanza e gli sherpa che facevano avanti ed indietro evitando con attenzione di far incontrare i due in corridoio. Resta la delusione – vera o presunta – del premier libico a metà, Fayez al Sarraj, che al settimanale tedesco Welt am Sonntag dichiara essere “deluso per le divergenze delle posizioni in Europa sulla questione libica”, con la Francia più favorevole al rivale Haftar. E chiede all’Europa di “fare autocritica. Gli europei sono arrivati troppo tardi”.
Rimangono i sei capitoli del documento finale, che parte da un cessate il fuoco immediato per immaginare regolari elezioni e un nuovo governo libico unitario. Evocando il disarmo delle milizie, l’embargo sulle armi e le sanzioni per chi continuasse a non rispettarlo. Nove pagine di buone e lodevoli intenzioni – che dovranno essere adottato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu – e l’ipotesi di conferenza intra-libica, unico punto che Sarraj e Haftar hanno effettivamente approvato.
Ed è sulla base di Berlino che la UE deve ora valutare le varie opzioni sulla tavola, alla luce della volontà politica di agire in fretta e riprendere la mano, limitando per quanto possibile gli interventi turchi, Paese con cui l’Unione ha una lunga serie di contenziosi aperti, che vanno dalla politica migratoria alle trivellazioni davanti alle coste di Cipro.
E se sulla Libia il messaggio europeo è “Siamo tutti d’accordo d’applicare Berlino!”, resta da immaginare come mettere in atto i principi e controllare – ad esempio – l’embargo sulle armi.
Per questo motivo, le proposte che Borrell preparerà per la riunione di Consiglio del 16/17 febbraio prossimi saranno fondamentali. Perché dovranno tener conto del desiderio francese di soppiantare l’Italia in Libia (e – perché no – anche in Iraq), dello strano personaggio che un’irrispettosa sceneggiatura ha affidato a Boris Johnson, diviso tra il post-31 gennaio – ovvero la Brexit – ed un posto al sole per l’ex impero britannico al di fuori dall’Unione – e l’attuale presenza in seno al Consiglio UE. Della bulimia di Erdogan, della malcelata voglia di Pechino d’impiantarsi nella regione non solo con l’economia ed i lavori pubblici – ormai vera riserva di caccia cinese – ma anche con un ruolo politico; delle ubbie dell’uomo più potente del mondo e dei suoi capelli arancioni (e dei messaggi che l’industria energetica statunitense gli invia sottotraccia) e della posizione del “nuovo” governo russo…
In margine alle posizioni prese da ognuno, si fa notare l’apertura italiana. Secondo varie indiscrezioni, il ministro di Maio – segnando un sostanziale cambiamento rispetto a quello che è stato definito in vari colloqui off the record come “il periodo Salvini” – non si sarebbe opposto all’idea di modificare il mandato dell’operazione Sophia per adattarla alle attuali necessità.
Nata nel 2015 per il contrasto al traffico illecito di esseri umani, l’operazione condotta dall’Italia ha lo scopo di assicurare, secondo un approccio comprensivo ed integrato, il ritorno della stabilità e della sicurezza in Libia, prevedendo anche la possibilità di ispezionare imbarcazioni nel Mediterraneo sospettate di trasportare armi e non solo esseri umani. Il problema da risolvere oggi è che l’Operazione Sophia non dispone più di nemmeno una scialuppa, perché da quando l’ex ministro dell’Interno ha scavalcato il concetto di “porto sicuro più vicino”, tentando d’imporre che le navi dei partner UE aderenti all’operazione sbarcassero i salvati nei loro porti nazionali, i Paesi partecipanti hanno – di fatto – ritirato le proprie imbarcazioni.
L’operazione Sophia potrebbe quindi tornare d’attualità come uno strumento per il monitoraggio dell’embargo delle armi verso la Libia. Lo ha confermato l’Alto rappresentante per la Politica Estera in un gustoso siparietto linguistico nel quale si è dedicato a trovare sinonimi per “rifocalizzata” in varie lingue, alla ricerca di un termine che non urtasse le sensibilità nazionali. Borrell ha citato la “la volontà politica” di tutti i 28, ricordando che “Nessuno è stato contrario, ma sarà il Comitato per la politica e sicurezza, a decidere.” Glissando con la maestria del politico di lungo corso sul tema che è il più spinoso, quello dei compiti specifici della missione e della possibilità di impiegare i mezzi anche per operazioni di salvataggio in mare.
“Una missione che deve fermare l’ingresso delle armi in Libia” ha condiviso con gli infreddoliti giornalisti che lo attendevano fuori dal Consiglio il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sottolineando che “Se poi si vuole parlare di altro non è questo l’argomento”. Cerchiobottismo di rara finezza per il nostro ministro, che se da una parte pare pronto a discutere di argomenti tabù sino a che i suoi partner governativi viravano al verde, non può esimersi dal dover tener conto del cambio di alleati e dalle mutate sensibilità.
Rimaniamo quindi in attesa vuoi della riparazione della linea telefonica del Vicepresidente, vuoi – più realisticamente – della constatazione che la politica europea estera comune resta una sorta di figura retorica, nella quale “estera” e “comune” sono antitetici quanto il rumore ed il silenzio.
Ipotesi suffragata anche dalle recenti decisioni in merito alle nuove tensioni Iran/Iraq, che hanno visto una generale convergenza sull’idea d’una missione comune di sorveglianza marittima nello Stretto di Hormuz. Talmente comune che sarà composta da alcuni Stati Membri (Francia, Italia, Belgio, Danimarca, Germania, Olanda, Grecia e Portogallo) definiti da Borrell “Una Coalizione di Volenterosi”.
Appunto, come passare dal Via senza ritirare le ventimila lire…
Filippo Giuffrida Repaci, membro dell’Esecutivo della Federazione Internazionale Resistenti
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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