Una immagine simbolo del sentimento internazionale della lotta di Liberazione dal nazifascismo: nel dopoguerra, una madre italiana mostra a un partigiano della ex Jugoslavia il medaglione con la foto del marito che taglia i fili spinati per aprire un varco e far evadere i prigionieri (archivio fotografico Anpi nazionale)

Se la storia della Resistenza – come ogni storia – ha bisogno di riscritture e aggiornamenti, un punto prioritario è questo: la Resistenza fu internazionale, non solo nazionale. Il suo ideale di fondo fu la fratellanza universale, non il nazionalismo. La piccola grande storia che racconto in questo articolo conferma un carattere importante della Resistenza finora troppo sottaciuto (su cui mi sono già soffermato in “Raccontatela per bene la nostra Resistenza”, in Patria Indipendente, 26 aprile 2022)

A metà agosto 1943, il comando del SAS – Special Air Service, corpo speciale dell’esercito britannico – organizzò le Operations Speedwell. L’obiettivo era inviare in Italia paracadutisti, scelti tra gli uomini più coraggiosi e audaci, per missioni di sabotaggio ai collegamenti ferroviari che attraversavano gli Appennini, al fine di rallentare i rifornimenti tedeschi e di impedire che gli invasori, che erano nel Nord del Paese, si spostassero verso Sud, dove stavano avanzando gli Alleati. Le operazioni furono due. Il Gruppo Uno impegnò sette uomini al comando del capitano Philip Pinckney, si paracadutò presso Firenze, effettuò la missione e rientrò nella linea del fronte ricongiungendosi con le forze alleate. Il Gruppo Due, costituito da sei militari al comando del capitano Patrick Dudgeon, doveva fare altrettanto vicino alla Spezia. In qualche modo operò, ma ebbe un tragico epilogo.

La missione Speedwell 2, oltre che dal capitano Dudgeon, 23 anni, era formata dal tenente Thomas MacLeggan Wedderburn, secondo in comando, 27 anni, dal sergente William Johnstone “Geordie” Foster, 27 anni, dal caporale James Shortall, 24 anni, nato in Irlanda, dal cannoniere Bernie Brunt, 22 anni, e dal soldato scelto Harold “Tanky” Challenor, 21 anni.

I sei britannici partirono il 7 settembre 1943 dalla base di Kairouan, in Tunisia, e atterrarono l’8 settembre a Barbarasco di Tresana in Lunigiana, dopo un volo da duemila metri. La meta doveva essere, in realtà, Borgotaro, nel Parmense confinante con la Liguria. Il loro compito era operare a coppie, in tre punti diversi delle linee ferroviarie. A Wedderburn e a Challenor spettava il punto tra Aulla e Bologna, agli altri quattro – Dudgeon con Brunt, Foster con Shortall – il punto tra La Spezia e Genova: un obiettivo difficile, anche perché lontano.

In memoria dell’armistizio: la “Pietra della pace” – Cassibile (Siracusa) donata dallo Stato Maggiore di Eisenhower alla baronessa Aline Grande

I sei vestivano un’uniforme grigio-blu americana e avevano in dotazione anche armi tedesche. La loro era una “missione quasi impossibile”: non avevano radio e non potevano comunicare, non avevano supporto a terra, né intelligence… Arrivarono quando fu firmato l’armistizio dell’Italia con gli angloamericani, ma lo seppero solo parecchi giorni dopo. La zona era pesantemente presidiata dai tedeschi, e poi dai fascisti repubblichini.

Ponzano Magra, la lapide in memoria di William Johnstone Foster e James Shortall (foto Giorgio Pagano, 2023)

Non sappiamo se Foster e Shortall fecero azioni di sabotaggio. Ma il 20 settembre, forse per stanchezza o disattenzione, entrarono in un bivacco tedesco alla Foce, sulle alture spezzine. Catturati, furono portati nel quartier generale tedesco di Ponzano Magra e, il giorno dopo – ottant’anni fa – legati a un albero, uccisi da un plotone di esecuzione e sepolti in una fossa. Il comandante Gustav Heisterman von Ziehlberg non ebbe dubbi.

Due abitanti del posto, Michele ed Ennio Marchi, videro, nascosti, il massacro. Misero una croce sulla fossa e raccontarono l’accaduto nel dopoguerra. Contro la Convenzione di Ginevra, che proteggeva i soldati in divisa, prevalse l’ordine di Hitler del 18 ottobre 1942: uccidere chiunque. Ai due britannici fu negato anche il prete, che avevano chiesto. Oggi Foster e Shortall riposano a Genova nel cimitero di Staglieno.

Genova, cimitero di Staglieno, il monumento a William Johnstone Foster e a James Shortall (foto Giorgio Pagano, 2023)

Altri due britannici – Dudgeon e Brunt – furono ospitati generosamente da Massimo Petriccioli, un contadino di Barbarasco. Non sappiamo se riuscirono a sabotare la linea Spezia-Genova.

Quando arrivarono a casa di Petriccioli, l’altra coppia, anch’essa da lui ospitata, era appena partita: Wedderburn e Challenor avevano sabotato la linea Aulla-Parma e, non trovando i compagni, si erano diretti verso sud.

Dudgeon e Brunt si fermarono sei giorni a casa di Petriccioli, durante i quali fecero ricognizioni per individuare le forze nemiche, per poi decidere di impossessarsi di un’auto tedesca. Pensavano – ma la congettura era sbagliata – che il generale Rommel fosse nella zona, e volevano ucciderlo. L’imboscata al mezzo tedesco fu tesa a sud di Pontremoli, la sera del 30 settembre. Ma qualcosa andò storto, un tedesco fu ucciso, un altro ferito. I britannici fuggirono verso il passo della Cisa su un’auto ammaccata e sporca di sangue. Furono bloccati e arrestati al posto di blocco del passo, e fucilati il primo ottobre in un sentiero vicino. Fecero in tempo a cantare la prima strofa di “God Save the King”. Von Ziehlberg, credendo fossero italiani, aveva preso in ostaggio il prefetto di Massa, tre podestà e trenta pontremolesi segnalati dai fascisti. Rommel disse di lasciarli liberi, e von Ziehlberg dovette, suo malgrado, obbedire. Fu inflitta una multa molto pesante al Comune di Pontremoli, 30 mila lire, che fu pagata il 12 ottobre.

Partigiani sovietici combattenti in Italia nella divisione “Val Ceno”, Parma

L’altra coppia di paracadutisti si salvò. Volevano raggiungere gli Alleati, ma non sapevano che fossero così lontani. Wedderburn fu arrestato a Coppito, vicino L’Aquila, a fine dicembre 1943, e deportato in Germania, fino all’aprile 1945. Filomena, la contadina che lo ospitava, fu fucilata per rappresaglia. Lo ha raccontato nel suo diario Challenor, che raggiunse Foggia dopo un viaggio di sette mesi attraverso gli Appennini. Sopravvisse solo grazie all’aiuto disinteressato della gente di montagna: “durante tutto il viaggio ricevemmo il cibo dai contadini italiani e di notte dormimmo nelle loro stalle”.

Questa storia straordinaria spiega molto bene la dimensione europea, internazionale e transnazionale che unì i movimenti di Resistenza contro il nazismo e il fascismo.

Il Battaglione Internazionale con Gordon Lett (foto archivio Istituto Storico della Resistenza La Spezia)

I resistenti internazionali e transnazionali furono molti. Un nucleo consistente fu quello dei prigionieri di guerra alleati che furono liberati o riuscirono a fuggire dai campi di internamento rimanendo però bloccati dietro le linee nemiche. Molti si aggregarono alle bande partigiane: nella IV Zona, quella spezzina, uno di loro, il maggiore inglese Gordon Lett, diede vita a una formazione di partigiani di più nazioni, il Battaglione Internazionale. Non a caso è stato Brian Lett, figlio di Gordon, a raccontare questa storia in un bellissimo libro, che spero sia tradotto presto in italiano.

Soldati italiani in Montenegro nel 1942 (donazione all’Archivio fotografico Anpi nazionale)

Un altro gruppo fu quello di coloro che vissero lo sbandamento delle proprie Forze Armate in territorio occupato dal nemico, come i militari italiani che combatterono nelle resistenze jugoslava, albanese, greca e francese, dando vita ai battaglioni Garibaldi e Matteotti in Bosnia, Garibaldi in Montenegro, Gramsci in Albania e poi in Bosnia.

Il fenomeno fu anche inverso: gli stranieri che parteciparono alla Resistenza italiana furono 15-20 mila. La banca dati del partigianato ligure, per esempio, censisce oltre 50 nazioni di nascita. Combatterono nelle brigate garibaldine liguri anche un eritreo e un capoverdiano.

Villa Wolkonsky, allora sede dell’ambasciata tedesca a Roma

Mi sono già soffermato su Patria Indipendente sulla rilevanza del fenomeno della partecipazione dei disertori tedeschi (“Quei disertori del Reich nel vento del Nord”, 8 dicembre 2021). Oggi racconto un’altra piccola grande storia, immediatamente precedente alla Resistenza, che riguarda i britannici, forse i sovietici, e il loro rapporto con i tedeschi antinazisti. Kurt Sauer, addetto culturale dell’ambasciata tedesca a Roma, collaboratore di Herbert Kappler, fu smascherato il 30 maggio 1942 dal controspionaggio italiano quale informatore dell’intelligence britannica, e forse anche sovietica. Aveva trasmesso notizie importanti, e non aveva agito per denaro ma in odio al nazismo e al fascismo. Sauer fu fucilato il 2 giugno 1943 a Forte Bravetta da un plotone di camicie nere e inumato sotto falso nome.

Lapide Commemorativa dei martiri giustiziati durante l’occupazione nazifascista, cioè dopo l’armistizio. Tra i fucilati Kurt Sauer, condotto davanti al plotone di esecuzione composto da camicie nere nel giugno 1943 e inumato sotto falso nome

Sauer fu un partigiano ante litteram della Resistenza europea, internazionale e transnazionale. Un eroe sconosciuto, come i soldati britannici dell’operazione Speedwell. Ma anche come la contadina Filomena. Già il primo storico della Resistenza, Roberto Battaglia, aveva dedicato un paragrafo della sua opera all’“internazionalismo partigiano”. Il tema non è mai stato però troppo indagato: l’Ottantesimo deve esserne l’occasione.

Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal 1997 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi. È autore di numerosi libri, tra cui per Edizioni Cinque Terre: Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia (con Maria Cristina Mirabello); Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana (con Maria Cristina Mirabello); Sao Tomè e Principe. Diario do centro do mundo; Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945; Non come tutti; Ripartiamo dalla polis; La sinistra la capra e il violino. Per Castelvecchi ha pubblicato Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico. Ha curato per ETS la pubblicazione del libro di Dino Grassi Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, uscito nei giorni scorsi