Non è un documento approssimativo, non è stato scritto a suo tempo in fretta e furia. In quelle ventisette pagine, un preambolo, dodici capitoli, 81 articoli, quel documento, conosciuto come Convenzione di Istanbul, firmato dal Consiglio d’Europa nel 2011 ed entrato in vigore tre anni dopo, rigo per rigo, parola per parola, riconosce ciò che in molte parti del mondo non è scontato: il diritto delle donne di non essere stuprate, torturate, schiavizzate, lapidate, uccise. Un diritto umano universale, di civiltà.

Prevede la prevenzione, sanzioni e il sostegno alle donne vittime di violenza, il risarcimento danni in sede civile, il divieto del matrimonio forzato imposto ad adulte e bambine, la lotta alla violenza psicologica e fisica, allo stalking, alla violenza sessuale, alle mutilazioni genitali femminili, alle molestie sessuali. “La cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto ‘onore’ non possano essere addotti come scusa per giustificare tali atti”. E ancora: “I bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrano nel campo di applicazione della Convenzione”. Il documento contrasta ogni discriminazione di genere (genere, una parola che “terrorizza” la destra). In conclusione diritti basilari alla vita, alla dignità, all’uguaglianza, alla tutela del corpo e della dignità delle donne, delle bambine e dei bambini.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Carlo Lanutti, Imagoeconomica)

Ebbene nella votazione di adesione del Parlamento europeo a tale documento, che rappresenta il minimo sindacale per la tutela di genere, la maggior parte dei deputati di Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti, così come tre deputati di Forza Italia. Alessandra Basso e Susanna Ceccardi, della Lega, hanno invece votato contro, pur sapendo che l’Italia aveva sottoscritto la Convenzione il 27 settembre 2012 e il Parlamento aveva autorizzato la ratifica con la legge numero 77/2013. Nonostante loro, la convenzione è stata ratificata in due votazioni separate: 472 favorevoli, 62 contrari e 73 astensioni, per quanto riguarda le istituzioni e la pubblica amministrazione dell’Unione; 464 favorevoli, 81 contrari e 45 astensioni per la cooperazione giudiziaria in materia penale, l’asilo e il non respingimento alle frontiere.

Manifestazione contro Erdogan che ha ritirato la ratifica della Turchia alla Convenzione europea per i diritti delle donne

Una larghissima maggioranza quindi, mentre la destra italiana si è affiancata a Paesi come Bulgaria, Cechia, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Due anni fa il governo oscurantista di Erdogan aveva già annunciato di voler ritirare la sua adesione. Secondo il governo turco, la Convenzione di Istanbul sarebbe contraria alle norme dell’Islam e incoraggerebbe divorzio e omosessualità. Sulla stessa linea sin dallo scorso anno erano anche la Polonia e l’Ungheria.

Stando all’ultimo aggiornamento del ministero dell’interno, nel 2022 in Italia si sono registrati 319 omicidi di cui 125 con vittime di sesso femminile (circa il 39%). Un totale di 140 episodi hanno avuto luogo in un contesto domestico

Ma perché  gli esponenti della destra italiana si sono astenuti o hanno votato contro? Che cosa li spaventa di questo documento che salva la vita delle donne?  Ci sono nel mondo situazioni di pericolo estremo per le donne. Due esempi per tutti: Afghanistan e Iran. Ma anche l’Italia, con la sua media di oltre cento femminicidi l’anno e con una indefinibile numero di casi di stupro dentro e fuori le mura domestiche, non è un’isola paradisiaca. “Con la nostra astensione abbiamo voluto ribadire la nostra preoccupazione sulle tematiche legate al gender”, dicono il capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, e l’eurodeputato di Fdi, Vincenzo Sofo. Ecco: hanno trovato tra quegli 81 articoli una parola che non c’è e che per loro è un incubo: gender, l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista non biologico.

(Benvegnù Guaitoli, Imagoeconomica)

Dire, Donne in Rete contro la violenza, ha reagito immediatamente inviando una lettera aperta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma da lei le donne possono aspettarsi davvero poco. Anzi nulla di nulla. Nella Giornata internazionale della donna, l’8 marzo scorso, le ha dette tutte in un’intervista a un settimanale, per non creare equivoci sul suo pensiero di donna, madre eccetera. Contro gli Lgbtq: “Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe”, “No al diritto unilaterale di proclamarsi donna”. Contro l’aborto: “Direi di darsi una possibilità di essere madre, lo Stato l’aiuterà”. In merito alla genitorialità: “I bambini hanno il diritto di avere il massimo: una mamma e un papà. L’utero in affitto è la schiavitù del terzo millennio”.

Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste, è ossessionato dall’idea della sostituzione etnica (Sara Minelli, Imagoeconomica)

Ma l’attuale presidente del Consiglio ha saputo anche circondarsi di una squadra campionessa di oscurantismo e arretratezza che sembra appena uscita dal congresso mondiale delle famiglie di Verona del 2019. Tant’è che un ministero di questo governo in carica è stato definito per la Famiglia, per la natalità e (per ultimo) per le pari opportunità. Qualche esempio. Pensiamo a Francesco Lollobrigida, ossessionato ormai quotidianamente da un tema decisamente razzista che, alla fin fine, riguarda le donne che procreano, pur non essendo materia del suo ministero dell’Agricoltura, della “sovranità alimentare” e delle foreste. “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”, ha dichiarato in uno dei suoi numerosissimi recenti interventi qua e là per l’Italia.

Sempre recente, del marzo scorso, è la decisione del governo italiano di fermare a Milano la registrazione dei certificati di nascita di figli di coppie omosessuali. Dura condanna da Bruxelles. “Il Parlamento europeo – si legge nell’emendamento approvato – ritiene che questa decisione porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli”. Bambine e bambini nel mirino del governo.

La soddisfazione delle associazioni Pro Vita in Piemonte

Se poi ci si mettono anche le Regioni a minare, in modo subdolo, i diritti di genere, il quadro su ciò che ci aspetta è completo. Il Consiglio regionale piemontese ha approvato il fondo Vita Nascente assegnando 400mila euro alle associazioni Pro Vita per aiutare le donne che decidono di non abortire. Un modo per aggirare, con finto paternalismo e indegna monetizzazione, un diritto di legge che le donne hanno conquistato. Molti parlano di un’anteprima di ciò che potrebbe essere realizzato ovunque. Simili provvedimenti erano contenuti nel programma elettorale di Giorgia Meloni.

A dire il vero ci aveva provato anche la giunta di centro sinistra pugliese: cinquemila euro alle donne che decidono di non abortire. La reazione delle  donne pugliesi è stata talmente decisa da obbligare la giunta regionale a fare un passo indietro e a sospendere la delibera.

Pochi esempi di quanto sta accadendo alle donne dall’insediamento del  governo di destra radicale. Altri attacchi ai diritti sono in embrione e si affiancano all’autonomia differenziata che vede le donne come le maggiori vittime di un sistema di diseguaglianza e ingiustizia sociale anche sul piano sanitario e dei servizi.

Dalla fine del fascismo nel nostro Paese omosessuali e donne furono tutelati dalla Costituzione. L’articolo 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma trascorsero decenni per tramutare in leggi dello Stato quei principi democratici e di libertà irrinunciabili. Fondamentali furono i movimenti di lotta per i diritti.

Manifestazione contro lo stop al ddl Zan (Sara Minelli, Imagoeconomica)

Ma i rischi di un ritorno al passato più deleterio e oscurantista ci sono tutti. Il disegno di legge Zan, che estende la legge Mancino con questa aggiunta: “Prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” era lettera morta già da molto prima di questo ultimo governo che lo ha cestinato. E non è una sorpresa. La lotta per i diritti, contro le discriminazioni sessuali e di genere non è finita. Al contrario, è in pieno svolgimento. Come non sono finiti l’impegno e le mobilitazioni per l’attuazione compiuta della Costituzione, nata dalla Resistenza, per la giustizia sociale, certo, ma anche per i diritti universali umani e civili e per la libertà. Pronte e pronti a reagire a ogni ritorno al passato. Colpo su colpo.

Tea Sisto, presidente Anpi Brindisi città e componente del Coordinamento donne Anpi