Per non morire d’arte, una sequenza di interessanti saggi con implicazioni autobiografiche dell’artista Ugo Nespolo, da poco data alle stampe per i tipi della Einaudi. L’ho letto volentieri perché credo – e l’autore non me ne voglia se non condivide questa mia affermazione – si possa annoverare tra le più interessanti pubblicazioni di estetica degli ultimi anni. Pur non parlando direttamente di tale disciplina, Nespolo apre a riflessioni sul mondo dell’arte con un’ampia prospettiva e una visione parallela a quella di Maurizio Ferraris: “Il bello, se così possiamo dire, è però che l’estetica non è affatto morta, anzi, è in condizioni di salute molto migliori rispetto a qualche anno fa. Da una parte, trova nuovi campi di applicazione (per esempio l’universo dei consumi di massa e del web) e nuovi strumenti di indagine (come nelle ricerche della neuroestetica). Dall’altra, ritrova significati che con il tempo si erano persi, per esempio l’idea che l’estetica non si occupi solo di arte ma anche di percezione (aísthesis, da cui il nome estetica)”, si legge nel saggio del 2012 Bellezza. C’è una regola del Bello? Non dunque un’idea di estetica dipendente dalle vecchie teorie sulla bellezza, ma un ragionamento filosofico sull’arte, filtrato dalle nuove problematiche relative non solo a quello che definiamo “sistema dell’arte” ma all’arte stessa. Riflessioni non distanti dalle categorie proposte da Perniola: “Essa (l’estetica) ha affrontato i grandi problemi della vita singola e collettiva e si è interrogata del senso dell’esistenza, ha promosso ardite utopie sociali…” in sintesi vita, forma, conoscenza, azione e sentire.
Così, attraversando, anche se in un ordine non cronologico (d’altronde l’arte vive in uno “stato di contemporaneità” all’interno del quale si manifestano diverse espressività creative), gli articolati movimenti artistici degli ultimi decenni, Nespolo ci fa rivivere la sua lunga e interessante esperienza a partire dagli anni sessanta, periodo di particolare vivacità creativa e di sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi, fino ai giorni nostri. L’autore ha focalizzato le sue riflessioni sul mondo dell’arte, l’artworld, che in questi lunghi decenni ha cambiato pelle e riformato il ruolo dei vari attori. Un tema intuito anche da Vattimo che così riassume: “(…) gli artisti non possono più (una sorta di rivolta marxiana del proletariato al colmo della schiavitù) vivere all’interno di un mercato tutto dominato dal valore culturale e dal parallelo valore venale dell’opera”, (Introduzione all’estetica, 2010).
L’artista piemontese, dopo appropriate riflessioni sulle trasformazioni culturali, si ritrova in uno stato di sofferta melanconia, una sensazione non nuova: da Hegel a Dando, il tema della morte o della fine dell’arte ha suscitato il particolare fascino dell’impossibilità di sopravvivere a se stessa e della consapevolezza che tutto è già stato fatto e detto, che la creatività dell’uomo non potrà mai superare il limite che condiziona l’artista, ma non certo il filosofo né il poeta. Eppure nel mondo dell’arte – sebbene in situazioni troppo spesso instabili o improbabili come quella pandemica che stiamo vivendo – si continua a creare, a programmare mostre, a individuare nuovi stimoli, a dialogare con altre discipline, ma giustamente l’autore si chiede quali siano i valori che questa società rileva nel mondo dell’arte: “Anch’io, convinto che l’arte avesse già perduto in qualche modo lo statuto dell’immagine e quasi perso anche il potere dell’illusione, ovvero quella possibilità di sfidare il reale proponendo una nuova scena…”.
Nespolo sottolinea l’importanza, se non la necessità nell’arte contemporanea, dell’alternarsi dei linguaggi e della contaminazione delle varie espressività. Cita il Postmoderno, nei cui principi si “manifesta la frammentarietà, la schizofrenia architettonica, lungi dall’apparire del tutto disancorate dal flusso della vita reale…” e ogni “citazionismo postmoderno viene considerato da Walter una vera forma di saccheggio del passato”. Per arrivare all’ampio capitolo sul Situazionismo, nel quale raccoglie le paure della mercificazione dell’arte e della consapevolezza del ruolo, in questo ambito, dell’artista spesso sopraffatto da un eccessivo razionalismo esclusivistico. O ancora la Patafisica, da cui l’artista ha ricevuto stimoli nella condivisione di idee e attive esperienze spesso ironiche, ricordiamo qui il Premiato studio d’arte Baj & Nespolo. Il libro offre un’ampia ricostruzione su fenomeni di Fluxus, del Minimalismo e anche ricordando la semplicità del cinema non professionistico, realizzato con i mitici 16 mm, pionieri della videoarte digitale.
L’autore descrive anche l’affievolirsi, in questo susseguirsi di esperienze, dell’energia creativa, della fiducia verso i nuovi linguaggi dell’arte e, allo stesso tempo, l’attenuarsi delle emotività produttive. È una presa di coscienza di un mondo che, ahimè, è forse definitivamente cambiato. I luoghi dell’arte sono via via mutati o hanno aperto ad altre finalità, anche la scoperta che “si può morire d’arte per aver scoperto d’essere immersi in un brodo creativo svuotato di certezze e convinzioni…” (come si legge in copertina), è un sintomo della mancanza di una prospettiva per l’arte e, quello che più manca in quest’ultimo anno, del confronto, del dibattito; difficile che l’arte si possa rigenerare, in tempi brevi, in questo momento.
Alla sparizione di tante gallerie d’arte, luogo di incontro e di dibattito, alla scomparsa di autorevoli riviste, generatrici di giudizi e ordinatrici di pensiero, si contrappone l’affermazione di nuovi strumenti di “valutazione dell’arte” come il web o le case d’asta (Brett Gorvy di Christie’s: “è solo business, non storia dell’arte”). Se da un lato queste nuove realtà sono la negazione stessa di un vecchio mondo dell’arte e rappresentano l’affermazione del personalismo e dell’individualità, dall’altro la supremazia del mercato trasforma inesorabilmente l’opera d’arte in una merce: merce come tutte le merci! Ecco la necessità di meditare sul valore del manufatto artistico, sulla sua ragione di esistere, sul suo “valore d’uso”, al quale il mercato contrappone solo il suo “valore di scambio”. L’arte, attraverso super quotazioni, si è trasformata in uno status symbol della nuova borghesia e dei nuovi collezionisti, cui spesso non si riconosce neanche una tradizione artistica.
Ma non sempre è colpa del mercato, spesso “(…) è proprio l’artista il primo falsario di se stesso, costretto alla monotonia creativa per alimentare il mercato che lo costringe a essere fedele a un presunto stile – il collezionista lo pretende – e quindi rifugge sempre l’idea eclettica, il balzo laterale, la novità stessa”: è dunque la presa di coscienza dello svuotamento della creatività a favore del mercato e del gusto predominante. Così, dopo l’entusiasmo per l’ampliamento degli orizzonti creativi dovuto a una visione attiva e più ampia dell’arte e disegnato dalle avanguardie con i loro esaltanti manifesti, ecco l’affermarsi del personalismo, dell’individualismo che il mercato richiede e dove gli artisti sono ospiti, ma quasi mai protagonisti in quella realtà che Nespolo identifica come l’artworld “crudele e vorace (…) dove alcuni si battono per provare a vincere la fatica dello sradicamento continuo, in una sorta di nomadismo culturale e fisico”.
L’orizzonte che ci appare ci sembra confuso, come imprecisi sono i ruoli dei protagonisti del sistema dell’arte; un sistema che ora riluce solamente nelle grandi fiere, nelle importanti case d’asta e nelle quotazioni di pochi artisti. Non sarà che Banksy distrugge l’opera, una volta aggiudicata all’asta, per evitare che il quadro stesso diventi solamente merce? Che nella disintegrazione dell’opera si riproponga, ancora una volta, l’idea della fine dell’arte? È però un atto autodistruttivo che avviene dopo che l’artista ha condiviso con migliaia di persone il contenuto e il messaggio dell’opera.
E ha quindi ragione Nespolo nell’esternare una propria sensazione, una preoccupazione che ci dovrebbe rendere consapevoli che è necessario agire; è ancor più utile darci delle risposte, perché a ogni artista, se tale è, “Si ripresenta allora il grande quesito che tribola la contemporaneità, la domanda fatale che c’impegna a sapere se l’arte oggi può vivere e gioire nell’essere considerata soltanto un’informe quantità di merci in vendita, commodity fra le altre come soia, maiali, nichel, bulk chemicals, o se la sua ambizione – come quella appassionata e utopica di tutte le storiche avanguardie – è avere fede ancora nella possibilità di contare nel mondo per cambiarlo”.
Diego Collovini, docente di storia dell’arte moderna all’ABA G. B. Tiepolo di Udine, componente del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato sabato 22 Maggio 2021
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