Patria da oggi può contare su una nuova, prestigiosa, collaborazione: a firmare l’articolo è Andrea Bigalli. Impossibile tracciarne un profilo, anche pallidamente esaustivo, per le tante attività in cui è impegnato. Ci limitiamo così a indicare che insegna Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, è iscritto all’Associazione teologica italiana e al Sindacato nazionale critici cinematografici italiani, inoltre è referente di Libera per la Toscana. Bigalli ci sarà di aiuto quando vorremo correre a vedere una nuova pellicola dove in gioco ci sono gli oppressi, i diritti o l’ingiustizia, oppure vi imperano violenza, razzismo, fascismo, precarietà. Siamo il giornale dell’Anpi, no?
Nel terreno insidioso delle classificazioni, la questione cosa sia in letteratura, cinema o arte, un classico è tra le più annose. Se un’opera segna un passaggio tra un prima e un poi perché apre prospettive nuove, rinnova i linguaggi o definisce un livello di consapevolezza su di un transito storico, si può ritenere che rimarrà nel tempo; se non nella memoria collettiva, in chi studia gli elementi con cui si costruisce memoria. Servirà in seguito, magari, per chi farà altri film, libri, opere d’arte, come riferimento e modello.
La questione dei classici è poi: si, d’accordo, opera fondamentale… ma chi assiste resiste a fatica o soccombe sotto il peso della visione o non vi accede nemmeno, per la pessima fama di noiosità che si associa al termine stesso. Faccio un esempio cinematografico. La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn ha la fama di essere di durata chilometrica ed estremamente noioso (complice il Fantozzi di Paolo Villaggio): in realtà dura 67 minuti, è un film prodigioso e scorre benissimo. Per altri versi chi si occupa di tessere il rapporto tra storiografia e cinema sa bene che i film sono una fonte preziosa, pur nell’ambiguità dell’uso che si può fare del cinema stesso, che può essere strumento insostituibile di memoria o elemento di pericolosissima manipolazione. Per una ricognizione storica si devono vedere opere degli anni che furono, entrare nella dinamica di filmografia che vanno indietro nelle stagioni passate.
Introduco la tematica anche a guisa di introduzione dei pezzi che scriverò per Patria Indipendente. La filmografia sulla Resistenza non ha tutti quei titoli che penseremmo: per quanto sia un argomento vario, articolato, tessuto di storie avvincenti e di assoluto valore etico, è stato soggetto di un numero abbastanza limitato di film, e non sempre realizzati in modo efficace. Una rassegna di tali film ci introduce alla grande questione su quali siano le dinamiche efficaci di testimonianza e trasmissione dei valori connessi alla guerra di Liberazione. Soprattutto pensando alle generazioni che saranno, in questa fase delicatissima in cui partigiani e partigiane si stanno accommiatando da noi, lasciando fonti non più cosi dirette a sostenere l’onere di un narrare efficace.
Ci sono film che collocati nell’alveo dell’analisi del come siano stati concepiti e realizzati definiscono già di per sé un valore storico determinante. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, è il primo dei film realizzati dopo la caduta del fascismo, già in progetto dall’anno precedente. Nasce da un gruppo di autori che rispecchiano le varie anime del Comitato di Liberazione Nazionale: componenti comunisti, di area liberale, con la prospettiva del ruolo dei cattolici attraverso la figura dei preti che collaborarono alla Resistenza e pagarono con la vita.
Lo stesso coautore, con Rossellini, del soggetto, Alberto Consiglio, era monarchico: tra gli sceneggiatori Sergio Amidei e Celeste Negarville erano comunisti, Ferruccio Disnan liberale; Federico Fellini era sicuramente antifascista, ma non così assimilabile all’area socialcomunista. Lo stesso Rossellini veniva da una carriera precedente che lo aveva visto realizzare film importanti per il regime. Le differenze di visione politica si mostrarono con chiarezza durante il lavoro di sceneggiatura: Disnan si allontanò dal progetto per divergenze con gli altri, soprattutto in riferimento alla opportunità o meno di trattare dell’attentato di via Rasella e del conseguente Eccidio delle Fosse Ardeatine. Il giudizio su quanto avvenuto era oggetto di forte discussione: si contestava ai GAP un attentato che aveva fornito ai nazisti il pretesto per una strage orrenda, da molti considerato non opportuno.
La questione va lasciata agli storici, ma possiamo annotare che questa tensione si traduce nell’anima del film, che Fellini contribuì ad arricchire sul piano narrativo. La struttura dell’opera, legata a fatti ben precisi, non a caso è espressione di quanto si fa risalire ad esso: la nascita del neorealismo, una delle pagine più importanti del cinema italiano. I riferimenti del film sono legati a vicende che gli sceneggiatori conoscevano bene: un realismo con cui assolvere alla necessità di testimoniare quanto era accaduto in quel frangente storico, ma anche al bisogno di reagire a un cinema di grandi mezzi artistici, adoperato per la propaganda del regime fascista o teso ad allontanare dalla verità, collocandosi in un contesto del tutto edulcorato e dorato, quale il Ventennio in realtà non fu mai (il cosiddetto Cinema dei telefoni bianchi, dalla presenza di questi ultimi in molte scene di questi film, icone di benessere borghese e classe sociale elevata).
Se nella figura del prete martire don Pietro c’è un riferimento preciso a don Pietro Pappagallo e a don Giuseppe Morosini, uccisi dai tedeschi, il primo alle Ardeatine il secondo nel 1944, anche la figura del protagonista maschile, l’ingegner Morandi, riassume in sé i tratti di diversi comandanti partigiani comunisti. Ma dove l’intuizione su un cinema diverso – che esprime contenuti adeguati al proprio tempo, con mezzi visivi rinnovati – si mostra chiaramente, come riassumendosi in una unica sequenza, è in uno dei momenti cinematografici più noti e ammirati di tutta la storia del cinema: la vicenda della morte di Teresa Gullace, uccisa da un militare tedesco mentre cercava di parlare con il marito rastrellato, ispira la sequenza della morte di Pina, interpretata magistralmente da una delle più grandi attrici italiane, Anna Magnani.
Una donna corre dietro a un camion che sta portando via il marito: ma questa corsa è drammaticamente interrotta da una scarica di mitra. Tutta l’ingiustizia della guerra, tutta la crudeltà di un regime, in un atto di amore annientato con violenza estrema. La cinepresa cristallizza questa visione, questa memoria, la rabbia e il dolore. Anche soltanto questa scena basterebbe a collocare Roma città aperta nelle esemplificazioni di come il cinema sia in grado di comunicare non solo un dato storico, ma un sentimento, un moto dell’anima.
La domanda su come valutare adesso un film che sicuramente si esprime in un linguaggio cinematografico molto lontano da quelli contemporanei è del tutto legittima. Chi scrive, quel che ha capito del cinema lo ha studiato in cineteca e sui libri, ma soprattutto attraverso la scuola severa del cineforum, dove i film vanno motivati, introdotti nei loro significati e nelle modalità espressive e tecniche, interpretati guardando al valore che possono avere avuto nel tempo in cui li si è realizzati, ma soprattutto adesso, per chi è spettatore. È scuola severa perché il giudizio di chi si incontra in sala è sovrano, e deve motivarti a trovare le ragioni per cui affermare e dimostrare che quel film merita il tempo della visione.
L’opera di contestualizzazione, l’illustrare le varie metodiche di regia, onorare il lavoro complesso delle molte persone che realizzano un’opera cinematografica mettendone in luce le specificità, mostrare il grande apporto di attrici e attori, mette in condizione di rendere interessante non dico qualsiasi film, ma di certo molti. Certamente i famigerati classici, appunto. Tutto ciò vale anche per i più giovani, apparentemente più distanti da quel cinema che ci sembra più denso di significato: l’onere di decidere quale sia quest’ultimo, proporlo per poi sottostare al parere conseguente dello spettatore, è tutto sulle spalle del critico.
Un film come quello di cui abbiamo trattato vale molte sessioni di analisi, e non va certo consegnato senza premesse e indicazioni di fruizione. Ma un atto di fiducia in quello che molti cineasti chiamano il dio del cinema (in una accezione di solito molto laica) va fatto; è uno degli aspetti della sfida della memoria, a cui non possiamo sottrarci. La tutela della democrazia passa per la conoscenza. Anche quella del cinema, della storia che esso narra.
Andrea Bigalli
Pubblicato venerdì 15 Luglio 2022
Stampato il 04/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/lantifascismo-si-fa-anche-al-cinema-e-pure-da-spettatori/