Abbiamo parole per piangere,
Parole per tacere,
Parole per fare rumore.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per parlare.
Gianni Rodari
Era il 20 gennaio del 2007, un anno prima della sua morte, quando Mario Rigoni Stern scrisse una lettera all’Anpi di Treviso:
“Cari compagni, sì, compagni, perché è un nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino cum panis, che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza, con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. Ecco, noi della Resistenza siamo compagni, perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche insieme vissuto il pane della libertà, che è il più difficile da conquistare e mantenere. Oggi non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza. Vi raggiunga il mio saluto, compagni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, e Resistenza sempre. Vostro Mario Rigoni Stern”.
Questa lettera fu riproposta il 4 luglio 2010 a Sergio Romano nella sua rubrica del Corriere della Sera, e il giornalista rispose: “La parola è bella per il suo significato originario e per l’uso che ne facciamo nella nostra vita. Vi sono i compagni di studio, i compagni di lavoro, i compagni di svaghi e vacanze, i compagni di una vita. Dopo la fine delle grandi ideologie totalitarie, appartiene al passato. La parola compagno dovrebbe essere usata tutt’al più nelle aule scolastiche, non nelle assemblee di partito”.
Quindici giorni prima, il 19 giugno 2010, in un’assemblea del Pd al Palalottomatica di Roma, l’attore Fabrizio Gifuni era intervenuto dicendo: Compagne e compagni… è tanto che volevo dirlo! ed era scoppiata immediatamente la polemica: ex democristiani che non si riconoscevano nell’appellativo, laici aspiranti a un nuovo, moderno, grande partito, post-comunisti spaventati da un eterno destino di opposizione, giovani entrati in politica dopo la Bolognina che scrivevano: “Per noi nativi del Pd, cioè estranei alla tradizione comunista e a quella democristiana, le parole compagni, festa dell’Unità, sono concetti che rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che facciamo fatica ad accettare… Questo trapassato non ha noi come destinatari”.
Si proponevano alternative: democratici, amici, fratelli ma non più compagni e compagne. Parole appese all’attaccapanni del secolo passato, come scrisse Erri De Luca.
C’è da chiedersi come si chiamavano fra loro i partigiani che a Milano, nella sfilata del 6 maggio 1945, “rinunciarono a portare i distintivi di partito (fazzoletti azzurri, rossi, ecc.), pur ad essi tanto particolarmente cari, e sfilarono come unica imponente massa, da nessuna ideologia politica divisa, unita in blocco indissolubile dallo stesso amore per l’Italia”. Sono parole di Enrico Mattei, già componente del Comando Generale CVL e Comandante delle Forze Partigiane della Democrazia Cristiana per l’Alta Italia, intervenendo al primo Congresso nazionale della DC, a Roma, nell’aprile del 1946.
E poi disse: “Nelle Divisioni e nelle Brigate liguri militavano, frammisti, partigiani di ogni colore politico, garibaldini, democristiani, appartenenti alle Brigate Giustizia e Libertà, Matteotti, ed Autonome che, fraternamente uniti, non si limitarono ad attaccare le colonne tedesche in ritirata, ma tennero impegnata durante tutta la guerra partigiana fino a nove Divisioni naziste e la totalità delle forze repubblicane, che furono così interamente immobilizzate nel Nord Italia… Noi democristiani abbiamo anche la grave responsabilità di non venir meno all’aspettativa di coloro che di questo popolo furono la parte migliore: i partigiani”.
C’erano state da poco le elezioni per l’Assemblea Costituente e i rappresentanti di tutti i partiti antifascisti due mesi dopo avrebbero iniziato la stesura della Carta fondamentale della Repubblica italiana in cui ogni principio, ogni articolo può essere letto come negazione dei principi e delle azioni del passato regime, fino alla chiarissima XII Disposizione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Poi comincia un’altra storia. Le elezioni del 1948 inseriscono nella politica nazionale la dimensione del grande duello tra antifascismo e anticomunismo potenziato dall’inizio della Guerra fredda, con linee di frattura all’interno dello stesso campo antifascista. La Democrazia Cristiana lascia sbiadire il suo passato CLN come una macchia pericolosa per la sua identità, così la parola “compagno” diventa una marca esclusiva dei partiti di sinistra.
Cresce una nuova generazione. Se nella memoria dei padri l’antifascismo resistenziale era del tutto coerente con l’esperienza poiché il fascismo era stata una stagione della vita, per la generazione dei figli il significato ha una torsione internazionale nelle esperienze dei nuovi “fascismi”, la Grecia (1967), il Cile (1973), l’Uruguay (1973), l’Argentina (1976) e nell’americano Piano Condor che li sosteneva. Per ciò che era accaduto in Italia durante il governo Tambroni, dai morti di Reggio Emilia e di Avola, dall’omicidio di Paolo Rossi, da piazza Fontana, l’uso della parola “compagno” si carica a sinistra di un senso metaforico e fortemente partecipativo (Compagni dai campi e dalle officine…).
Diventa poi incerto per l’uso che iniziano a farne i documenti delle Brigate rosse mentre la progressiva e traumatica destalinizzazione smantella le sponde asiatiche del comunismo europeo. La stessa elaborazione dell’eurocomunismo non riesce a risolvere la contraddizione fra la tensione a un’effettiva svolta nella politica comunista e la permanenza dei tradizionali vincoli identitari.
Alla fine degli anni Cinquanta l’eretico Pasolini, ne La religione del mio tempo, profeticamente aveva scritto: “Altre mode, altri idoli,/ la massa, non il popolo,/ la massa/ decisa a farsi corrompere/ al mondo ora si affaccia,/ e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video/si abbevera, orda pura che irrompe/ con pura avidità informe/ desiderio di partecipare alla festa./ E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole./ Muta il senso delle parole:/ chi finora ha parlato, con/ speranza, resta/indietro, invecchiato”.
E mentre il senso delle parole muta si giunge alla morte del compagno Berlinguer, alla caduta del muro di Berlino e alla fine del grande partito dei comunisti, alla polemica del 2010 sulla parola “compagno”, alla risposta di Sergio Romano, uno fra i tanti.
Ma quella parola ha una storia molto più lunga di quella che lo stesso Rigoni Stern ricorda, e del suo travagliato cammino di quest’ultimo tempo. È una parola nobile e alta che ha tracciato i suoi percorsi nelle lotte e nella democrazia, dai compagnons setaioli di Lione del 1831, ai “compagni parigini della Comune di Parigi” che Marx riconobbe come eroi scrivendo all’amico Kugelmann, all’Inno italiano dei lavoratori, alle leghe operaie e contadine del primo Novecento. Tempi e luoghi diversi, situazioni diverse.
Nel 1919 a Lawrence, nel Massachusetts, Arturo Giovannitti, un molisano, era stato uno dei due organizzatori di un grande sciopero di operai e operaie tessili di ogni nazionalità. Passa alla storia come lo sciopero “del pane e delle rose” perché le donne, numerosissime, lanciarono lo slogan “Vogliamo il pane e le rose”, una vita degna di essere vissuta. Lo scontro fu lungo e pesante, una giovane operaia fu uccisa da un colpo di fucile, si disse anche il nome del poliziotto che aveva sparato ma Arturo Giovannitti fu arrestato con altri due compagni come omicida. A conclusione del dibattito processuale che ne seguì, a Salem, egli pronunciò un “Appello alla giuria” che bisognerebbe leggere per intero in cui fra l’altro disse nel suo bellissimo anche se recente inglese:
“Desidero vivere. Lungi da me atteggiarmi a eroe davanti a voi, tanto meno a martire. No. La vita mi è più cara di quanto, forse, lo sia a molti altri. Ma non esito ad attestare che esiste qualcosa di più caro e nobile e santo e sublime, qualcosa che non sarò mai in grado di esprimere: si tratta della mia coscienza, della lealtà verso i miei simili, e verso i compagni che son venuti in quest’aula, verso la classe operaia del mondo intero, che ha reso possibile la mia difesa contribuendo penny su penny, e che in tutto il mondo si è preoccupata che non subissi ingiustizia e non si facesse del male. E se il vostro verdetto, signori giurati, sarà tale da aprirci le porte del carcere, allora lasciate che vi anticipi quello che faremo. Permettetemi di dirvi che al primo sciopero che si organizzerà in questo Stato o in qualsiasi altro d’America noi vi andremo, soldati del grande esercito della classe lavoratrice che, al di là delle ombre e del buio del passato, lotta per l’emancipazione del genere umano, per l’instaurazione dell’amore, della fratellanza, della giustizia per ogni uomo e ogni donna sulla terra” (sarà anche recitato per intero al teatro del Loto dall’attore Diego Florio, nello spettacolo “L’autodafé del Camminante” per la regia di Stefano Sabelli).
Amore, fratellanza, giustizia per ogni uomo e ogni donna sulla terra. E il pane condiviso della libertà. Nel mutamento epocale che stiamo vivendo, in cui ritornano nazionalismi, razzismi, egoismi economici, conflitti di genere, in cui si alzano muri e i popoli si scompongono in masse, la storia si slabbra in diffuse narrazioni falsificate, la grande questione mondiale dei diritti umani è a rischio, sono in affanno le conquiste sociali, i diritti del lavoro, la democrazia, in cui le ideologie sono scomparse tranne una, quella neocapitalistica delle grandi concentrazioni economiche e della loro pressione sulle masse, mentre un’altra sguaiata e insensata tenta di riprendere il campo nonostante la XII disposizione della Costituzione, oggi la parola compagno o compagna avrebbe ancora il suo significato per unire quanti comprendono e sostengono i principi e i valori che sono giunti dalla Resistenza alla Costituzione della Repubblica.
Per un antifascismo del tempo d’oggi, per l’Anpi.
Pubblicato sabato 18 Dicembre 2021
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