Angelica e orlando in un dipinto del Tiepolo

“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”: si sa quanto Angelica fece impazzire Orlando distraendolo dalla guerra per convogliarne ogni energia nell’inseguimento di un sogno erotico; ma là, con Ariosto, sul limitare del mondo moderno, siamo nel territorio di una umanissima sensualità (peraltro risolta in un serio gioco intellettuale) che, se molto incide sulla maturazione di nuovi orizzonti dello spirito e dell’immaginario, per nulla intacca il tessuto politico in cui quel prodotto culturale fiorisce. Eppure il rapporto tra uomini in armi e donne è al centro di un altro, vero e più antico tentativo di rivoluzione (tutta femminile e tutta sociale) che ebbe le sue origini nel cuore del Medioevo, quasi quattrocento anni prima delle pazze corse alle quali Angelica dovette ricorrere per sfuggire a schiere di cavalieri ammattiti. È la rivoluzione operata da Maria di Francia nel XII secolo: una donna determinata e coraggiosa che rifondò la poesia d’amore sottraendola ai languori del soggettivismo per collocarla nel cuore della discussione politica.

Chiara Mercuri non ha dubbi: nel suo nuovo saggio pubblicato da Einaudi La nascita del femminismo medievale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese (pp. 201, € 22), la studiosa identifica senza indugi la contessa di Champagne, figlia del re di Francia Luigi VII e di Eleonora d’Aquitania (nonché pronipote di Guglielmo IX il Trovatore), con l’autrice dei Lais; è infatti probabile che la nobildonna si fosse voltata in scrittrice per rielaborare il complicato rapporto tra i genitori e per sdoganare, nobilitandola, una nuova figura di donna: quella incarnata dalla madre Eleonora. Una volta dichiarato decaduto il vincolo matrimoniale con Luigi VII di Francia, la duchessa di Aquitania divenne appunto “l’esempio di ciò che una donna non deve essere”: un’intellettuale che conduce la propria esistenza al di fuori dell’ambito domestico, tirandosi dietro l’accusa di adultera e lasciva.

Maria di Francia in una miniatura del XII secolo

Con i suoi racconti poetici Maria di Francia avvia infatti una riflessione sulla vita coniugale e su una libera sessualità che, mentre legittima l’adulterio come strumento per praticare l’amore vero in una società basata sul matrimonio combinato, ha anche e soprattutto il coraggio di trattare il tema dello stupro “reso legale dal diritto di preda degli armati”, restituendo alla donna quella dignità di persona detentrice della gestione del proprio corpo e della propria mente che la barbara sorveglianza militaresca su spirito e carne della femmina aveva annichilito.

In un mondo in cui l’onore delle donne è perennemente sotto minaccia, mentre quello dei maschi non è mai messo in discussione, neppure quando un padre prostituisce una figlia o un marito abusa della moglie, la rivolta di Maria non può che partire dalle piccole cose (per farsi poi minacciosa); il nome degli amanti ad esempio: per essi la poetessa di Champagne sceglie il più sottile e malleabile termine di “amici”, ottenendo così il doppio risultato di beffare le malelingue desiderose di giudicare chi si pone fuori dai canoni, e di tratteggiare un rapporto tra due esseri umani che va al di là dell’età, del genere e dell’orientamento sessuale; e soprattutto si fa affiancare nell’impresa da due altri intellettuali: il trattatista André le Chapelain, il celebre autore del De amore, e lo scrittore Chrétien de Troyes; non tanto perché avesse bisogno di due uomini per amplificare la propria voce, quanto perché il messaggio sarebbe stato così veicolato su tre binari diversi, la poesia, la prosa e il saggio, divenendo radicale e pervasivo. Il progetto di Maria non si limita infatti alla rifondazione di un oggetto culturale ma alla proiezione di questo oggetto sulla società.

Chrétien de Troyes

Chiara Mercuri legge perciò i Lais di Maria e le opere di Andrea Cappellano e di Chrétien de Troyes con questa lente di ingrandimento: quella che, di là del gioco o della teorizzazione letteraria, fa delle loro pagine il manifesto di un trio di intellectuels engagés al servizio di una concezione del tutto nuova dell’amore; con la quale esso viene sottratto alle grinfie del maschio predatore per essere presentato, finalmente, attraverso gli occhi del genere femminile. Se infatti per padri e mariti altro non è che un mero investimento patrimoniale, per madri e figlie è gioco forza che l’amore riconquisti i territori del sentimento e della spontaneità, al fine di ricollocare anche la donna su un piano decisionale e pulsionale pari a quello del maschio. Non v’è amore se non al di fuori del matrimonio raccontano allora Maria, Andrea e Chrétien, poiché il matrimonio, in quanto contratto, vuole ingabbiare nella fissità del vincolo un meccanismo, come quello dell’attrazione, che è sempre provvisorio e necessita di continui aggiustamenti. L’amore sognato da Maria non è fedele ma, prima di tutto, leale; e, aggiungiamo, deve essere conseguente alla persona che lo prova e non al modello a cui dovrebbe coincidere; un modello, tra l’altro, ipocritamente fatto passare per quello imposto da Dio, così che la donna che tentava di far luogo ai propri desideri veniva bollata come ribelle agli occhi di Dio stesso.

Il monastero cristiano fu l’unica alternativa possibile per quelle donne che non intendevano sposarsi, questo per tutto il Medioevo e oltre. Dipinto di John Everett Millais (1858)

Per raggiungere questo obiettivo Maria ha bisogno di passare attraverso il racconto della società così com’è e della mentalità maschilista che la affligge, facendo dei suoi Lais una denuncia della condizione femminile, con la sua maternità non sostenibile, con gli stupri coniugali e gli uxoricidi, e col rischio sempre in agguato di scadere, agli occhi del pubblico, al rango di puttana infedele. «Maledetta donna!», che non vuole essere casta, che non vuole accogliere con gioia ogni seme che le venga piantato nel ventre, che non vuole rassegnarsi a partorire con dolore, che non vuole allattare figli che un giorno serviranno come carne da cannone e bassa manovalanza servile. «Dannata Eva!», che non si rassegna ad attendere benigna, in un angolo del focolare, le percosse che per la fragilità della sua corporatura non potranno che esserle destinate dalla nascita.

La medica salernitana Trotula (anno 1050 circa – inizio XII secolo)

Quella di Maria è quindi l’opera di una protofemminista­ forse la prima in assoluto a fianco della medichessa salernitana Trotula e, un poco più tardi, della dottora Jacqueline Félicie di Almania concentrata nello sforzo di conquistare (per dirla con un termine molto più vicino a noi) l’autogestione del proprio corpo. E non per il mero soddisfacimento di un piacere sessuale ma perché Maria ­così come Andrea Cappellano ­è persuasa che la fedeltà coniugale (in luogo della lealtà) non può far altro che limitare “l’azione sentimentale ed erotica che sola è capace di mettere in moto il bene”. Ma un bene per chi? Sia per chi ama, sia per chi è amato, in una relazione biunivoca, quella che il Medioevo dei maschi non conosceva affatto.

La parola latina che Andrea (Cappellano) impiega per definire la natura dell’amore non è liber, «libero», come qualcuno ha maldestramente tradotto, ma gratis, cioè gratuito, disinteressato, senza attesa di contraccambio o di ricompensa. La differenza tra libertà e gratuità è che la libertà tutela chi ama, mentre la gratuità è garanzia di libertà per chi è amato. Una vera e propria rivoluzione in un mondo che concepiva l’amore solo all’interno di steccati sociali estremamente rigidi, dove era sempre e solo l’uomo a stabilire dove e quando conficcare a terra un nuovo paletto.

Per questo­ spiega lucidamente la Mercuri nell’ultimo dei capitoli che compongono il saggio era necessaria un’opera come Il cavaliere della carretta di Chrétien de Troyes: per chiudere il cerchio, contestatore e progressista, inaugurato dai Lais di Maria. Infatti i romanzi arturiani in genere, e Il cavaliere della carretta o Lancillotto in particolare, “non presentano più la cavalleria come un valore, ma come un ingombro, una criticità da risolvere o da superare”. In particolare questo romanzo, il cui innesco narrativo è azionato dalla messa in palio di Ginevra, mostra perfettamente gli squallidi retroscena di quello che per i maschi in guerra (e non) è il senso dell’onore. Artù si serve infatti della sposa come di un mero oggetto di scambio; di fronte alle minacce di Méléagant e alla proposta di una sfida tra campioni con in palio la bella regina, il sovrano di Camelot non ha dubbi: in caso di sconfitta – come in realtà avviene – lascerà che il nemico si prenda la donna e la sottoponga a violenza. Il lettore quindi è portato a leggere la vicenda di Artù, Ginevra e Lancillotto dal punto di vista femminile; Maria muove la penna di Cristiano soprattutto per denunciare, attraverso l’immedesimazione nel personaggio di Ginevra, quanto le donne siano  costantemente esposte ai soprusi degli uomini:

Nel costruire l’intreccio della storia di Lancillotto e Ginevra, Maria intende dire questo: una donna si innamora sempre dell’uomo che la salva dallo stupro e dalle molestie, perché non esiste alcuna possibilità per una donna di proteggersi da sola in un mondo di armati. La Chanson de Roland è scritta da un uomo col fine di convincere gli uomini a partire in guerra. Il Lancillotto è ideato da una donna col fine di convincere gli uomini a restare in patria e usare la loro forza e le loro armi per difendere le donne dallo stupro.

Quello insomma proposto da Chrétien de Troyes, attraverso Maria, è un nuovo modello di uomo armato che finalizza la propria forza in difesa delle donne rinunciando addirittura al proprio onore (questo significa salire sulla carretta del titolo), in un certo senso umiliandosi, per ricollocarsi in pari con quelle donne che per troppo tempo gli uomini avevano sottomesso. In una società che il maschio medievale voleva “monachizzata” in maniera pervasiva (dove con questo termine si intende l’educazione misogina in generale), Maria, attraverso l’abilità narrativa di Chrétien, tenta perciò di scardinare l’impianto della famiglia patriarcale mettendo tra l’altro finalmente in primo piano una forma di sesso esplicita ma rappresentata, per la prima volta forse nella storia, dal punto di vista femminile, “come conseguenza del desiderio di una donna”.

Una vera e propria rivoluzione, allora fallita, e di cui solo novecento anni dopo la società occidentale ha preso coscienza, e ne ha forse fatti propri i valori. Meglio tardi che mai.

Giacomo Verri, scrittore e insegnante