Delazioni, rastrellamenti, torture, morte. Era questo lo scenario che attendeva chi decideva di aderire alla Resistenza. Ma cosa pensavano e da quali emozioni erano pervasi i partigiani e le partigiane nel corso della lotta? Avevano dubbi che avrebbero potuto rendere alcuni percorsi lineari o altalenanti? Come gestivano la paura e quale relazione instauravano con la violenza, agita e subita? Riuscivano a ricavarsi anche dei momenti di gioia e di spensieratezza benché il pensiero della morte fosse costante? Come coniugavano tutto ciò con la speranza e l’idea di un futuro migliore?

Il partigiano Amato Antonelli di Fermignano (PU) (© Marco Biancucci)

Questi sono alcuni interrogativi da cui si sviluppa il bellissimo libro Riconoscersi partigiane e partigiani. Costruzione di un’appartenenza, nato dall’incontro della ricerca storiografica di Chiara Donati con il racconto fotografico di Marco Biancucci (grazie anche all’Anpi provinciale di Fermo) e che osserva la Resistenza attraverso le parole e gli occhi di chi vi prese parte, dandoci, come pochi, una narrazione esistenziale, intimista, dialogando tra loro e conducendo il lettore dal contesto nazionale alle vicende delle Marche, tra i territori italiani dove più intensa fu l’attività partigiana, a sud come a nord della regione dove Pesaro – oggi Medaglia d’Argento al Valor Civile – venne individuata come estremo punto orientale della Linea Gotica, che si sarebbe estesa dal versante tirrenico a quello adriatico per circa 320 chilometri.

Il partigiano Maffeo Marinelli sfoglia una copia del libro

“Forse la cosa più giusta da dire – scrive la ricercatrice storica Chiara Donati – è che per ognuno l’esperienza resistenziale ha avuto inizio nel momento in cui l’eccezionalità del contesto storico lo pose di fronte alla possibile corruzione dell’esistenza stessa. Nonostante esistano delle date topiche, come il 25 luglio o l’8 settembre, esse non possono essere sovrapposte in modo quasi meccanico alle decisioni dei singoli: restare, scappare, nascondersi, andare con gli uni o con gli altri”. In altre parole, la Resistenza fu un’esperienza soggettiva, in molti casi “l’esperienza” per antonomasia, totalizzante, molteplice, dove per ciascuno è stato necessario fare i conti “con la presa di possesso di un mondo interiore”, afferma ancora Donati citando la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, perché, a guardarla dall’interno, la Resistenza ha a che fare con la tenacia, i limiti e le contraddizioni della natura umana.

Mario De Benedittis, partigiano di Porto San Giorgio (FM) (© Marco Biancucci)

Insieme ai moti interiori universali del partigianato, Riconoscersi partigiane e partigiani pone grande attenzione all’esperienza resistenziale delle donne e Chiara Donati lo fa con la delicatezza di chi sa che sta toccando delle corde inconsuete e con la puntualità storica derivata dall’analisi delle cosiddette fonti della soggettività, così chiamate dagli storici: interviste (alcune delle quali di Patria Indipendente), memorie, diari e lettere presenti negli archivi degli Istituti della Resistenza e della Fondazione Gramsci che ne fanno un testo dal respiro corale. Una coralità che si intreccia idealmente al crowdfunding grazie al quale si sono coperti i costi di pubblicazione.

Egidia Coccia (© Marco Biancucci)

Tornando alla lotta partigiana femminile, definita “creativa e liberatoria e al tempo stesso intima e rivoluzionaria”, è un tema che solo negli ultimi anni è stato oggetto di studio: dalla fine della guerra, infatti, un silenzio generale tenta di normalizzare il ruolo delle donne che avevano sperimentato, di fatto, un’emancipazione dai ruoli tradizionali. “Mi mancava tutto: da mangiare, dormire, la famiglia e mi avevano anche ucciso il futuro marito, ma ero soddisfatta perché avevo realizzato un desiderio” racconta la partigiana Egidia Coccia, immortalata da Marco Biancucci nella semplicità della propria quotidianità. La partigiana Coccia – nel 2012 divenuta presidente ad honorem dell’Anpi provinciale di Ascoli Piceno – ha 19 anni quando si schiera al fianco dei partigiani, trasportando le armi per rifornire i combattenti sparsi tra il monte Ascensione e il comune di Castignano, situato nell’Ascolano.

Maria Rabbini (© Marco Biancucci)

Un’attività a cui si dedicano molte partigiane, sebbene la maggioranza di loro non ne possiederà mai neppure una per difendersi da violenze, anche sessuali, ricoprendo il ruolo di staffette: la guerra, si pensava fosse un affare da uomini. In poche prendono parte alla lotta armata, altre trasportano documenti o viveri, altre ancora rivestono ruoli di protezione dei partigiani e dei disertori, nascondendoli, curandoli e preoccupandosi della loro sopravvivenza. “Cercavamo di aiutare i partigiani perché non avevano niente, nemmeno i panni da vestire” racconta Maria Rabbini la cui testimonianza, come molte altre riportate nel libro, è presente in Noi partigiani, Memoriale della Resistenza italiana, il sito promosso dall’Anpi nazionale curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi e che in due volumi, uno dedicato ai ragazzi, hanno raccolto anche una selezione trascritta delle video-interviste agli ultimi partigiani viventi.

Maria Rabbini con una copia del libro (Anpi Cantiano)

La partigiana Rabbini ha 15 anni quando recupera munizioni e consegna farmaci ai gruppi armati presenti nella zona tra Vilano, Pontedazzo e Palcano, in provincia di Pesaro-Urbino. Insieme alla sua famiglia, accoglierà nel proprio podere di Cantiano prigionieri slavi in fuga e partigiani. Sono scelte che a volte si pagano con il carcere o con la vita, come Angela Lazzarini, fucilata a 26 anni il 28 giugno 1944 guardando la Madonna di Certaldo di Macerata Feltria – presente tra gli scatti del libro – dopo aver subito sevizie e violenze sessuali per aver nascosto e aiutato un disertore della Legione Tagliamento.

Madonna Certaldo (© Marco Biancucci)

Proprio per il suo carattere di massa, non si ha un censimento esatto dei contributi femminili alla Resistenza. “Moltissime di quelle donne non chiesero mai riconoscimenti e le cronache e la storia ne ignorano persino il nome – scriveva nell’Enciclopedia della Resistenza Arrigo Boldrini –. “La pur elevata cifra di 35mila donne insignite del titolo di partigiane non rappresenta che il contingente di punta di un grandioso esercito di collaboratrici e sostenitrici della lotta” concludeva.

La lettera che gli autori del volume hanno ricevuto dalla partigiana Nunzia Chiavarischia

“Questo agire collettivo – affermano nella prefazione Claudia Santoni e Silvia Casilio, presidente e vicepresidente dell’Osservatorio di Genere che ha pubblicato il volume con il proprio marchio editoriale – ci restituisce un elemento tipico dell’agire delle donne nel secondo Novecento: pur non comparendo individualmente – se non in pochissimi casi – queste donne non hanno mai rinunciato all’impegno politico e civile, partecipando senza se e senza ma alla vita dei propri territori e lasciando dei segni profondi della propria azione”.

Uno scorcio di Ortezzano (FM) (© Marco Biancucci)

In Riconoscersi partigiane e partigiani si entra nella storia attraverso le storie delle donne e degli uomini dalle quali emerge quanto la loro fosse stata “un’esperienza di verità”, dove è assente la parola coraggio ed è vivida l’immagine di una paura che può trasformarsi in forza. In particolare, si delinea la consapevolezza di un rischio che “tanto più valeva la pena d’esser affrontato con volontà e capacità di durata, quanto più la posta in gioco coinvolgeva la sorte di tutti i combattenti e, con essa, del popolo italiano e non solo: la sorte dell’uomo e della donna come singolo e come membro d’un collettivo” spiega Chiara Donati. “L’appartenenza – cantava Giorgio Gaber – è assai di più della salvezza personale, è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile”.

Durante una presentazione del libro a San Severino (MC)

Un bell’esempio delle fonti dell’esperienza soggettiva riportato nel volume è lo scatto fotografico riservato al diario della partigiana Leda Antinori, inserito nella sezione Significanti insieme ad altri oggetti appartenuti a partigiani e partigiane non più in vita che pongono le lettrici e i lettori di fronte al valore della testimonianza e al rischio della perdita della memoria. Tra le più celebri staffette del territorio fanese, Leda Antinori non riuscirà mai a completare la sua storia di lotta sulle pagine del suo diario: arrestata dai soldati tedeschi mentre trasportava armi, a poco meno di un mese dalla Liberazione di Fano, il 27 agosto 1944, subirà interrogatori e torture che la renderanno “irriconoscibile” e a causa di pessime condizioni igienico-sanitarie si ammalerà di tubercolosi. Morirà pochi mesi dopo, quando con il suo ritorno a casa deciderà di rientrare in quegli spazi politici e associativi condividendo la scelta di molte altre partigiane: continuare in tempo di pace quell’assunzione di responsabilità diretta che le aveva spinte in tempo di guerra a mettere in gioco la propria vita.

La strada Todt (© Marco Biancucci)

Il percorso fotografico di Marco Biancucci ci conduce non solo tra gli oggetti e i volti delle partigiane e dei partigiani, ma anche nei luoghi che con la Resistenza diventano spazi di entusiasmo, condivisione, dolore, fatica, morte e che hanno assunto nel presente significati e utilizzi a volte affini, a volte totalmente differenti. Come la “strada bianca di Carpegna”, ancora oggi chiamata “la Todt” dal nome dell’ingegnere che la concepì, divenuta importante via di comunicazione per il trasporto dei materiali necessari alla realizzazione della Linea Gotica, dove circa 15mila manovali saranno obbligati a lavorare. Molti di loro fuggiranno e si uniranno alle formazioni partigiane. O a Ortezzano, in provincia di Fermo, dove il 2 marzo 1944 militari fascisti sparano sulla folla che si era legittimamente accanita su un silos di grano aperto da mani ignote, dopo mesi di carenze alimentari e privazioni materiali. Dove ci sono stati morti e feriti, oggi sorge un centro commerciale. Un non luogo che ci interroga ancora una volta sul rispetto della memoria, degli spazi come “marcatori di appartenenza e di un vissuto plurale”, di quanto occorra prendersene cura, “frequentandoli (…), abitandoli in maniera coerente con la loro storia, prestando attenzione ai dettagli, accettando come un dono la loro bellezza, gratuita ed improduttiva”, scrive Wu Ming2 nell’appendice, aggiungendosi alla coralità del testo.

Mariangela Di Marco