Quella delle colonie estive è una lunga storia che, nata alla fine dell’Ottocento, attraversa quasi tutto il Ventesimo secolo. All’epoca della seconda rivoluzione industriale, quando il nostro è ancora un Paese prevalentemente agricolo, le campagne italiane sono punteggiate di cascine piene di bambini malnutriti e in cattive condizioni igieniche. La malattia più diffusa è la tisi, per far fronte alla quale la medicina positivista mette in campo ogni sapere; ed è in questo contesto che alcuni scienziati illuminati come Giuseppe Barellai iniziano a guardare alle proprietà del mare come terapia per gli scrofolosi e al sanatorio come l’icona di un’inedita cura del corpo in fase di sviluppo.

È indubbio però che a trasformare i primi stabilimenti balneari per bambini in veri e propri monumenti “parlanti” (per utilizzare la definizione di George Lachmann Mosse) sia stato il ventennio fascista. Come spiega Stefano Pivato nell’interessante saggio che dedica alle colonie estive italiane uscito per i tipi del Mulino nella collana “Ritrovare l’Italia” (Andare per colonie estive, Il Mulino, pp. 156, € 13), “i fautori del razionalismo teorizzano che attraverso i segni dell’architettura è possibile comunicare i principi dell’ideologia e costruire una scenografia che evoca i valori fondamentali del regime fascista”; valori eclettici certo: da una parte il richiamo alla classicità romano-imperiale, dall’altra il culto per la modernità, la velocità, la solidità; il binomio diventa allora quello del marmo unito al calcestruzzo per elevare in strutture sempre più grandiose i luoghi della nazionalizzazione dell’infanzia, che sostituiscono – seppur edificati “in zone periferiche in modo che la loro presenza non arrechi disturbo e non intralci il nascente turismo balneare” – l’originaria funzione curativa degli ospizi con un nuovo intento educativo che trova nell’ostentata monumentalizzazione la sua più forte arma di propaganda.

Chiavari (GE), la colonia Fara

L’effetto scenografico è cardinale; le colonie costruite negli anni Trenta sono imponenti, spettacolari, attraverso le loro strutture a forma di nave o di aereo, o di enormi M mussoliniane, i bambini – e con essi i genitori – devono percepire con chiarezza la generosità e la potenza del regime.

Mussolini a Riccione nel 1932

Nell’immaginario degli italiani, le colonie finiscono per porsi accanto a quelle «cose buone» che ha fatto il fascismo assieme ai treni che arrivano in orario, alla sconfitta della mafia o alla istituzione delle pensioni. Il fascismo adoperò quindi le colonie come enunciazione del principio di efficienza; cosa peraltro facile da credere perché basata su un adagio vecchio come il mondo: un potere dittatoriale – già lo sapevano gli antichi romani – può decidere, senza essere ostacolato, quando e dove impiegare i soldi pubblici. Ecco allora che le colonie in quegli anni vengono spesso confezionate in tempi record grazie alla rapidità delle concessioni edilizie, all’impiego di uno spropositato numero di lavoratori (“si possono alternare tre turni di operai a ciclo continuo senza alcuna interruzione”), all’essenzialità del linguaggio architettonico razionalista, oltreché all’impiego di un materiale di costruzione sbrigativo come il calcestruzzo.

Calambrone, colonia regina Elena

Pivato ci guida perciò tra le più importanti strutture estive ideate lungo le coste italiane, o in montagna, o ancora lungo i fiumi; il libro – che alterna analisi storiche, descrizioni architettoniche e dati statistici a un’accattivante rassegna di memorie – segna un percorso che a partire dalla cosiddetta “spiaggia del duce”, quella romagnola, scende lungo il versante adriatico per risalire poi quello tirrenico, soffermandosi in particolare nella zona di Calambrone, della Versilia e della Liguria, passando poi alle colonie montane – specialmente in Piemonte e Valle d’Aosta – e a quelle fluviali, senza dimenticare che anche la loro distribuzione geografica non fa che confermare l’annosa discriminazione del sud, dove gli edifici adibiti a colonie si diradano notevolmente, sotto le Marche dalla parte dell’Adriatico, e sotto la Toscana per il Tirreno.

Specialmente quelle in Romagna sono forse tra le più scenografiche. Si tratta di strutture in grado di ospitare centinaia, a volte migliaia di bambini. Indicative in questo senso sono ad esempio la colonia della Montecatini a Milano Marittima, progettata da Eugenio Faludi e inaugurata nel 1939, o nello stesso Comune la «Costanzo Ciano» la cui pianta riproduce la sagoma di un velivolo. O ancora, a Rimini, l’impressionante monoblocco della «Novarese», progettata da Giuseppe Peverelli, le cui testate arrotondate ripropongono la poppa e la prua di una nave; metafora, questa, che “evoca il viaggio verso nuove frontiere”, ed è ripresa, in maniera ancor più evidente, in quella sorta di riproduzione di una flotta rappresentata dalle cosiddette «Navi» di Cattolica. A Cesenatico lavora invece uno dei più importanti architetti razionalisti italiani (seguace di Le Corbusier), Giuseppe Vaccaro: a lui si deve la progettazione della squadrata e lineare colonia Agip, lunga ben 270 metri e larga 80. Le intitolazioni, poi, sono ovviamente dedicate al dittatore, ai suoi famigliari e ai gerarchi: dalla madre del duce, Rosa Maltoni, a Sandro Mussolini, il nipote; dai vari ras locali, come Farinacci, Ciano, fino a Italo Balbo, per finire con le dediche più generiche ma non meno foriere di significati politici: ecco allora le colonie «Decima Legio», «Giovinezza», oppure «Colonia Roma», o ancora «Colonia Combattenti».

Litorale di Pisa, colonia Rosa Maltoni Mussolini (dal nome della madre di Mussolini) per i figli dei postelegrafonici e dei ferrovieri

Sulla costa adriatica le località su cui maggiormente il regime investe sono quella del Calambrone, in provincia di Pisa, e appena più a nord la Versilia. Attorno al primo sito, che raggiunge il vertice della monumentalità nella colonia «Rosa Maltoni», s’addensa, nel corso degli anni Trenta, una serie di miti orchestrati dal fascismo per fare di quel luogo e della neonata città di Tirrenia il crogiolo ove la generazione di italiani nuovi potrà crescere e abbeverarsi all’“arma più forte”: oltre alle colonie, la città fondata nel 1932 nelle aree bonificate avrebbe infatti, dopo pochi mesi, visto nascere la prima rocca del cinema italiano, antecedente a Cinecittà, ovvero i Tirrenia Film Studios, nei pressi dei quali peraltro, nel 1960, per ironia della sorte verrà girato “uno dei film più significativi sulla disfatta del regime, Tutti a casa, per la regia di Luigi Comencini e con l’interpretazione di Alberto Sordi ed Eduardo De Filippo”; non si dimentichi infine che la dittatura fece ecletticamente suoi anche epici episodi del passato come quello legato ai Mille (partì infatti da Calambrone la spedizione che scese a dar man forte a Garibaldi il 9 giugno 1860).

E se qui, località vergine anche per il nascente turismo balneare, non nacquero contrasti sull’opportunità di edificare le colonie in zone di pregio, la stessa cosa non si verificò sulle spiagge della più gettonata Versilia, dove già si misurava “la distanza fra il turismo elitario del litorale toscano (e ligure) e quello delle spiagge popolari dell’Adriatico”.

Marina di Massa, la Torre Balilla dello stabilimento Fiat

In ogni caso le prime colonie vengono edificate già alla fine degli anni Venti – è il caso della «Colonia Parmense Vittorio Emanuele III», della «Rex Vittorio Emanuele» – seguite nel decennio successivo da costruzioni razionaliste di più ampio respiro che vedono in Marina di Massa il loro fulcro. Qui viene inaugurata nel 1933 una delle più spettacolari costruzioni, la «Torre Balilla», più tardi dedicata al finanziatore «Edoardo Agnelli», figlio del fondatore della Fiat, presidente della Juventus, morto in un tragico incidente nel 1935 (colpito alla nuca dall’elica dell’idrovolante paterno). Il progetto, la cui caratteristica principale è l’elegante forma a torre cilindrica, appartiene a Vittorio Bonadè Bottino, futuro architetto di fiducia degli Agnelli; all’interno della torresi sviluppa un’unica camerata lunga 426 metri. Il particolare profilo elicoidale del dormitorio, senza soluzione di continuità, conferisce al pavimento un andamento costantemente inclinato per cui in ogni lettino varia la lunghezza dei piedi per correggere l’andamento pendente.

Così, mentre in quell’anno Mussolini prendeva i primi criminali contatti con Hitler, al di qua delle Alpi, il regime mostrava ipocritamente lo smalto che ne ricopriva la cancrena: di fuori un regime che, rinnovando il paternalismo aziendale ottocentesco, provvede “a ridurre la distanza che separa i poveri dai ricchi, almeno nell’immaginario della vacanza”, di dentro l’odio e la repressione verso qualsiasi forma di dissenso.

Sauze d’Oulx, la colonia intitolata a Tina Nasi Agnelli

Se, infine, i limiti naturali del litorale ligure non hanno concesso un grande sviluppo delle colonie estive – simbolica resta comunque la «Fara» di Chiavari, oggi convertita in hotel di lusso –, una non trascurabile importanza hanno rivestito invece le colonie montane e quelle fluviali, tra Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto. Celebri quelle legate, di nuovo, alla famiglia Agnelli e alla Fiat – a Sauze d’Oulx la colonia intitolata a Tina Nasi Agnelli, lungo le rive del Po ancora una «Costanzo Ciano» –, le numerose sorte in provincia di Cremona su impulso di Roberto Farinacci, e poi ancora quella voluta da Enrico Mattei a Borca di Cadore, nei pressi di Cortina d’Ampezzo, o quella messa in piedi dalla Olivetti a Brusson (ma per queste ultime due siamo ormai nel dopoguerra ed è finalmente cambiato l’orientamento educativo e politico che ne informa il disegno).

La colonia dell’Olivetti a Brusson

Al monovolume che caratterizza certe costruzioni degli anni Trenta ed è espressione della cultura univoca del regime, la colonia di Brusson oppone differenti corpi di fabbrica disposti in modo sfalsato che si adagiano sulle curve del terreno a rappresentare la molteplicità dell’approccio educativo che non opprime e non uniforma.

In linea di massima però, negli Cinquanta e Sessanta, il grosso delle colonie viene gestito dall’associazionismo laico e soprattutto religioso (tra l’altro spesso in competizione tra loro), che, oltre a ereditare parte degli edifici degli anni Trenta, si prodiga a costruirne di nuovi, adottando un diverso linguaggio architettonico che abolisce il gigantismo fascista a favore di criteri certo più modesti (l’economicità, il risparmio, l’essenzialità) ma meno tronfi e vanagloriosi, simili per natura e per atmosfera alle scalcinate ma oneste e democratiche mura che Amerigo Ormea, la voce narrante della Giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, scorge attorno a sé, durante le elezioni politiche del 1953: “La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo a tratti ciò pareva sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli pareva finalmente la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi”.

Così, ancora per alcuni decenni, i bambini vivranno la colonia come “comunità di piccoli gruppi” finalmente esentati dalla disciplina militare imposta dal regime, e dai ridicoli e spartani bagni in mare di soli dieci minuti, preceduti dall’alzabandiera e seguiti da monotoni pasti comunitari (questi, a dire il vero, ripetuti anche nel dopoguerra), finché il boom economico, il posto fisso, le ferie pagate trascorse con la famiglia al completo, e – perché no? – anche il Sessantotto, col suo stravolgimento dei paradigmi sociali, non manderanno “progressivamente in soffitta il soggiorno estivo in colonia”.

Giacomo Verri, scrittore