È tempo in tempi come questi
di sordi che stanno a sentire
di ciechi che stanno a guardare
di ballerini sospesi nell’ultimo tango.
È tempo.
Gualtiero Bertelli
Ha compiuto ottant’anni, nel febbraio di questo 2024, un gigante della canzone popolare, cantautore, fisarmonicista, ricercatore, studioso, interprete della tradizione. Gualtiero Bertelli che, con Luisa Ronchini fondò il Canzoniere Popolare Veneto realizzando spettacoli innovativi come Tera e Acqua e il disco Addio Venezia Addio. Per dedicarsi poi alla canzone nuova, non più solo il recupero del canto popolare di tradizione veneziana e lo studio dei canti di lotta internazionali, ma la composizione di canzoni originali, d’autore, da lui scritte e musicate, cronaca e memoria di ciò che avvenne nel nostro Paese. Premio Tenco nel 2022, in quanto narratore delle trasformazioni sociali della sua Venezia, “in italiano e soprattutto in dialetto, con canzoni di lotta e di ordinaria e proletaria vita quotidiana, tra acqua alta e disoccupazione, condizionamenti culturali e religiosi”. Ha compiuto ottant’anni, si diceva, e ha realizzato il suo album più potente e ispirato, In giorni come questi, da poco edito da Nota.
Ci è arrivato dopo una vita trascorsa nella musica come l’autore racconta nella sua biografia Venezia e una fisarmonica. Storie di un cantastorie (nuova dimensione, 2014), gradevolissima narrazione in cui le vicissitudini della carriera di musicista e di cantautore si alternano ai racconti più personali del Bertelli amorevolmente dedito al mestiere di maestro elementare, assessore alla cultura del Comune di Mira, operatore culturale, formatore per adulti all’Irrsae del Veneto e poi in azienda con una laurea in sociologia, marito e padre, mentre sullo sfondo scorre veloce la linea del tempo scandita dei fatti di cronaca e di politica che l’autore vive in prima persona.
Gualtiero Bertelli, Venezia classe 1944, la passione per la musica l’ha coltivata fin da bambino, nata in famiglia, dal nonno Gualtiero che veniva da Ferrara, suonava la chitarra e si esibiva anche in gondola. Lo zio Rino, invece, imparò a suonare il banjo e il padre Enrico, detto Richeto, dopo qualche prova con la chitarra passò alla batteria. I Bertelli formarono così un’orchestrina. L’autore racconta che appena nato il nonno Gualtiero sentenziò che quel nipote sarebbe diventato musicista. E la carriera iniziò poco dopo con il regalo di una fisarmonica. A cinque anni cominciavano le lezioni da un maestro: un sacrificio per la famiglia, il padre operaio meccanico all’Arsenale, la madre casalinga. Ma gli studi davano buoni frutti e alla festa dell’Unità di Campomarte Bertelli si esibì nell’Ave Maria e nella Serenata di Schubert: un bambino di sei anni che suonava la fisarmonica da solista era una grande attrazione. Così la carriera continuò: “Ho suonato in sagre paesane, feste dei Santi e dell’Unità, spettacoli benefici in decine di località dell’entroterra: non c’era la televisione, neanche il cinema nei paesetti e la gente si divertiva nei giorni della sagra” (p.28).
Alle scuole magistrali il primo gruppo musicale con i compagni e altri coetanei. Nascevano i Boys-rock con un repertorio di pezzi alla moda insieme a composizioni originali di Bertelli che valsero al gruppo un contratto al Circolo del Mare Marco Polo: serate danzanti e tè danzanti, tremila lire a testa; veglioni, seimila lire.
Più tardi si iscrisse alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci), cominciando a interessarsi alla vita sociale e politica della sua città e rivelandosi da subito attento osservatore delle drammatiche condizioni dei lavoratori a partire dalla metà degli Anni Cinquanta, con la chiusura delle industrie: il molino Stucky alla Giudecca (1954), la Herion, la Junghans, mentre le fabbriche di Marghera richiamavano lavoratori dalla campagna e dalla città. Attivo anche nell’Associazione Democratica degli Studenti Medi, con l’obiettivo di unire gruppi orientati a sinistra negli anni del tentativo reazionario di Tambroni, entrò a far parte della redazione di una rivista, “Il volto”, fondata da Cesare De Michelis, al cui indirizzo arrivavano libri da recensire, ma anche dischi. In particolare quelli di Italia Canta con le canzoni di Cantacronache insieme alle prime incisioni del Nuovo Canzoniere Italiano con I Dischi del Sole. “Stavo scoprendo tutta un’altra musica e le mie canzonette in un attimo anche per me diventarono definitivamente tali” (p. 98).
Fondamentali nella sua formazione la libreria Il Fontego frequentata dai nomi più significativi della cultura veneziana, da Luigi Nono e Emilio Vedova fino a dirigenti politici di ampio spessore culturale. E la Libreria Internazionale, gestita da alcuni anarchici, luogo di incontro di tutti i gruppi della sinistra veneziana, dove era a disposizione un vasto materiale librario: scritti politici, di attualità, di economia, ma soprattutto dischi, anche quelli della casa editrice La Chant du monde sostenuta dal Partito comunista francese. Importante l’incontro con Luisa Ronchini, giovane di Bergamo da poco trasferitasi a Venezia per lavorare come ceramista, assunta al laboratorio di Silvano Gosparini, eccezionale figura di militante e animatore politico, proprietario e gestore della libreria e di una galleria d’arte. Luisa Ronchini era appassionata di canto anarchico e aveva incominciato a fare ricerche.
Anche Bertelli aveva da qualche tempo smesso di comporre canzonette per interessarsi a temi più socialmente impegnati, componendo anche in dialetto brani come 18 aprile 1948, I do piovani, El voto de le femene. In una serata a casa di amici dove Bertelli presentava i suoi canti anche Ronchini si esibiva. L’incontro fu fondamentale per decidere di dare vita a una formazione che si interessasse di ricerca e riproposizione di canti della tradizione veneziana, sulla scia del movimento allora molto vivo del folk revival. Ronchini alla voce, Bertelli alla fisarmonica e seconda voce, Franco Baroni alla chitarra. Il debutto fu al Nuovo circolo culturale Concetto Marchesi, inaugurato dal Pci nel 1964 con un repertorio di canti dedicati alla Resistenza dal titolo “La canaglia pezzente. Canti della Resistenza”. Di qui partiva un’attività di indagine sul campo e anche sui testi editi, raccolti dai primi poeti raccoglitori ottocenteschi. Nel ’65 al gruppo si aggiunse Alberto D’Amico che accompagnava alla chitarra e come Bertelli scriveva canzoni.
Le due spinte, l’una legata alla riproposizione di canti tradizionali e l’altra più rinnovatrice e interessata alla produzione di canzoni originali, porteranno il Canzoniere Popolare Veneto ad affermarsi presto come realtà inedita nel panorama musicale. Si esibiranno al Folk Festival internazionale di Torino del 1965 ed emergeranno nella produzione di spettacoli di grande peso artistico e culturale. Tra questi Tera e acqua, che andava in scena il 7 aprile 1966 e raccontava Venezia e la sua laguna attraverso le canzoni. Uno spettacolo che resterà nella storia e da cui verrà tratto il disco Addio Venezia Addio, che conteneva l’omonimo brano. Un canto popolare nato durante la Grande Guerra quando, il 18 novembre 1917, i primi profughi cominciavano a sfollare dai quartieri colpiti dalle incursioni marittime e aeree dopo la disfatta di Caporetto sull’Isonzo. Il canto venne registrato nel 1965 proprio da Bertelli dalle voci della madre Lidia e dalla zia Linda Gottardo, che l’avevano ascoltata dalla loro nonna, fuggita a Pesaro.
Tera e acqua fu uno spettacolo pionieristico, strutturato in canzoni popolari tradizionali e canzoni moderne, composte da Gualtiero Bertelli e Alberto D’Amico con lo scopo di raccontare la città lagunare e i suoi cambiamenti nel tempo. Tra i brani scritti da Bertelli C’era un dì un soldato e Vedrai com’è bello, canzone sulla fabbrica e sull’alienazione della catena di montaggio.
L’interesse di Bertelli si focalizzò sempre di più verso gli interventi musicali nelle esecuzioni e questo ben presto determinerà una rottura. Il gruppo continuerà le attività fino al 1971, anno in cui si dividerà in due: da una parte il Canzoniere Popolare Veneto che manteneva la denominazione iniziale, ed era composto da Luisa Ronchini, Alberto D’Amico ed Emanuela Magro, dall’altra il Nuovo Canzoniere Veneto, raccolto attorno a Gualtiero Bertelli e composto in un primo tempo da Maria Boccanegra, Tiziano Bertelli, Renzo Bonometto, Linda Caorlin e Benno Simma.
Bertelli aveva contemporaneamente avviato una carriera solista e nel 1964 componeva brani come Ma ’sti signori sullo sfruttamento dei lavoratori. Canzoni che rispecchiavano e raccontavano i grandi scioperi di quegli anni. Come quello di Porto Marghera, il 1° novembre 1964, uno dei più grandi scioperi nazionali: vennero minacciati settecento licenziamenti alla Sirma di Porto Marghera, che insorse. Diecimila persone si riversarono in piazza a Mestre per protestare. Tra di loro anche Luisa Ronchini che davanti ai cancelli della fabbrica intonò Se otto ore con Bertelli che per la prima volta in pubblico intonava la canzone scritta qualche mese prima. Qualcuno registrò quella improvvisata esibizione e Ma ’sti signori divenne la canzone della Sirma.
La svolta fu l’incontro con Michele Luciano Straniero, che per primo ascoltò le composizioni di Bertelli e la voce di Ronchini, e di qui l’invito a partecipare ad alcune serate con il Nuovo Canzoniere Italiano. Quel mondo di studiosi illuminati, fondatori dell’etnomusicologia in Italia come Roberto Leydi, di interpreti sensazionali come Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, quel mondo di musicisti, pensatori, scrittori, poeti, mossi dalla missione di dissotterrare canti destinati a sparire, erano tutti lì. Fu Gianni Bosio a proporgli di incidere un disco in cui farsi portavoce, all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano, di una canzone sociale nuova. Una strada alternativa a quella della riproposta filologica dei canti del passato. Una strada percorsa insieme ad autori come Ivan Della Mea, Rudy Assuntino, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Fausto Amodei, Giovanna Marini che metteva al centro i drammi umani, le problematiche di un proletariato protagonista delle rivolte sociali e degli scontri politici che avrebbero animato le piazze negli anni a venire.
Così nasceva Sta bruta guera che no xe finia (I Dischi del Sole, 1965), un disco di cinque brani incisi in una serie sperimentale, di denuncia sulla situazione di sofferenza e precarietà degli operai nelle fabbriche, degli studenti nelle scuole, delle famiglie di sfollati ancora in attesa di una casa nel dopoguerra. Denuncia che sfociava nel 1970 nel successivo album I giorni della lotta (I Dischi del Sole), con canzoni come Primo agosto Mestre Sessantotto, scritta in ricordo della data che rappresentò il momento più crudo della lotta degli operai della Montedison a Porto Marghera che, dal 15 luglio al 2 agosto 1968, diedero vita a una delle più importanti contestazioni operaie del dopoguerra, definendo le modalità della lotta autonoma che da lì si diffonderà ovunque. Una canzone che incitava allo scontro fisico ormai necessario, per affermare i diritti calpestati dei lavoratori in anni di confronti aspri e in cui cantare durante gli scioperi, le manifestazioni era affermazione di solidarietà.
Ma Gualtiero Bertelli nella sua lunga carriera sarà anche autore di canzoni struggenti, come Nina ti te ricordi (che darà il nome all’album edito nel 1977), canzone dai sentimenti universali, sempre attuale e per questo incisa in ogni tempo in molteplici versioni, da Giovanna Marini a Maria Monti.
Intero album:
Nel ’75 sempre per I Dischi del Sole usciva il secondo album solista Mi voria saver, dedicato a Venezia, alla sua storia, alla sua cultura, alle sue lotte. La canzone che dà il titolo all’album racconta dell’esodo dei veneziani verso i nuovi insediamenti sorti vicino al polo industriale di Marghera, tra inquinamento e nostalgia per la città.
Intero album:
Di intenso afflato poetico il successivo Barche de carta, pubblicato col sostegno di Arci Veneto il cui brano omonimo riceverà la targa Tenco 1987 per la sezione “Canzoni in dialetto”.
Intero album:
Diversi progetti discografici si susseguono nella carriera di Bertelli, tratti da spettacoli teatrali, tra questi Quando emigranti. Canti dell’emigrazione italiana (Nota, 2003) su un tema caro al cantautore veneziano, nato dalla collaborazione con lo scrittore Gian Antonio Stella e realizzato con una formazione denominata Compagnia delle Acque. Porterà alla realizzazione dello spettacolo “L’Orda. Storie, canti, immagini di migranti” che andrà in scena dal Venezuela al Canada, dalla Francia a Berlino fino negli Stati Uniti.
Dall’album Emigrazione di Alberto D’Amico:
Sempre dai libri di Gian Antonio Stella, in particolare “Negri, froci, giudei & co.” e “Vandali” (scritto con Sergio Rizzo) sono nati spettacoli tra cui Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia, raccolto nel doppio cd Barbari (Nota, 2012), denuncia civile verso l’intolleranza e l’ignoranza che segna il rapporto conflittuale contro l’“altro”. La regia musicale di Gualtiero Bertelli con la Compagnia delle Acque ha unito fonti di cultura popolare con brani d’autore e canzoni scritte per l’occasione. Tra queste Barbari.
Importante anche la collaborazione con il giornalista e scrittore Edoardo Pittalis con cui ha realizzato numerosi spettacoli, tra cui: “Poenta e schei. Dalle tre Venezie al Nord Est storia di uno sviluppo economico e della sua crisi”; “La guerra di Giovanni. L’Italia al fronte: 1915 – 1918, Il sangue di tutti” e “Resistenza e guerra civile nel nord-est e L’Italia ai tempi del trio Lescano. Dall’Impero alla Repubblica. Con la partecipazione della Compagnia delle Acque”. All’interno di questa collaborazione, Il custode della miniera (Nota, 2010), rappresenta un importante tassello nel percorso artistico di Bertelli, autentico capolavoro di scrittura. L’album lo vede nella leggendaria e mitica veste di cantastorie. Dieci ballate illustrate da Pittalis, a ricordo degli antichi cartelli. Si racconta di Primo, cuoco nel Polesine alluvionato del 1951, dell’alluvione di Venezia del 1966, della tragedia del Vajont.
E poi c’è la storia folle di Landru padano, quella di Galvan Angelo, unico sopravvissuto alla strage di Marcinelle, quella del partigiano Eolo. E si ha voglia, ogni volta, di ascoltare la storia successiva. Il custode della miniera è una delle incisioni più riuscite di Bertelli che, con tanta e profonda dedizione all’arte del raccontar cantando, ha permesso la restituzione di vicende umane e sociali che riguardano il nostro Paese, e di cui poter così conservare memoria. Un album concepito come punto di raccordo di tutte le esperienze musicali e umane attraversate dall’autore.
Intero album:
Ma è nel recente album In giorni come questi che Bertelli compie l’impresa di mettere insieme l’arte del cantastorie, portavoce di vicende collettive ispirate anche dall’attualità, e quella del cantautore introspettivo che guarda più a sé e tira le fila di una vita, realizzando un’incisione molto personale, intima, estremamente autobiografica, in cui musica e voce si combinano in vario modo per dare vita a storie di personaggi reali o di fantasia, per raccontare Venezia o il mondo, per riflettere sul passato o sull’oggi. Una voce più indurita e graffiante ma immediatamente distinguibile, quella di chi ha sulle spalle il peso di una lunga epopea, quella della canzone popolare, che ha narrato le vicende politico-sociali che travolsero generazioni di giovani a partire dagli anni Sessanta, protagoniste di lotte e rivendicazioni, animate da sogni e speranze. Ma che è andata oltre: “Bertelli prende la tradizione, la capovolge e la rimette in un tempo nuovo”, scrive Edoardo Pittalis nel booklet.
Soprattutto negli arrangiamenti. Il disco è musicalmente complesso, costruito su architetture sonore sofisticate che restituiscono il sentimento dei testi.
Una novità importante rispetto ai dischi precedenti e ne chiediamo conferma all’autore che ci ha concesso una preziosa intervista:
“Se prendiamo il primo disco che ho inciso c’erano fisarmonica e voce, punto. Prima di arrivare a questo album, in mezzo ci sono stati dei passaggi per cui mi sono avvicinato con prudenza, ma anche con molta convinzione, al fatto di poter usare strumenti musicali. All’inizio mi sono attenuto a quelli che erano allora i ragionamenti che si facevano sulla musica popolare e sulla sua riproposta. Una discussione partita in America negli anni Cinquanta, forse anche prima, tra Alan Lomax e suo padre John che stavano facendo delle registrazioni e i folksinger che stavano per esibirsi: l’atteggiamento dei folkloristi era quello di rispettare la natura del canto, ovvero un canto popolare non lo si poteva accompagnare con basso o sassofono, se si cantava una canzone della tradizione la si doveva eseguire nella modalità in cui era nata. A questo principio mi sono attenuto inizialmente quando cantavo anche le canzoni da me composte, utilizzando fisarmonica e voce. Poi ho cominciato ad aggiungere qualche strumento, la chitarra che avevo imparato a suonare, un contrabbasso, o meglio il basso con tre corde come nei canti della Val Resia. Scoprivo, infatti, che anche il mondo popolare si arricchiva e faceva attenzione a strumenti diversi dai consueti, facendoli propri, come il contrabbasso e numerosi strumenti a fiato, flauti, pifferi. Mi sono detto che con prudenza gli strumenti si potevano usare. Certo, c’era sempre la preoccupazione di non farli emergere troppo, questo era l’input che avevo ricevuto, ma avevo anche fatto esperienza in complessi di vario genere e sentivo il desiderio di rinnovare”.
In quanto a strumentazione, In giorni come questi si rivela davvero rivoluzionario. È così?
“Questo potrebbe essere l’ultimo disco che faccio – spero di no perché ne ho già in mente un altro – e qui ho inciso canzoni tutte mie, non c’è niente di tradizionale, quindi ho voluto essere libero di sperimentare musicalmente. Non volevo che la musica fosse un semplice supporto su cui dici delle parole, volevo fare in modo che la musica fosse una parte sostanziale, le canzoni sono musica e testo. Così è uscito un album che ha ispirazioni che vanno dal folk al rock al jazz, allo swing, mi sono lasciato ispirare da ciò che mi piaceva e anche nella strumentazione ho inserito soluzioni diverse. Ho lavorato con un gruppo di musicisti eccezionali, che conosco bene e di cui mi fido, sono venuti in sala d’incisione e tenendo conto di tutto l’insieme hanno proposto il loro intervento musicale. È partita prima la batteria (Marco Carlesso) e poi il contrabbasso (Domenico Santaniello, anche al violoncello) e pian piano si sono aggiunti gli altri strumenti.
La musica era quella che avevo scritto io, ma ogni musicista è intervenuto come ha creduto. L’ultimo che suonava doveva tenere conto delle tracce incise dagli altri e inserirsi, ma siccome sono bravissimi musicisti abituati a lavorare tra di loro è uscita una cosa straordinaria. Abbiamo anche deciso che gli strumenti – numerosi, dal pianoforte al duduk – non suonassero sempre tutti insieme, ma per ogni pezzo sono stati scelti quelli più adatti, connotando ogni canzone di una particolare atmosfera. L’obiettivo era di non replicare lo stesso colore musicale, sorprendere l’ascoltatore e invogliarlo a scoprire le sonorità del pezzo successivo. È stato come dipingere dodici quadri diversi”.
In quanto ai temi, è un album di ricordi, spesso struggenti e dolorosi, di considerazioni sul passato, con un senso di amarezza pensando agli anni delle canzoni di protesta, ma anche di polemica contro il mondo di oggi, l’Italia di oggi, vista con gli occhi del risentimento o della delusione. Nelle dodici tracce che lo compongono, alcune in italiano e altre in lingua veneziana (“la mia lingua è l’italiano – spiega Bertelli – la mia lingua materna è il veneziano”), l’album è, infatti, pervaso da sentimenti contrastanti. Qualcuna, inoltre, come Vusto meter! (Vuoi mettere!) che apre l’album, era già stata pubblicata (in Un papavero rosso ogni tre metri de gran. Romeo Isipetto: un eroe imbarazzante, Nota, 2015), ma qui viene riproposta in maniera totalmente rivisitata, più intensa nell’interpretazione e più articolata musicalmente, con gli arpeggi del pianoforte (Paolo Favorido) e l’intervento di Michele Gazich al violino che duetta splendidamente con il sax soprano di Maurizio Camardi. “Alcune canzoni che dovevano sollevare attenzione ma si sono smarrite – spiega Bertelli – le ho riprese perché mi sembrava ne valesse la pena”.
Scopriamo che il canto, antifascista, nacque per un evento precedente rispetto all’incisione del 2015…
“Vusto meter! me la chiese Marco Paolini per la chiusura di un suo spettacolo (“Aprile 74/75” di cui Bertelli è autore di tutte le musiche, realizzato nel 1995, ndr). Non riuscivo a trovare niente, ma il giorno della prova generale mi venne in mente il verso di un canto spagnolo che aveva raccolto Margot durante il viaggio in Spagna con Sergio Liberovici e Michele L. Straniero. Questa canzone diceva che in Spagna i fiori che nascono in aprile non nascono nella gioia, ma nel dolore, quelli erano gli anni della dittatura franchista. È una canzone che si trova pubblicata nel libro Canti della Nuova Resistenza Spagnola e incisa nell’album omonimo, e me ne ricordai in quel momento. Ma i miei versi, volendo in qualche modo rispondere a quel canto, dicono l’esatto contrario: Vuoi mettere! /I fiori quando nascono in aprile/sono belli, sono grandi, e i colori sono tanti/. È una canzone di speranza per un domani migliore, un domani libero, un domani senza nero”.
I brani successivi, di cui Bertelli è sempre autore di testo e musica, Tutto come se… e De ’sta città sono dedicati a Venezia. Nel primo, scandito dal ritmo delle percussioni (Rachele Colombo), dal violino (Stefano Olivan) e dall’intervento straniante della chitarra elettrica (Simone Nogarin), si penetra in un’atmosfera oscura. È una canzone inesorabile, con la descrizione di Venezia come di un museo intrappolato in una bolla di vetro, che si apre unicamente per la fruizione turistica.
Desolato il richiamo – e il tema ritorna anche in una successiva traccia – alle canzoni popolari: Spunta dai sacchi un canzoniere /fotocopiato da chi non si sa/ sbiadito e stinto da non poter vedere e quelle da lui composte, Canzoni scritte in un buffo italiano,/ oppure in un gergo detto ‘veneziano’./ Cantano barche di carta Nine e pescatori barbari cornuti, Giudecche e gran signori. Riemergono come polverosi fogli di carta sepolti dal tempo di cui nessuno ha più memoria.
In questa sensazione sconfortante la San Marco posticcia, a uso e consumo dei turisti, si riempie di silenzio mentre si svuotano i battelli e il suono della città si smorza, come si spegne un carillon che addormenta tutto. Domani la giostra ripartirà alla stessa ora.
“C’è il rancore verso chi sta assassinando Venezia. Se il mare salirà di altri metri Venezia andrà irrimediabilmente sott’acqua, dunque dietro al pezzo c’è l’angoscia, la preoccupazione per il rischio di sparizione della città. Mi sono immaginato dei giovanotti che tra duecento trecento anni andranno a Venezia e la troveranno in una bolla di vetro che la ricopre, la vedranno dall’alto e vi troveranno dentro solo due vecchi. Venezia chiude alle sette, questa frase mi ha dato l’idea della canzone e viene da un racconto di mio figlio. Con alcuni amici ha creato una società che gestisce alcuni bar a Venezia e una sera verso le sette gli si avvicinò uno straniero e gli chiese a che ora chiudesse Venezia. Come se fosse un baraccone e non una città. Da questo spunto ho costruito tutto il ragionamento.”
Venezia chiuderà?
“Se Venezia un giorno dovesse chiudere sarà perché sommersa o ricoperta davvero da una struttura, una cupola enorme che la proteggerà”.
Nel brano De ’sta cità (Di questa città) introdotto dalle note jazzate del pianoforte (Paolo Favorito) e connotato dal suono sofisticato della tromba di David Boato, si avverte il sentimento di nostalgia per una Venezia che non esiste più. La città, infatti, è altrove.
Di questa città amo la gente /quella che ora non c’è più/che è andata via./ Quella che trovi sparpagliata/nei quartieri di una sterminata periferia, recita il testo.
“Da Mestre a Marghera a Mira questa enorme provincia, abitata da chi è uscito dalla città, sorpassa il numero di veneziani che sono rimasti. Venezia ormai ha la dimensione urbana di Mira. Una parte di abitanti sverna lì ma poi spartisce, d’estate non ci si può vivere per i troppi turisti. Ci sono numerosi gruppi di veneziani che vivono fuori e a Venezia non vogliono più tornare, io che abito in campagna, ogni tanto ci penso, mi viene la nostalgia, ma me la faccio passare rapidamente. Certo, quando vado alla Giudecca mi piange il cuore ma non ci tornerei. Alla Giudecca ho trascorso anni meravigliosi, frequentavo Margot, abitavamo vicini, ci conoscevamo da sempre”.
Margherita Galante Garrone (Margot) ritorna in questa conversazione, interprete eccezionale di canto popolare, torinese ma trasferitasi a Venezia dove collaborò anche con Luisa Ronchini, ricercatrice e raccoglitrice di canti della tradizione veneziana. Si coglie un forte contrasto tra ciò che è autentico (e ormai risotto all’osso) e ciò che è artefatto e falsificato (dilagante).
“Ho un cugino che canta con voce tenorile e porta in giro per il mondo il repertorio veneziano con tanto di fisarmonicista, bassista, chitarrista, e si esibisce perfino in abiti da gondoliere in canti veneziani che, però, non sono popolari, sono in dialetto ma sono stati composti anche da chi non è veneziano. Invece c’è Rachele Colombo che ha lavorato nell’album come percussionista, lei sì che ha riscoperto qualcosa di autentico: i canti da battello del 1700 (Cantar Venezia. Canzoni da battello. Dai manoscritti originali del ‘700 una nuova riproposta). È una musicista vera e ha portato alla luce ciò che si cantava nel passato, ha fatto una ricerca incredibile che poi ha riproposto con voce, accompagnata da chitarra, violoncello, flauti e tamburello. Una meraviglia. Un progetto straordinario che non è stato sufficientemente sostenuto, ci sarebbe voluto un maggior supporto e divulgazione da parte delle istituzioni. Solo Rachele Colombo poteva sognarsi di fare quel disco e Valter Colle di inciderlo, un editore che meriterebbe un premio, una volta c’erano tante case discografiche, ora c’è solo lui che crede in questi progetti”.
Il senso di nostalgia verso il passato pervade anche ’Sta vita che è un’autobiografia in cui il tempo lontano è richiamato dal suono della fisarmonica, strumento principe di Bertelli, a ricordare gli esordi, gli anni delle prime esibizioni, quelli successivi quando lo strumento accompagnava le voci del Canzoniere Popolare Veneto e poi le composizioni della rabbia e della protesta. Quel tempo che in giovinezza scandiva i dettami, le regole per fare e disfare il mondo e renderlo un posto migliore. Quel tempo che spinge di corsa in avanti fino a che non costringe a fermarsi, girarsi e guardare indietro. Tra le tracce più suggestive vi è Assenza, canzone che emotivamente tocca corde molto profonde. Introdotta dall’arpeggio della chitarra acustica (Simone Nogarin), su cui si appoggia la voce, una voce che si incrina e, magistralmente, commuove, accompagnata dal suono avvolgente del violoncello (Domenico Santaniello).
“Assenza l’ho scritta per uno spettacolo di teatro realizzato con Gian Antonio Stella ed era cantata da una donna. Era nata al femminile, nel periodo in cui le donne ucraine scappavano dalla loro terra e arrivavano in Italia o in altri paesi dove erano accolte. La moglie vede partire il marito soldato o il contrario. È stata scritta agli inizi del conflitto russo ucraino”.
Irrompe poi È tempo, musicalmente tra le più interessanti connotata dall’ingresso del sintetizzatore (Luca Pulignano) e dal sax soprano, con contrabbasso e chitarra elettrica a creare un amalgama di suoni carica e potente, ed è la traccia più spietata. Un bilancio amaro dell’impegno sociale e politico condotto attraverso la canzone, una certa canzone che si è levata come voce di contestazione: “È tempo di capire che non abbiamo capito niente di ciò che abbiamo cantato e ballato”, recita il testo. Le nostre proteste, sembra dire, non sono servite a cambiare le cose, perché il presente dell’oggi vede una realtà che è andata degradandosi. Il mondo (l’Italia) è diventato un luogo in cui non c’è spazio per l’intelligenza e i cervelli più acuti vanno al macello, dove i potenti che dettano legge, dispensando promesse giocattolo, trovano sguardi compiacenti e folle plaudenti. Non sembra essere passato il messaggio che la canzone popolare e di protesta portava con sé, ovvero quello di opporsi alle sirene di un falso benessere, a promesse irrealizzabili. Invece questo attuale tempo ingrato sembra aver vinto su tutto, un tempo fatto di piogge acide e di caldi assordanti, di vuoti a perdere e di nulla cosmico. È così?
“Non c’era la presunzione da parte nostra che bastasse una predica dal palco. Noi abbiamo cantato cose sacrosante, la gente ha battuto le mani e poi cosa è successo? Poi sono arrivate le Brigate Rosse, poi sono arrivate le repressioni, di quello che avremmo voluto fare non abbiamo fatto niente, non abbiamo capito niente, abbiamo capito che quello non bastava, che era poco, troppo poco per poter cambiare la situazione. Pensavamo di costruire un palazzo e abbiamo costruito una casetta di sabbia che la prima ondata l’ha portata via. Eravamo giovani, era un fatto nuovo quello delle canzoni e lo abbiamo lasciato morire. Gli altri hanno combinato quello che hanno combinato, non abbiamo interloquito con quello che stava succedendo, noi ci siamo opposti ma non abbiamo interloquito. Ti opponi ma pian piano…Sto pensando di lavorare su questo, sul fare una somma per capire dove siamo arrivati”.
La canzone ricorda per certi aspetti Ballata autocritica di Fausto Amodei. Il cantautore torinese nel 1972 affermava che le canzoni non servono più a niente, né a ricordare fatti o persone, né a smuovere gli animi di un pubblico ormai passivo e inerte. Né, soprattutto, a vincere contro i forti. Meglio imbracciare un’arma e con quella discorrere.
Sono dieci anni che canto le lotte/e i mille scioperi e la strategia/per far la rivoluzione;/ma son dieci anni che canto le botte/e i caroselli della polizia/e le condanne in prigione;/c’è il canto triste se siamo battuti/c’è il canto allegro se mille operai/scendono in piazza a lottare;/ma dopo tanti gorgheggi ed acuti/mi sono accorto che forse oramai/non c’è più gusto a cantare […] Forse occorre che/questa chitarra a ciondoloni/si trasformi in mitra/e possa emettere altri suoni;/e che le sei corde/per produrre altri rumori/si trasformino di colpo/in sei caricatori;/e che queste dita/per produrre qualche effetto/anziché grattare arpeggi/premano un grilletto;/forse può servire solo/più la passacaglia/che con la sua voce/sa intonare la mitraglia.
In entrambe le canzoni si coglie un’amara delusione che spinge alla provocazione, ma se Amodei trovava una soluzione di rivalsa, per quanto assurda, esasperata e iperbolica, in linea con i sentimenti di quegli anni, qui il tempo è passato e una soluzione non si è trovata, qui c’è solo il rammarico per una constatazione, ovvero che non esiste rimedio.
“Siamo sulla stessa onda, con modalità diverse ma diciamo la stessa cosa. Il ragionamento è il medesimo. Io parlo anche di questo tempo di piogge acide, di tutto quello che sta andando a patrasso: l’ambiente, il clima. Mentre i governi fanno ciò che vogliono, non sappiamo prepararci a contrastare quello che verrà, come quando Mussolini piano piano poté affermarsi perché davanti non aveva nessuno a contrastarlo. Il cambiamento fondamentale si fa in pochi anni, l’indignazione contro il governo non serve a niente quando il governo fa quello che vuole. Ai tempi qualcuno si occupava di questo, la canzone ai tempi c’era, ma era lì per raccontare i fatti, non si può pretendere di più da uno che sta lì con la chitarra e canta”.
In contrasto al clima di È tempo, Reoplani, Silvio, reoplani è un valzer pacato cantato in dialetto, suonato dalla fisarmonica e introdotto dal violino (Michele Gazich) e dal suggestivo suono del flicorno (David Boato). Nasce da una lunga discussione in treno da Milano a Venezia tra Bertelli e l’amico Silvio, professore di filosofia, ventennale collega negli anni dell’insegnamento e in quelli della consulenza manageriale, quando, dopo una vita di lavoro nella scuola entrambi avevano intrapreso una carriera nell’ambito della formazione per gli adulti.
“Silvio è stato mio collega quando lavoravo per una società di Milano, e la canzone è il risultato di una lunga chiacchierata sul senso dell’esistenza. Quando sono tonato a casa ci ho ripensato e ho scritto subito qualche verso, poi gliela feci ascoltare. Era impazzito di gioia, molto prima di sapere di essere ammalato, di avere poco tempo e di decidere di togliersi la vita. Quando ho saputo della sua morte gli ho dedicato la canzone”.
Una canzone sulla libertà? Quella di poter vivere e decidere della propria vita fino all’ultimo?
“Una canzone sul desiderio di poter scegliere: lasciatemi scegliere come vedere le cose – sembra dire il protagonista – questi aeroplani che non si capisce dove volano, come volano, sono frutto di fantasia, ma io sto bene immaginando, apprezzando tutto ciò che sembra diverso, non peggio o meglio, ma diverso”.
La successiva traccia, Streghe, si distingue da tutte le altre, sia musicalmente, con l’aggiunta delle voci femminili di Cecilia Bertelli e Giuseppina Casarin, storica voce della Compagnia delle Acque, sia nel tema. Nell’affrontare la terribile caccia alle streghe praticata anche durante il Rinascimento, negli anni del fiorire dell’arte e della cultura in Europa, fino a raggiungere il suo culmine tra la fine del 1500 e la metà del 1600 con la diffusione dei tribunali dell’Inquisizione in ogni parte del continente, contro l’ossessione verso le streghe e dunque verso le donne, la canzone è una ode in loro onore, viste come figure misteriose e seduttive.
“Streghe l’ho scritta per un concerto di donne. Mi ha sempre affascinato il tema, ho letto tanti libri. È una canzone a difesa delle tante donne massacrate in epoche passate, fino a un tempo non remotissimo. Non è una storia così antica, l’ultima che fu accusata di stregoneria in Europa fu una giovane in Svizzera nel 1782. E ancora oggi c’è chi si affida a queste figure per farsi aiutare, non solo nelle campagne sperdute del sud, anche al nord c’è chi ha queste convinzioni, è un’eredità che abbiamo dentro”.
Streghe è un pezzo di forte impatto per sonorità e atmosfera, diverso da tutti gli altri, ma ogni canzone si distingue per un dato carattere. In Ma chi te ga robà (Ma chi ti ha rubato), per esempio, Bertelli torna a farsi cantastorie, narratore di vicende tragiche della Venezia, ma anche dell’Italia del dopoguerra. Protagonista è Teresa, una giovane la cui storia di violenza e deprivazione, era stata raccolta in un libro dal titolo Teresina, una storia vera. Una storia di genitori alcolizzati, di anni trascorsi all’Istituto delle Zitelle della Giudecca, di prostituzione, di un figlio nato dall’avventura di una sera, di un matrimonio disperato, di botte e di bastonate. Bertelli parte dalla vicenda reale per comporre una ballata piena di poesia per andare oltre e immaginare quale altra vita avrebbe potuto vivere Teresa se nessuno le avesse rubato tutto, dall’infanzia ai progetti di donna adulta. Una sliding doors attraverso cui il destino confeziona esperienze tragiche o di ordinaria felicità, come quella di una bambina che sogna di diventare sposa. Il duduk di Maurizio Camaldi fa risuonare il pezzo di un tempo antico e lontano, l’impasto è un crescendo che si fa vibrante con l’aggiunta della fisarmonica di Bertelli e della viola (Michele Gazich).
Sul testo di Michele Serra, Bertelli compone poi la musica di Ninna nanna dei fabbricanti, e ne fa uscire un pezzo surreale dove la musica dolce e cullante di pianoforte, chitarra a cui si aggiunge un assolo lirico del sax soprano, stride con le parole e il cinismo del testo, contro la guerra ma soprattutto contro chi specula sulla guerra e sulla guerra campa vendendo armamenti. Un padre, mercante di bombe, protegge la sua bambina dai mali del mondo mentre altri bambini, nel continente orientale, nello stesso momento e nella totale indifferenza, muoiono uccisi dalle deflagrazioni.
“Sembra scritto oggi, citando i bambini dell’Oriente, ma è un testo di qualche anno fa, e la canzone è stata composta per un teatro di Mestre per uno spettacolo sulla guerra, diversi anni fa, quando ancora l’attuale conflitto non era esploso. Non volevo presentare le già note canzoni sulla Grande guerra o sulla Seconda guerra mondiale e ho preferito mettere in musica questo testo di Serra, che poi ho riproposto nell’album”.
Legata all’attualità è anche Posso esserle utile? canzone che racconta della solitudine di questa epoca, in cui le relazioni sono filtrate attraverso schermi di telefoni, dispositivi tecnologici, applicazioni dalle quali sbucano voci di estranei. Entrano nelle vite delle persone per farne clienti, offrendo loro qualche servizio, o un’illusione. Ectoplasmi a cui interessa solo chiudere la pratica. Musicalmente è un brano sorprendente, un pezzo indie rock anni novanta dove i suoni più freddi degli strumenti elettronici di basso, piano elettrico, tastiera (Luca Pulignano), chitarra elettrica (Simone Nogarin) restituiscono il senso di alienazione del personaggio.
“Viene da una mia esperienza. Per molti anni mi sono occupato di formazione degli adulti nella scuola, formando insegnanti e dirigenti. Poi una volta uscito sono andato a lavorare per un’azienda di Milano che si chiamava Mida, un gruppo di persone da cui ho imparato molto che mi offrì un primo incarico per la Omnitel. In quel momento eravamo ancora col telefono portatile analogico ma le novità stavano arrivando. La Omnitel aveva avuto il permesso di costituire le proprie reti telefoniche e di utilizzare il contatto con il pubblico. In quella prima fase non si poteva vendere ancora nulla, si dovevano dare solo informazioni a chi le chiedeva. Alla sede di Ivrea della società, nel primo call center che veniva istituito in Italia, alcuni giovani erano stati selezionati e formati, proprio per rispondere al telefono, qualcosa di totalmente inedito, ed era anche comico sentire ogni giorno la gente che chiamava per chiedere informazioni sul telefonino digitale, su quando e come si potevano fare gli abbonamenti, sui costi, modalità, mentre gli addetti dovevano inventarsi come e cosa rispondere. Il pezzo è ispirato a quella esperienza, ma parla dell’oggi, dove le cose sono molto cambiate: a quei tempi era la gente che chiamava, ora sono gli operatori che chiamano e il più delle volte ricevono parolacce, è una cosa avvilente, non c’è relazione in questi dialoghi telefonici”.
Chiude l’album È un amore impossibile, splendida ballata folk il cui testo è una poesia di Properzio, poeta latino dell’età augustea. Tra i suoi libri più significativi quello dedicato all’amata Cinzia, da cui proviene l’elegia. Bertelli nel libretto ne sottolinea la modernità, i versi lo hanno colpito al punto di voler cercare l’originale in latino per verificare la traduzione, che ne ha confermato l’attualità, soprattutto nell’interrogativo, l’eterna questione che tutti attanaglia in ogni epoca: La società, le regole, i doveri…Meglio felici o meglio allineati? domanda che poniamo a Bertelli.
“Io sono per la felicità, ti sembro uno allineato?” risponde convinto. Tornando al pezzo. “L’ho trovato in internet per caso, è una canzone d’amore molto dolce, facile, immediata e poi c’è questa cosa che mi ha lasciato sgomento: chi ha tradotto se lo è inventato – ho pensato – figurati se in tutti quegli anni prima di Cristo qualcuno ha davvero scritto una cosa del genere in una elegia. Allora ho cercato l’originale in latino ed è proprio così. È una poesia modernissima, e l’abbiamo incisa solo chitarra e voce, e questa è una grande sorpresa dopo undici pezzi tutti musicati con più strumenti. La sorpresa serve a far ragionare: come mai questa scelta? È perché qui si va all’essenza. È un salto di clima nella musica e nella voce per scoprire che il testo è stato scritto da un poeta innamoratissimo, prima della nascita di Cristo – non so se mi spiego – per dirci che i sentimenti sono eterni, universali, non cambiano, e sono ciò che conta davvero.”
In giorni come questi è un album che, nelle dodici tracce, conduce l’ascoltatore lungo un percorso alla scoperta di un approdo, un porto sicuro. È un album sulla contemporaneità, sui fenomeni culturali e spirituali dell’età presente, in cui l’attualità fa capolino anche da una poesia scritta tra il 28 e il 14 a.C. magistralmente riproposta, come dalle fotografie di una Venezia irriconoscibile, orfana della sua anima più popolare e umana, diventata una giostra di divertimenti, luna park a ore. C’è l’attualità della guerra che miete vittime tra i più fragili, i bambini, e quella delle tante altre vittime di una società individualista che genera involucri di solitudine. Le figure femminili emergono dal passato con tutta la loro forza magnetica e sembrano esercitare un potere di rivalsa e di ribellione alle regole, al loro destino ingrato. Vi ha dato voce Cecilia Bertelli dietro cui si intravede una possibile eredità: “Ha studiato da mezzo soprano – racconta Bertelli –, ogni tanto la porto con me e la gente si impressiona abbastanza. Benché spera che io duri in eterno, ha già detto che canterà le mie canzoni”.
C’è la speranza di un domani migliore, libero, un domani senza nero. Un album musicalmente ricco di contributi, di stili, di possibilità espressive, di invenzioni in cui strumenti acustici si mescolano a sintetizzatori, dando vita a sonorità moderne e raffinate, folk-jazz, indie-rock sulle quali trova sempre precisa collocazione la voce autorevole del cantautore veneziano, energica, pungente, appassionata. Un album suonato da musicisti eccellenti, perfettamente amalgamati nel creare atmosfere e ambienti in cui si resta rapiti nell’ascolto. A ogni singolo pezzo è riservata una cura impressionante, negli incipit ma soprattutto nei finali, quasi sempre imprevedibili. Bertelli si rivela un passo avanti, un artista che non si ferma sul già noto, sulla comfort zone, ma sperimenta e va oltre, realizzando un’opera di straordinario ingegno e fattura, un’opera che, tra tradizione e futuro, sfugge alle catalogazioni.
Bertelli, che ha visto nascere la canzone popolare, risorta negli anni del folk revival dalle voci di anziani portatori di cui si è fatto raccoglitore, reinventata nella forma scritta e gridata della contestazione, diventata espressione d’autore e di una poetica immediatamente riconoscibile, conferma la sua natura di pensatore libero, di voce aperta che condanna il consumismo imperante, la guerra, le dittature, la perdita di valori fondanti una società sana: la solidarietà, il rispetto, l’amore possibile. Che afferma il principio di autodeterminazione, che salva i più fragili, che scuote dal torpore perché si reagisca. Ma c’è ancora speranza?
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 29 Novembre 2024
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/la-rivolta-sociale-i-diritti-la-pace-ovvero-la-passione-politica-nella-musica-di-gualtiero-bertelli-per-un-domani-senza-nero/