Paolo Pietrangeli al centro, con Francesco Guccini e Giovanna Marini

Pensavamo che una società più giusta era possibile e con la musica aiutavamo a far capire ai più deboli che bisognava impegnarsi per cambiare le nostre condizioni.
Paolo Pietrangeli

 

Paolo Pietrangeli, da poco mancato, è stato tra le voci più veritiere degli anni delle contestazioni e non solo: è stato la cronaca di quegli anni, il racconto delle rivolte studentesche e operaie, la rappresentazione degli ideali di giustizia e di rinnovamento sociale che hanno animato le rivendicazioni di fine anni Sessanta. E della delusione che ne è seguita, per il sogno infranto. Una voce a servizio delle battaglie per i diritti sul lavoro, la difesa degli ultimi, la causa dell’uguaglianza. Attraverso canzoni scritte e cantate con l’urgenza di farsi testimonianza e partecipazione civile. Canzoni che sono state e che saranno per sempre canto collettivo.

“Sono nato nel 1945 in una famiglia della borghesia intellettuale progressista romana (…) – racconta Pietrangeli nel volume autobiografico Contessa –. Mio padre, Antonio, dopo gli inizi come critico cinematografico, aiuto regista e sceneggiatore con Visconti, Blasetti, Camerini, Lattuada, cominciò la sua carriera di regista, nel 1953, con il film Il sole negli occhi (…). In quegli anni Cinquanta tra i ‘liberal’ c’era una gran voglia di fare, ma soprattutto di cambiare tutto”.

L’arte, la cultura, la musica, il cinema, erano vissuti come strumenti per costruire una nuova società. “A casa mia c’era un gran via vai. Aprivo la porta ed entrava Flaiano. Riaprivo la porta: Visconti e poi Pasolini, Amidei, Pinelli, questi erano gli amici di famiglia; oltre Scola e Maccari”. In questo clima trascorre l’infanzia Paolo Pietrangeli che, seppure bambino, assorbe gli stimoli creativi degli intellettuali, pensatori e artisti più lungimiranti di una generazione.

Il padre, figura fondamentale, lo avrebbe voluto laureato in giurisprudenza, mentre ormai in dirittura d’arrivo Pietrangeli sceglierà di virare verso gli studi di filosofia. Da sempre c’era il proposito di occuparsi di regia cinematografica, non per via di spinte paterne, anzi: quei set Paolo li frequentò con ruoli da ultimo arrivato. Era il cima culturale, le frequentazioni quotidiane che lo aprirono al mondo della settima arte. Oltre a quello della musica. Nel volume citato Pietrangeli racconta di quando nel ’58, con suo padre impegnato in un lavoro con Dario Fo, ricevette da questi il suggerimento di acquistare, per il prossimo tredicesimo compleanno del figlio, una chitarra. Paolo cominciò subito a impratichirsi fino poi ad accogliere il proposito di scrivere testi per canzoni. Gli fu d’aiuto il critico d’arte Federico Zeri, altro frequentatore fisso di casa Pietrangeli, che gli svelò il fascino delle rime e dei giochi tra suoni e parole. Da questi stimoli sortirono i primi tentativi di poesia in musica.

Genova 1960

Il 1958 è la data emblematica scelta dagli storici per segnare l’inizio del boom economico, periodo scintillante di grandi trasformazioni nel Paese. L’Italia diventava un Paese industrializzato e le famiglie italiane erano toccate da un benessere generalizzato. Non tutte però, perché diverse, di quel miracolo non si accorsero, restandone ai margini. Pietrangeli, questo cambiamento lo vive da protagonista. I giovani, a partire dal luglio ’60, si stanno riprendendo le piazze per contestare il governo Tambroni e tutte le contraddizioni politiche di quel periodo. Poi passeranno alle università, occupandole, e rendendole luoghi deputati per la messa in discussione di un sistema sociale classista, autoritario, soffocante, fondato su regole borghesi che, in ogni contesto ormai, sono considerate discriminatorie e oppressive. Si contesta affinché si apra la strada a una forma di convivenza civile più egualitaria, senza divisione in classi sociali, a una società in cui se i figli di famiglie benestanti possono ambire a ruoli di comando, anche per quelli provenienti da famiglie proletarie ci sia l’identica prospettiva.

Anche sul piano economico la grande macchina del boom si inceppa, mostrando la fragilità dei suoi ingranaggi: la recessione del 1963-’64 che segue la fine del miracolo è la realtà che si affaccia agli occhi degli italiani con il suo carico di cinismo e di illusorio benessere. La fase di crescita post-bellica si conclude in fretta e cominciano a emergere i segni di una crisi strutturale dell’economia, che sarebbe proseguita per lungo tempo.

Roma, 1 marzo 1968, facoltà di Architettura, Valle Giulia

La metà e la fine degli anni Sessanta sono per il Paese un momento di svolta, segnato dall’irrompere di nuovi fermenti indirizzati al raggiungimento di libertà, garanzie e diritti in campo sociale e culturale. Ma è anche terreno di scontri, scioperi, manifestazioni violente combattute in nome di ideali e valori che hanno come comune denominatore l’idea del rinnovamento. Con gli studenti ci sono gli operai, i lavoratori delle fabbriche in sciopero e a manifestare per i diritti sul lavoro. Ci saranno scontri per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (1966) e le rivolte dei braccianti agricoli con l’occupazione delle terre (1967).

Gli scioperi vanno di pari passo con le occupazioni di scuole e accademie, una serie di manifestazioni che alla base mostrano una mancanza di dialogo fra generazioni, fra giovani e anziani, professori e studenti, il fermento “di un più generale senso di insoddisfazione (…), un esempio della stanchezza accumulata in tutti i settori della società italiana negli anni passati”, a scrive Ezio Forcella nell’articolo I giovani e la necessità di cose nuove in Il Giorno, 1965.

Il vero e proprio “caso” esplode a Milano, al liceo Parini, poi la contestazione arriva a Roma nel 1966 con l’occupazione dell’ateneo e una reazione violenta da parte del ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, attraverso le cui ordinanze, di fatto, ogni agitazione nelle università veniva viene messa fuori legge: “Le prime elementari richieste di riforma didattica e di partecipazione degli studenti alle decisioni che li riguardavano diventavano rivendicazioni sovversive: procuravano manganellate e denunce, fermi e arresti”, scrive Guido Crainz nel volume Il paese mancato.

Roma, università La Sapienza, 16 marzo 1968, Giorgio Almirante con i neofascisti sulle scale della facoltà di Giurisprudenza

Ma l’Università e il suo ordinamento didattico devono cambiare: basta con le lezioni cattedratiche, sì alla partecipazione degli studenti e ai momenti di confronto, fine del sistema gerarchico dei valori della società del benessere. Così sostiene, nel 1968, Franco Fortini: “Gli studenti parlano dei professori e dicono che bisogna instaurare rapporti fra eguali e non rapporti fra signore e suddito. Se intendono l’abolizione degli strumenti di coercizione e dell’apparato che li accomuna e sostiene, essi pretendono il loro diritto, il comune diritto. Quando dicono che uno dei prolungamenti della toga accademica può oggi essere l’uniforme del questurino dicono la verità. Se dei professori non si dissociano assolutamente e violentemente dal potere burocratico di provveditori e di rettori quando questi fanno intervenire la violenza della polizia per non dover trattare da pari con gli studenti, è giusto che gli studenti li trattino per quel che sono: nemici”. Le occupazioni coinvolgono la maggior parte degli atenei tra l’autunno del 1967 e il 1968, un incendio che, nel vuoto dei valori borghesi effimeri e consumistici, e di fronte a un misto di provincialismo, disciplina autoritaria e morale bacchettona espresso dalle istituzioni, trova un contraltare politico-culturale fatto di ideologie, simboli e riferimenti sociali così connotati e aggreganti da tenere incollati eserciti di giovani pronti a seguirli.

1968,Valle Giulia

È in questo contesto che Pietrangeli scrive una delle prime canzoni che avranno una eco straordinaria, Valle Giulia, una fotografia nitida degli avvenimenti che si susseguono in quegli anni negli atenei italiani. Ispirata ai fatti del 1° marzo 1968, quando scoppia uno scontro tra studenti che occupano la facoltà di Architettura dell’università di Roma, in via di Valle Giulia, e forze dell’ordine. No alla scuola dei padroni! /Via il governo, dimissioni! è lo slogan che riecheggia nel ritornello tra le strofe del testo. Sono i giovani i protagonisti che urlano e protestano, giovani come lo studente universitario Pietrangeli, ed è loro la voce che la canzone diffonde come un megafono, la voce di chi non ha più paura di affrontare lo scontro. Il racconto dei fatti e delle sensazioni, il ricordo di ciò che avvenne in quell’occasione fa della canzone una testimonianza puntuale di un evento inedito, un fatto nuovo, un fatto nuovo che si verifica per la prima volta, ovvero che non siam scappati più, non siam scappati più. È il primo tentativo di contrapposizione diretta tra studenti e polizia. I giovani, che non vogliono subire più, da quel momento avrebbero risposto con la violenza alla violenza. Paolo Pietrangeli la canta con la seconda voce di Giovanna Marini.

Studenti in lotta come la classe operaia all’apice della sua espansione. Una classe operaia che non tarda a raccogliere in maniera energica quell’ansia di protagonismo e di partecipazione che le agitazioni studentesche avevano imposto all’attenzione del Paese.

Nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, per le strade, la contestazione si accende e diventa un fuoco che divora tutto. La canzone, allora, si conquista quella funzione di cronaca cantata, che non ha bisogno del disco per essere diffusa, e neanche dell’artista, della casa discografica e del marketing. Perché la canzone è una cosa di tutti, un bene comune, una voce sola che si leva durante i comizi, negli scontri con le forze dell’ordine, dentro le officine, ai sit-in universitari. Canzoni che nella lotta sanno rappresentare una voce collettiva. Si scopre che la musica popolare per la sua immediatezza e facilità di canto, può essere il mezzo ideale per diffondere i nuovi messaggi. Nascono canzoni proletarie, per il popolo, cantate dalla gente, condivise da una gran massa di persone che ne diventano allo stesso tempo autori, esecutori, produttori, proprietari. Una canzone che il popolo sceglie e fa sua, arrivando addirittura a disconoscerne l’autore. Una canzone educativa che canta valori comuni, un servizio pubblico. Nata fuori dal mercato, per scardinare le regole borghesi del mercato.

Studenti e operai in cerca di una cultura non imposta dall’alto di questa canzone si nutriranno, questa canzone scriveranno, con questa canzone accompagneranno l’escalation al potere del “proletariato studentesco”. In pieno clima rivoluzionario, una in particolare diventa il testimone che giovani, operai, studenti, lavoratori si passano di bocca in bocca nella corsa a ostacoli che è diventata la realtà sociale italiana.

Contessa, scritta da Pietrangeli nel 1966 durante l’occupazione dell’università di Roma seguita all’uccisione dello studente Paolo Rossi da parte di fascisti. Alcune fonti accreditano il fatto che l’autore la scrisse prendendo spunto dalle conversazioni bigotte di una certa borghesia stantia a proposito di quell’occupazione. (Pietrangeli racconta di aver ascoltato alcuni giudizi che ritenne insopportabili, nei confronti degli studenti, quando gli capitò di fermarsi al bar Negresco, a piazza Istria, frequentato da generali in pensione, anziani nostalgici, ex balilla bigotti. Una coppia in particolare, la Contessa e il Generale, sui giovani espresse sgradevoli banalità, tacciandoli come nullafacenti). Ma anche dalla cronaca di uno sciopero avvenuto in una fabbrica di Roma. “Contessa – racconta Pietrangeli a Salvatore Coccoluto nel volume ‘Il tempo della musica ribelle’ – nacque in una notte. C’era stato in quelle settimane un piccolo sciopero a Roma ed avevo letto sul giornale che un padroncino, certo Aldo, aveva chiamato la polizia contro i suoi operai che facevano picchettaggio”. Che lo spunto della canzone sia leggenda o verità, di fatto viene ascoltata una prima volta dai compagni di facoltà, per poi trovare la sua consacrazione a Pisa, quando studenti che l’avevano imparata trasmettendola di bocca in bocca, la intonano durante una manifestazione, e assurgere infine a inno generazionale. Che ha travalicato, poi, le generazioni per diventare una voce di protesta sempre attuale.

Che roba Contessa all’industria di Aldo/han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti/volevano avere i salari aumentati/gridavano, pensi, di essere sfruttati/e quando è arrivata la polizia/quei quattro straccioni han gridato più forte/di sangue han sporcato il cortile e le porte/ chissà quanto tempo ci vorrà per pulire.

Alla voce del borghese che svilisce e ridicolizza la protesta dei lavoratori, ne segue una nuova che si fa ritornello continuamente ripetuto e incita alla presa di coscienza, alla protesta e anche all’azione. Lotta ai padroni contro lo sfruttamento: questo diventa lo slogan, colonna sonora di ogni manifestazione, di ogni picchettaggio, di ogni sciopero.

Compagni dai campi e dalle officine/prendete la falce portate il martello/scendete giù in piazza, picchiate con quello/scendete giù in piazza, affossate il sistema./Voi gente per bene che pace cercate/la pace per far quello che voi volete/ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra/vogliamo vedervi finir sotto terra/ma se questo è il prezzo l’abbiamo pagato/nessuno più al mondo deve essere sfruttato.

L’effetto di questa grande ondata rivoluzionaria, di partecipazione e impegno politico dei giovani fu è anche quello, per un certo tempo, di allontanare grandi masse dalla tv e dagli spettacoli musicali istituzionali.

La gran parte della canzone italiana, infatti, continua imperterrita lungo la strada dell’evasione (un’evasione che ha tutto il sapore di un rifiuto a prendere parte al clima di rivolta e di crescente violenza che sta soffiando sul Paese), evitando così ogni contatto con la realtà per non raccontare storie e fatti di cronaca. Invece Pietrangeli prosegue con le sue canzoni protestatarie. Come Il vestito di Rossini (1966), storia di uno sciopero in cui un operaio veniva accusato dalla polizia per fatti non commessi, cioè di aver colpito alla testa un gendarme con un sampietrino. In quello scontro cinque persone perdevano la vita, mentre il protagonista che difendeva un ragazzo già morto, con quel sasso in mano e il vestito insanguinato, sarà costretto a pagare con la galera una colpa non sua.

Anche Dato che, tratto dai I giorni della Comune di Brecht, rimarca il tema della disuguaglianza che vede contrapposti padroni e servi, proprietari delle fabbriche e operai sfruttati che contestano il meccanismo di potere e obbedienza, alla base di un corrotto sistema sociale.

Questa serie di canzoni varranno a Pietrangeli il riconoscimento di quel variegato gruppo di artisti che, dopo l’esperienza di Cantacronache, prosegue sulla strada del recupero della canzone sociale, popolare e di protesta, ovvero il Nuovo Canzoniere Italiano. Gianni Bosio che, tra il ’67 e il ’68 sta dando vita anche al progetto editoriale la “Linea rossa” assolda autori come Michele Luciano Straniero, Giovanna Marini, Ivan della Mea, a cui si aggiunge Pietrangeli che comincia la sua collaborazione con lo spettacolo “Terra e acqua”, in scena a Venezia.

Nell’esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano Pietrangeli mette in luce ciò che per lui ha significato scrivere e cantare canzoni: non un lavoro per il quale essere pagato, ma un impegno sociale e politico che ha condiviso con i componenti del gruppo. “Eravamo – racconta nel volume Contessa – chi a maggiore e chi a minor titolo, intellettuali che si interessavano delle cose che accadevano e che avevano come comune denominatore: l’urgenza. L’urgenza del racconto, senza alcun altro fine”.

Nel 1971, il primo disco “Mio caro padrone domani ti sparo” per I Dischi del Sole, contiene canzoni di lotta, in parte scritte precedentemente. “Avevo ascoltato i racconti degli anni del fascismo, della guerra, della Resistenza – racconta Pietrangeli –; avevo saputo degli scontri di Porta San Paolo del 1960, dei morti di Reggio Emilia, delle serrate padronali e dei soprusi che subivano i lavoratori (…). Raccontavo storie musicandole perché credevo, credevamo che fosse il modo più semplice e diretto per sensibilizzare e avvicinare la realtà, che ci cadeva addosso, il maggior numero di persone”.

La canzone che dà il titolo all’album è una ballata ironica: una lettera inviata a tutte le fabbriche e a tutti i padroni per avvisare che il giorno ventuno del mese corrente/abbiamo deciso/di farla finita /con lei. Come se ormai non vi fosse più possibilità di dialogo e l’unica soluzione per cambiare le cose fosse ormai quella drastica e definitiva.

Il secondo album “Karlmarxstrasse”, che esce nel 1974 per le Edizioni del Gallo, risente del generale sentimento di sconforto, alla presa di coscienza di un rinnovamento mancato. “L’equivoco fondamentale – scrive Pietrangeli in Contessa – è che noi tutti credevamo che il ’68 fosse l’alba di un nuovo giorno e invece era il tramonto”. È finito il sessantotto – canta Pietrangeli – È finito con un botto/ tutti a casa siam tornati/ Gli ideali ripiegati/ In tasca.

Di questo album è anche Lo stracchino, canzone che affronta l’argomento proibito del sesso. Questo si palesa nella vita del protagonista, in quegli anni di conquista delle libertà, nell’immagine conturbante di una donna osservata da sotto una scala.

 

Con gli anni Settanta il clima di risentimento sociale si appesantisce ulteriormente: le università, come aree di parcheggio per intellettuali disoccupati, la generale sfiducia nel funzionamento del meccanismo economico, le azioni di violenza gratuita come quella a Parco Lambro a Milano dove si tengono le edizioni del Festival del proletariato giovanile, i fatti di violenza inaudita come il massacro delle due ragazze del Circeo, l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, il diffondersi della droga, l’eroina in particolare. Si chiudeva un’epoca vitale e avventurosa: “Gli anni Sessanta dell’idolatria della gioventù – scrive Gabriele Invernizzi –, quando i nuovi modelli di consumo erano quelli giovanili, sono molto lontani. Oggi i giovani sono solo un problema. Un problema che tradotto in cifre tocca gli otto milioni di individui”. I giovani torneranno a mobilitarsi come movimento del ’77, giovani delusi, emarginati, arrabbiati. Il Paese è poi sconquassato da feroci atti di terrorismo, dalla strategia della tensione, dagli anni di piombo, con la destabilizzazione e il disfacimento degli equilibri precostituiti. Con le bombe che esplodono a bordo dei treni e nelle piazze italiane.

Nel frattempo Pietrangeli avvia la sua carriera di regista. Dopo le importanti collaborazioni con Visconti, Fellini e Zurlini, dirige il film Bianco e Nero, una documentazione sulla realtà neofascista che opera sulla scena politica quasi indisturbatamente, realizzato negli anni violenti dello stragismo e delle bombe.

Poi “Porci con le ali” dal libro di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice e “I giorni cantati” (1978), storia di un musicista ex sessantottino che vive il fallimento di una vita fondata su ideali considerati superati e incomprensibili alle nuove generazioni.

Una scena del film in cui Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Alberto Ciarchi, Paolo Ciarchi, Donatella Di Nola cantano O Gorizia, tu sei maledetta.

Tornando alla musica, “I cavalli di Troia”, album del 1975, e i successivi “Lo sconforto” (1976) e “Cascami” (1979), scritti nel pieno degli anni del terrorismo, raccontano il disagio del cambiamento tanto cercato e mai realizzato, l’avvilimento e la disillusione. La canzone popolare e di protesta continua ad avere un suo pubblico, nelle piazze, nei Festival (poi diventati feste) de l’Unità, nei circoli Arci. Ma ancora per poco. La nuova canzone italiana apre spazi a un pubblico sempre più ampio, nei palazzetti, nei teatri, negli stadi, dove giovani cantautori ottengono successi e riconoscimenti: De Gregori, Dalla, Venditti, Guccini. Più nessuna opportunità per questi cantori, troppo ruspanti, troppo militanti, troppo eversivi.

Tra gli ultimi album, “Le olive quelle che dà il bar” (1981) e “Tarzan e le sirene” (1988) esprimono il disagio del nuovo decennio, i fatui anni Ottanta. Album dei rimpianti, ricordi e solitudine, sentimenti che si colgono in canzoni come Io ti voglio bene

e Sirene.

Nascono ancora canzoni dettate dall’attualità, come 23 Novembre 1980, sul terremoto in Irpinia e il disastroso ritardo dei soccorsi.

Seguono “Noi, ragazzi del coro” (1990), “Un animale per compagno” (1996) e dopo altre produzioni “Carmela, con affetto”, in cui si racconta dell’omicidio si una persona transessuale. Intero album:

“Paolo&Rita” (2015) registrato con la pianista jazz Rita Marcotulli, è il disco del disincanto, del racconto ironico e allo stesso tempo arrabbiato della storia italiana recente. La storia di una generazione che ha conosciuto il fallimento. Intero album:

Ma che con Pietrangeli non ha smesso di guardare avanti:

Tornerà a soffiare il vento è questione di minuti/ che scompiglierà gli appunti tanti fogli mai finiti /Soffia e ci riporta indietro le risposte alle domande /Quanti anni una montagna regge l’urto delle onde.

E che affronta temi più intimi e anche attuali, come le difficoltà nei rapporti tra uomo e donna. Inciso solo su vinile, “Amore, amore, amore un ….”, uscito nel dicembre 2020, è una riproposta di brani di vecchi album e di tracce nuove, un racconto delle tante declinazioni che la parola amore oggi presenta. Come quella di sentimento malato che sconfina nella violenza domestica in Amore Coniugale, dall’album “C’è poco da ridere” del 2001.

O della superficialità con cui si usa la parola amore, spesso ridotta ad abbreviazioni dialettali, vezzeggiativi sdolcinati che – dice ha detto Pietrangeli in una recente intervista sul magazine Blogfoolk –: “fanno sembrare gli adulti dei cretini, eppure siamo capaci delle peggiori nefandezze”. Invece “l’amore – dice nel documentario ‘Bella Ciao – Song of Rebellion’ – è un atto di sofferenza, è una ferita, è una cosa che ti tiene in vita, è una cosa per cui devi lottare, non è il qualunquismo degli affetti di oggi”. Intero album.

Nell’intervista rilasciata nel maggio 2021 agli autori del documentario ‘Bella Ciao – Song of Rebellion’ (co-prodotto da Ala Bianca con Millstream film and media), si percepisce l’umanità di un artista e intellettuale che ha attraversato gli anni più intensi del canto politico e che ha vissuto con passione quell’esperienza collettiva: gli incontri con i protagonisti, la condivisione di un mondo di valori, l’importanza della canzone per la sua funzione sociale. Quelle persone, come Giovanna Daffini, Ivan della Mea, – dice –  avevano “dentro una luce che non si trova tanto facilmente, una voglia di cambiare le cose che non si trova tanto facilmente, al di là delle posizioni politiche; era la curiosità per il cambiamento”. Lo stesso cambiamento che anche Paolo Pietrangeli con le sue canzoni ha perseguito, mosso dall’idea di dare al mondo un futuro migliore.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli