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Io sono nato folkloristico, morirò con la canzone di folklore. Matteo Salvatore

 

Matteo Salvatore, una vita in chiaroscuro. Una luminosa carriera di “cantore della rassegnazione”, voce narrante dei più sottomessi, i lavoratori sfruttati della sua terra, la Puglia, una Puglia ancora sconosciuta, segnata da forti contraddizioni economiche, priva della presenza dello Stato. Ma anche vittima di se stesso, al punto di condurre nel buio più cieco quella carriera splendente, spenta per diverso tempo dall’accusa di omicidio della sua collaboratrice e amante, Adriana Fascetti, in arte Doriani. Dal processo con condanna di colpevolezza e dagli anni della galera.

Una storia crudele che ha tolto la vita a una giovane donna colta e appassionata e ha adombrato per lungo tempo il percorso di un grande artista. Che, scontata la sua pena, è rimasto e rimarrà per sempre il poeta contadino, la voce degli sconfitti, degli sfruttati, degli ultimi.

Un’esistenza cresciuta nella miseria più nera, nel comune di Apricena in provincia di Foggia, dove Matteo Salvatore è nato nel 1925. Terra di braccianti sfruttati da un’agricoltura povera e massacrante. Terra di pietra calcarea e di infiniti tormenti.

Nasce in una baracca, dove in una stessa stanza di mangia, si dorme, si va al gabinetto. Una tenda a dividere lo spazio dei genitori da quello dei figli, sette. Tutti analfabeti, solo Michele il primogenito, arriva alla terza elementare, gli altri si fermano alla prima.

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“Il novanta per cento degli abitanti di Apricena era analfabeta perché si dovevano pagare cinque lire per iscriversi a scuola – racconta Matteo in un’intervista –. E allora passavo le giornate pensando unicamente a cosa mettere sotto i denti” [De Pascale, G. “Nel canto di Matteo il riscatto dei poveri”, l’Unità, 2/11/1995].

Si cammina scalzi, per casa, per le strade. Soldi non ce ne sono per mangiare, figurarsi per un paio di scarpe. La sorellina Maria è la vittima più disgraziata di quel degrado. Muore per denutrizione, forse a quattro anni, forse a quattordici, i ricordi di Matteo sono confusi. Certo è che non bastano per tutti quei pochi tozzi di pane ricavati per lo più dall’accattonaggio.

“Per noi e per tutto il Mezzogiorno era come in Nigeria. Eravamo quasi tutti scheletri…non avevamo nulla da fare e con i miei coetanei giocavamo in piazza […]. Giocavamo per ingannare il vuoto dello stomaco” [Matteo Salvatore, “La luna aggira il mondo e voi dormite”, Stampa Alternativa, 2002, p. 8].

Il padre, Lazzaro, quando lavora, trova impieghi saltuari in campagna come bracciante, o come facchino alla stazione di San Severo. È probabilmente il primo, in famiglia, a interessarsi di musica, oltre che di politica. “Anche lui, papà, ha fatto delle canzoni – racconta Matteo –. In carcere, perché lui l’hanno arrestato diverse volte per politica […]. Era comunista” [Lopez, B. “Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie”, Reggio Emilia, Aliberti, 2018, p. 18].

Giuseppe Di Vittorio, antifascista, condannato dal tribunale speciale a 12 anni di carcere, costretto all’esilio in Francia, dove nel 1941 venne arrestato dai tedeschi, rimpatriato e confinato a Ventotene, poi combattente nelle Brigate Garibaldi, nel 1945 sarà eletto segretario generale Cgil

Il canto Evviva la Repubblica e la canzonetta Hitler e Mussolini, poi riprese da Matteo, sono opera del padre, dettate in carcere a un altro detenuto che le ha messe per iscritto. Di Lazzaro si narra anche del leggendario incontro, al carcere di Lucera, con colui che diventerà il più grande dirigente sindacale italiano, Giuseppe di Vittorio. Nativo di Cerignola, autodidatta, nato povero, si batterà per i diritti dei lavoratori sfruttati. Gli ultimi, condannati dalla miseria e dall’ignoranza.

Matteo come il padre si arrabatta. Al paese la gente lo ricorda come: “Servitorello di cantina, veditore di paruzzelle (panini di granturco), pastore, manovale di pietraia, bracciante, facchino, banditore” [Lopez, B. p. 19].

Troppa fame per poche lire. Ma una certa spensieratezza, ancora bambino, gli rende la vita più sopportabile. Insieme a qualche colpo di fortuna, come l’incontro con l’ultraottantenne Vincenzo Pizzìcoli, portatore di serenate, suonatore di violino, mandolino e chitarra. Cieco e con una memoria prodigiosa, ammucchia nella testa un’infinità di canti imparati da giovane ed eseguiti nelle cerimonie di famiglia, nelle feste di paese. Su commissione, sotto le finestre degli innamorati.

Insegnerà a Matteo quei canti – ben centocinquanta, dirà lui, di tradizione napoletana per lo più – e ad accompagnarli con la chitarra. Ecco che per Matteo la musica può rappresentare una via di fuga dalla miseria. Ma la sua vita è un susseguirsi di fortune e di batoste e appena sposato, a diciannove anni, per esempio, è subito vedovo. La giovane moglie Antonietta muore per un tumore all’utero dopo pochi mesi dal matrimonio.

Poi, a due anni di solitudine segue un trasferimento a Benevento per un lavoro come facchino e l’incontro con Ida Signorello che sarà sua moglie per tutta la vita e madre di quattro figli. Sempre nel degrado e nella speranza di un lavoro, emigrare a Roma sembra l’unica possibilità. Matteo che dorme in un pagliaio in campagna attorno alla città, qualche soldo lo guadagna suonando e cantando nelle trattorie. Canzoni napoletane per lo più. Le sue, in dialetto pugliese, chi le capirebbe?

Invece, un giorno, alla trattoria “Giggetto er Pescatore”, il grande registra Giuseppe De Santis lo incoraggia a esibirsi con le canzoni della sua terra. Deve girare due film e cerca materiali originali. Gli dà in mano un Geloso, ventimila lire e lo incarica di registrare i canti popolari della Puglia.

Matteo, che con i primi soldi aveva acquistato una baracca a via Prato della Rondinella e vi aveva ricomposto la famiglia, se ne parte verso sud. Gira la Puglia in lungo e in largo ma, nonostante la regione sia ricchissima di tradizioni musicali, tornerà a Roma senza aver trovato nulla.

Disperato, chiuso nella sua baracca con il registratore in mano e i ricordi dell’infanzia, comporrà le sue prime quattro ballate: La storia dell’emigrazione, La trota e lu traino, Prima seconda terza qualità (Pasta nera) e Signele. Di fronte a De Santis le spaccerà per autentici canti popolari. Lui ne farà uso per la colonna sonora di “Uomini e lupi”.

La storia dell’emigrazione è la vicenda di chi, come lui, parte e chissà se un giorno ritornerà.

Con il dolore a ogni passo: “Gente del paese statevene buoni e qualche volta palate di me. Io me ne vado lontano”.

Presto gira voce di questo cantastorie pugliese che si esibisce nelle trattorie e lavora per il grande maestro del neorealismo. Ora, nel 1955, grazie al nuovo incontro fortunato con il “reuccio” Claudio Villa sta anche incidendo i suoi primi dischi per la Vis Radio. 78 giri che contengono già un vasto repertorio e che gli fanno guadagnare bei soldi. Oltre a una notevole fama: alla Rai viene invitato alla trasmissione radiofonica “Piccolo paese”. Seguiranno altri programmi e numerose incisioni anche per la Fonit. Un repertorio formidabile, tra l’allegro e il tragico con prevalenza, dal principio, di brani leggeri, scanzonati, a volte anche dal doppio senso. Come La bicicletta

e Lu limone.

“Nella Roma degli anni 50 preferivo cantare nelle osterie canzoni allegre, canzoni piene di doppisensi. Lo facevo perché in Italia c’era già troppa tristezza”. Franco Antonicelli è tra i primi a richiamare Matteo alla sua vera missione. Quella di intonare “i canti dei lavoratori che scendono a spigolare nel Tavoliere, la nenia del mendicante, il ricordo del giorno dei morti (i suoi spirituals), la gentilissima serenata Capelli neri, e soprattutto Filumena, Teresa, O furastiero, il doloroso Padrone mio, ti voglio arricchire, e i canti religiosi e processionali di S. Michele del Gargano, di S. Lazzaro, di S. Luca, di S. Nicola, della Madonna dell’Incoronata e la patetica melopea del Giovedì Santo” [Lopez, B. p. 28]. Essere insomma cantore pubblico, la voce e la memoria di un popolo.

Si susseguono i concerti in giro per la Puglia, alle Feste dell’Unità, Matteo avvia una carriera da professionista.

E comincia anche la storia più tragica della sua vita. L’incontro con una giovane donna istruita e colta che diventerà la sua corista, manager, guida, amante e ossessione. Adriana Fascetti, in arte Doriani, nel 1958, ascolta per la prima volta il giovane trentenne Matteo Salvatore e ne resta colpita. Sarà l’inizio di un sodalizio professionale e sentimentale che la porterà, nel 1973, a una fine drammatica.

Con Adriana, che gli insegna a scrivere il suo nome, Matteo diventa semianalfabeta. È il momento della rinascita del folk, della riscoperta del patrimonio dei canti popolari. Studiosi e intellettuali danno il via alle indagini sul campo, le riflessioni critiche, le raccolte.

Così, incarnando il folklore pugliese, in molti lo invitano a esibirsi nei salotti importanti. “Stavo con Adriana che imparò alla perfezione il dialetto e il controcanto delle mie ballate […] Corgnati (il regista Maurizio Corgnati, ndr) mi portò alla villa della contessa Camerana. Lì stavano il senatore Franco Antonicelli, lo scrittore Italo Calvino […], la Torino bene […]. Cominciai a cantare, ma non dicevo che le ballate erano mie, dicevo che erano popolari per far bella figura” [Lopez, B. p. 33]. Matteo ha sempre giocato su questa ambiguità.

Solo più tardi ammetterà che quelle canzoni erano frutto del suo lavoro – così anche da ricavarne i diritti d’autore SIAE – derivate dall’ascolto, dal ricordo e della rielaborazione di materiale originale. Rimaneggiato probabilmente, a sua volta, dall’anziano Pizzìcoli.

Dopo una vincita importante al totocalcio Matteo riunisce la famiglia, la moglie Ida e i figli in una vera casa. Prima a Milano e poi a Gorgonzola. Con loro vive anche Adriana, spesso impegnata nelle tante pratiche quotidiane per cui è necessario saper leggere e scrivere.

Matteo è molto richiesto. Torna dalle diverse tournée in America e in Canada carico di soldi. Lui che non aveva una lira per un tozzo di pane. Le serate e gli impegni professionali lo richiamano a Roma dove si trasferisce con Adriana, abbandonando quasi del tutto la famiglia.

I concerti al Folkstudio sono memorabili: “Matteo cantava e ci faceva conoscere non solo il suo paese, ma la storia, cantava la prima e la seconda guerra mondiale, cantava e raccontava gli usi del suo paese […], sempre i suoi versi erano di grande qualità – racconta Giovanna Marini – […]. Immagini, ricordi, racconti dell’Italia contadina. Senza una morale finale, senza commenti, nessun noioso fine didascalico, ma sempre una grande poesia” [Giovanna Marini, “Matteo Salvatore, cantore del Sud. Era l’ultimo grande poeta folk”, la Repubblica, 28 agosto 2005].

Tra il 1966 e il 1973 Matteo realizza gli album che lo innalzano a grande poeta e cantastorie della cultura popolare. Sono il 33 giri “Il lamento dei mendicanti” e i quattro album raccolti nel cofanetto “Le quattro stagioni del Gargano”.

Il 33 giri è registrato a Milano nel 1966 per i Dischi del Sole e contiene canzoni capolavoro sulla condizione di lavoro dei braccianti: Padrone mio, ti voglio arricchire, Lu furastiero dorme la notte sull’aia e Lu polverone. Ci sono anche cronache paesane come Il pescivendolo; canti devozionali come Il giorno dei morti e San Michele del Monte e alcuni dei canti attribuiti al padre come Evviva la Repubblica. L’album si caratterizza, infatti, per lo spirito antifascista, una visione politica militante sui temi storici e sociali.

Padrone mio è probabilmente l’unico esempio di canto antiprotestatario, non rivoluzionario e di ribellione, nella totalità della produzione folk. È invece un canto di rassegnazione, in cui non c’è lotta per l’affermazione di diritti, ancora sconosciuti, ma un ripiegarsi servile alle volontà del padrone.

Padrone mio, ti voglio arricchire,/padrone mio, ti voglio arricchire,/come un cane voglio lavorare,/come un cane voglio lavorare./E quando sbaglio, dammi le botte/e quando sbaglio, dammi le botte/voglio la morte, non mi cacciare,/voglio la morte, non mi cacciare.

“Io non faccio canzoni di protesta – dice infatti Matteo –. Faccio canzoni di rassegnazione”. Questo perché la povera gente del latifondo meridionale di cui canta neanche conosce la parola ribellione. E il canto di Matteo, in falsetto e sottovoce, è quello di chi nelle campagne deve cantare di nascosto perché non sembri al sovrastante che chi canta si diverta [Luca Valtorta, “La mia vita tra Polvere e Ombra”, www.repubblica.it, 3 luglio 2016].

In Lu furastiero invece viene evocato il sentimento della solidarietà di classe. La canzone racconta degli stagionali che scendono dalle montagne e vagano per il Gargano alla ricerca di un lavoro, impiegandosi nella massacrante raccolta dei pomodori. I lavoratori del posto li guardano in cagnesco perché quei forestieri fanno concorrenza sleale, accontentandosi di salari più bassi. Ma nella notte, tutti quanti dormono sotto lo stesso cielo, tutti hanno figli e famiglie da sfamare e allora a nulla serve la rabbia e la competizione, ma la compassione per il prossimo, forse ancor più sventurato. Questo sentimento quasi di misericordia è evocato dalla struggente melodia e dal canto di Matteo, che declama i testi come una salmodia, come a recitare un testo sacro.

“Tra forestieri e noi si formava tutta una famiglia – racconta Matteo –. Il padrone approfittava di questa situazione, di questa concorrenza spietata. Però noi nella nostra miseria, nella nostra ignoranza ci ’bbracciavamo tutti quanti” [Lopez, B. p. 63].

Il lamento dei mendicanti che dà il titolo all’album è uno dei brani più enigmatici e sbalorditivi di Matteo, un inquietante grido trattenuto, sulle note blues. “Sembra arrivare a noi dalle viscere del passato, come relitto di un mondo di fame e di abiezione altrimenti cancellato dalla storia” [Lopez, B. p. 223]. Un reperto archeologico, indizio di un mondo dimenticato o forse cancellato dalla storia ufficiale per la vergognosa miseria che racconta. Di accattonaggio, di pezzenti, di ricchi che si fanno pregare per una misera elemosina, di figli che muoiono di fame.

Nel 1973 l’etichetta discografica Amico pubblica un cofanetto con quattro LP, una prestigiosa raccolta dell’intera produzione di Matteo, che intitola “Le quattro stagioni del Gargano”. Vi sono presenti tutti i temi affrontati, nelle varie sfumature del corposo repertorio: la fame, la povertà, lo sfruttamento nelle campagne, il lavoro dei braccianti, le donne, la religione, l’amore, i proverbi e i modi di dire, l’emigrazione, la rassegnazione della povera gente, i soprusi e le violenze dei potenti. Niente più doppi sensi e neppure l’antifascismo e la militanza politica.

Emerge, invece, il tema della condanna alle vessazioni e alle ingiustizie, patite dai poveri contadini che sono stati sfruttati. Come lui, come racconta nel recitato de Lu soprastante: “Gente, io ci sono stato nei campi di grano a mietere sotto lo sguardo vigile del sorvegliante, sotto il sole cocente, curvo dall’alba al tramonto e lì a due passi la fiasca dell’acqua fresca sotto i covoni e non potermi dissetare. No, qui non si può bere, non si può parlare, si deve solo lavorare, chi non lo farà verrà licenziato. Credetemi, io ci sono stato”.

La canzone ha un’impennata che sfocia in un ribellismo sanguinario: Arriverà il giorno in cui i disperati sfruttati mangeranno il “porco”, il sovrastante crudele, ucciso finalmente e condannato per sempre.

Dalla trasmissione Rai “Incontro con…” del 1970.

E poi il racconto così realistico della vita delle donne del sud, eternamente sottomesse a padri e padroni.

La ballata di Teresina è lo spaccato della condizione tragica che tocca a una donna sola. Teresina è una contadina che, morta di fame, viene sorpresa a raccogliere nel campo del padrone. Questi ordina al guardiano di impiccarla e poi di darla in pasto ai cani. Il duro sorvegliante esegue, ma non regge a quella ferocia: dopo aver ucciso Teresina si toglierà la vita.

La giovane di Tuppe tuppe a llu pòrtóna, invece, si suicida buttandosi dal balcone per non subire l’abuso del padrone.

In San Luca una madre chiede al santo la grazia di un marito per la figlia. Questa si vedrà costretta a percorrere scalza un sentiero di montagna per poi trovare ad attenderla, alla fine del viaggio, un vecchio sdentato.

La carriera di Matteo, tra le registrazioni è puntellata da incontri fondamentali: Renzo Arbore, il direttore d’orchestra Franco Potenza che lo invitano, insieme ad Adriana, a trasmissioni televisive e radiofoniche. Nel 1972 partecipa a importanti programmi televisivi Rai come “Storie dell’emigrazione”, “La notte è bella” e “Adesso musica. Alla ricerca della canzone folk” .

Eugenio Bennato e Concetta Barra sono da subito suoi estimatori. Mentre la critica, che sottolinea la formidabile intensità del suo repertorio, lo paragona a grandi miti americani come Woody Guthrie o Bob Dylan.

Adriana Doriani e Matteo Salvatore, foto Fondo Verri

È in questo periodo che la relazione con Adriana comincia ad andare in frantumi. Una storia che aveva retto per tredici o quattordici anni adesso arrivava al capolinea. Lui, analfabeta, instabile, perennemente bisognoso di aiuto; lei, acculturata, sensibile, appassionata e con la vocazione all’altruismo erano una coppia complementare. Ma un’escalation di gelosia, di perversa ossessione e amore malato, come dimostrato dalle indagini degli inquirenti e dal processo – recentemente ricostruiti da Beppe Lopez –, porterà Matteo a essere artefice dell’uccisione di Adriana, per strozzamento, nella stanza n. 60 dell’Hotel Titano di San Marino, il 26 agosto 1973. La sentenza, emessa dal giudice di primo grado per le cause penali di San Marino, dichiarerà Matteo Salvatore “colpevole del misfatto di omicidio volontario in persona di Fascetti Adriana”. Gli verrà riconosciuta una semicapacità di volere e dunque condannato a sette anni di carcere [Lopez, B. p. 150]. Qualche tempo dopo verrà accolta la domanda di liberazione condizionale e, costretto al carcere dall’agosto 1973, ne uscirà nell’agosto 1977. Nessun successivo processo verrà mai aperto a revisione del caso.

Dopo la scarcerazione comincia l’ultima fase della vita di Matteo caratterizzata da una lenta ripresa delle attività musicali, una nuova fama, fino a un tramonto sempre più solitario della carriera e di un’esistenza vissuta all’estremo. La sua figura si ergerà a modello leggendario di artista popolare autentico, benedetto dai grandi nomi della critica, degli intellettuali, degli appassionati di musica folk, dei tanti artisti che lo scoprono e celebrano. Da Enzo Gragnaniello, a Daniele Sepe, Teresa De Sio, Eugenio Bennato e Peppe Barra, Vinicio Capossela, Moni Ovadia, Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, Lucio Dalla.

Ricomincia a cantare nei paesi del Gargano o a Foggia, tornando a Roma in inverno. Di nuovo squattrinato. Ma ancora accende di entusiasmo chi corre ad ascoltarlo. Una sera, nel 1978, a Bari, un giovane ricercatore lo registra in una delle canzoni d’amore più belle, Lu bene mio.

Otello Profazio che lo ha sempre sostenuto, lo invita alla trasmissione Rai, “Quando la gente canta”. Su Rai Due partecipa a “L’altra domenica”, programma di Renzo Arbore. Sale sul palcoscenico della quinta edizione del Premio Tenco e interpreta Lu furastiero. La Fonit Cetra pubblica un doppio album dal titolo Matteo Salvatore (1979). “Ventidue i brani che raccontano storie di fame e di polvere, di sole e di morte, brandelli di vita di ieri e di oggi cantati con grande e istintiva musicalità che fa ritenere Matteo Salvatore forse il più grande interprete di musica popolare che abbiamo in Italia”, è scritto nella presentazione.

Nel 1979 su Rai Uno comincia la trasmissione “La luna aggira il mondo e voi dormite”, con storie di vita meridionale cantate da diverse voci del sud, tra cui Matteo. La sua popolarità è in risalita e poco dopo Radio Uno trasmette lo speciale “Incontro con Matteo Salvatore e Joan Baez (link Patria)”.

Gli anni Ottanta spengono i riflettori sulla musica folk, che perde spazi di diffusione: fisici, televisivi, radiofonici. Come unico luogo rimane per qualche tempo Radio Uno che presso la sede regionale di Potenza realizza il programma “Tra la gente” (1981) su cantastorie e ricercatori popolari. La voce di Matteo non manca.

Calcherà ancora qualche palcoscenico, ma ai margini dello spettacolo. Sono rimasti in pochi quelli come lui che cantano in dialetto e scrivono ballate su un’antica terra desolata, povera e contadina.

La giovane filmaker francese Anne Alix restituisce l’immagine dell’ultimo Matteo Salvatore, riprendendolo nell’ intervista documentario dal titolo “Il Cantastorie”: un uomo di settant’anni stanco e malato, rassegnato e provato dalla vita ma consapevole della grande ammirazione che la sua arte ha suscitato. Verrà proiettato nel 1996 al Festival Arcipelago-Osservatorio sul cinema italiano a Roma.

Negli anni Novanta, i grandi artisti che riscoprono l’opera di Matteo contribuiscono a risvegliare l’attenzione di pubblico, critica e addetti ai lavori. Il folk torna a rappresentare una generazione di giovani che scende nelle piazze a protestare. Nel 1995 un grande concerto ad Apricena lo celebra come la più grande voce della tradizione pugliese, mentre la Bravo Records ripubblica il cd “Il lamento dei mendicanti”, dopo quello francese “Chants de Mendiants” di Harmonia Mundi del 1974. Matteo Salvatore è uno dei pochi folksinger che vanta una diffusione discografica europea.

Ma questa stagione di rinascita dura poco. Agli inizi del Duemila appare definitivamente dimenticato, scomparso dalle scene locali e nazionali. Tra gli ultimi sodalizi importati c’è quello con Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti che lo coinvolgono nello spettacolo “Craj” (“domani”, nel dialetto pugliese), una riproposta dell’antico mondo popolare rivisitato in chiave moderna.

“Non so se Matteo sapesse di essere un grande – racconta la De Sio dopo l’incontro –. Forse aveva accolto questo suo destino eccentrico di cantastorie maledetto, come un pescatore che si rassegna alla mareggiata” [Chiara Affronte, “Un gran bel viaggio in Puglia, con il circo di De Sio e Ferretti”, l’Unità, 8 aprile 2004].

Apricena, la tomba di Matteo Salvatore

L’ultima esibizione, nel 2005, è al “Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana”, dove riceve il premio alla carriera. Matteo muore poco dopo, malato, povero e solo, il 27 agosto 2005 nella sua misera abitazione di Foggia.

Di Matteo Salvatore si è detto e scritto tanto, con l’intento di trovarne una giusta collocazione artistica.

Raccoglitore di canti preesistenti o creatore di canti originali? Sono esistiti davvero quei centocinquanta canti imparati nell’infanzia da Pizzìcoli? In molti hanno ragionato sul repertorio per comprenderne la genesi. Una possibile conclusione è che Matteo sia “figura rara e straordinaria, a metà strada fra il portatore di tradizione orale, il cantastorie e il cantautore, (il cui repertorio è fatto di, ndr) antichi canti popolari appresi al suo paese, trasformati, levigati e stilizzati grazie a una non comune sensibilità”. Così, secondo il suo ultimo agente Angelo Cavallo [Lopez, B. p. 204]. A metà strada, dunque, tra tradizione orale e invenzione letteraria.

Stesso risultato a cui giunge la ricercatrice di canti pugliesi Maria Moramarco, secondo cui il repertorio di Matteo nasce dai canti popolari del Gargano. Tra questi la Moramarco riconosce La via d’la funtanella,

Io vado all’aia,

Francische a lu paiese.

Giovanna Marini lo definisce cantautore naïf, inconsapevole della bellezza dei canti che scriveva e cantava; e profeta, ovvero colui che parlava per il suo popolo, quello dei braccianti, dei diseredati, gli ultimi al mondo. Rappresentante della viva tradizione popolare.

Figura contraddittoria, capace di simulare e alternare comportamenti estremi, come di riferire in vario modo sulla natura del suo repertorio, questo nulla toglie, alla smisurata preziosità del suo contributo alla storia della canzone italiana. Per la forza dei canti che hanno fotografato la realtà di quel meridione rurale e affranto in cui è cresciuto e a cui ha dato voce; per la vicenda umana e artistica di un uomo nato povero, ignorante e analfabeta divenuto poeta dialettale di impressionante talento.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli