Robert Johnson, ritratto in studio nel 1936, in una delle sole tre fotografie verificate

Seppellisci pure il mio corpo
là sull’orlo dell’autostrada
Così che il mio spiritaccio maligno
si prenda un bus Greyhound e si faccia un viaggio
Me and the devil blues

Robert Johnson, il re del Delta blues, colui che ha ispirato generazioni di musicisti, è una delle figure più misteriose e sfuggenti che mai abbiano lasciato traccia nel mondo della musica. La sua biografia è una matassa di punti interrogativi, di vuoti, di aneddoti, forse veri, forse falsi.

“Il Delta del Mississippi è stato praticamente rivoltato da cima a fondo – scrive Tom Graves nel volume Robert Johnson. Crossroads – alla ricerca di qualche documento su Robert Johnson. Finora di lui abbiamo solo le firme sulla pubblicazione di matrimonio, due foto, un certificato di morte, un biglietto d’addio decisamente controverso, qualche documento scolastico sparso e alcune testimonianze orali contraddittorie. Nient’altro.”

Sono noti il giorno e l’anno in cui è morto, il 16 agosto 1938, all’età di ventisette o ventotto anni. A Greenwood. Incerta, invece, la data di nascita, non esistendo un certificato. Le pratiche anagrafiche divennero obbligatorie nel 1912, e questa evidenza, oltre ad altre informazioni, ha portato gli storici a concordare sull’anno 1911, l’8 di maggio. Il dove è Hazlehurst, nel Mississippi.

Robert Johnson e la sua chitarra

Certa è invece la qualità delle incisioni che lo hanno reso immortale. Nonostante la breve vita e un’esistenza ai margini. Si tratta di cinquantanove brani registrati nel Texas tra il 1936 e il 1937, quarantadue dei quali oggi disponibili e giunti fino a noi.

Si sa, inoltre, che nacque da una relazione extraconiugale. La madre Julia Majors Dodds, aveva già messo al mondo dieci figli prima di lui. Sposata a un costruttore di mobili e proprietario terriero, Charles Dodds, con la famiglia viveva in una condizione di agiatezza. Ma questo equilibrio si ruppe presto.

Per una serie di attriti con alcuni latifondisti confinanti che lo minacciavano di linciaggio, Charles dovette abbandonare la cittadina e riparare a Memphis, dove cambiò cognome, divenendo Charles Dodds Spencer. Per ripristinare il nucleo famigliare, poco dopo Julia cominciò a trasferire i figli uno alla volta presso la residenza del padre. Nel periodo di separazione dal marito, però, conobbe Noah Johnson, un bracciante con il quale ebbe una storia. Da questa relazione nacque Robert. La notizia non sconvolse Charles più di tanto, che anzi, prese con sé il piccolo. Nel frattempo anche lui aveva avuto una amante e per qualche tempo il trio tentò di coabitare. Alla fine, però, Julia preferì mollare tutto, marito e figlio, andandosene via.

Un diddley bow

Robert rimase con Charles. Dal fratellastro maggiore, Charles Leroy, acquisì i rudimenti della chitarra, entrando così in contatto con la musica. Imparò inoltre a suonare lo scacciapensieri e il diddley bow. Strumento fatto in casa, quest’ultimo, bastava un filo tolto da una scopa e fissato da due chiodi a distanza di mezzo metro, per creare una vibrazione. Usato da molti bambini afroamericani in tutta la zona del Delta, funzionava pizzicando la corda oppure facendovi scivolare bottiglie, bastoni, oggetti disparati che creassero suoni di diversa altezza. Robert suonava anche l’armonica, tipico strumento dello stile Delta blues.

Dal 1914 al 1918 Robert visse con il patrigno, mentre la madre si trasferì a Robinsonville, nel Mississippi e si risposò con il bracciante Willie Dusty Willis. Non la rivide per molto tempo, fino a un incontro fortuito avvenuto a Memphis. Fu a quel punto che Julia decise di riprendersi il figlio. Ma questa non fu una scelta felice.

Di punto in bianco l’infanzia di Robert si tramutò in un inferno. Quello delle immense piantagioni di cotone del Delta del Mississippi, nella Grande depressione degli anni Trenta. Gli fu chiara l’appartenenza alla schiera dei discendenti degli schiavi tradotti dall’Africa, da sempre sfruttati nel lavoro dei campi. Con il patrigno, poi, entrò presto in rotta di collisione. Severo lavoratore dei campi, Willis mal sopportava l’indolenza di Robert, già devoto a un’idea di vita libera e senza padroni. Pronto a fuggire dalla fatica opprimente di quei campi di cotone.

Inizialmente mediante qualche distrazione. Le baracche a schiera, i juke joint, attorno ai campi raccoglievano cumuli di braccianti-schiavi sfiniti dal lavoro quotidiano, pronti a riprendersi un briciolo di spirito vitale con il gioco d’azzardo, i balli, la musica, l’alcol. Che alterava le coscienze ed era spesso causa di risse, liti per gelosia, lanci di bottiglie, pistolettate, ossa rotte. Omicidi.

La musica più in voga tra gli afroamericani dei juke joint era il blues. Si attribuisce al direttore d’orchestra afroamericano W.C. Handy la nascita di questo genere musicale, dalla prima esecuzione, nel 1914, di Saint Louis Blues.

Ma nonostante fosse un direttore d’orchestra, compositore e strumentista, l’ispirazione a scrivere i suoi primi pezzi blues gli venne da un nero, un uomo seduto al ciglio di una strada che strimpellava la chitarra. Vestito di stracci, le scarpe sfondate.

“Suonava tenendo una lama di coltello premuta sulle corde della chitarra – racconta nell’autobiografia Father of the blues – nella maniera resa popolare dai chitarristi hawaiani che usano le barrette d’acciaio. L’effetto fu indimenticabile, e anche la sua canzone mi colpì subito. Quella melodia mi rimase in testa”. Yellow dog blues, ispirata a quel ricordo, diventò un altro grande successo.

Poi saranno le donne a dare nuova linfa al blues. Bessie Smith. Faceva impazzire il pubblico con le sue movenze provocanti, le canzoni con i doppi sensi, il languido stile jazz di New Orleans. Insieme a Ethel Waters, Alberta Hunter, per le artiste afroamericane capaci di intrattenere, cantando e ballando, si apriva la possibilità di fare della musica una professione.

Il blues circolava in tutto il profondo Sud, suonata da una chitarra acustica, oppure con accompagnamento pianistico. In alcune parti degli Stati Uniti, poi, anche i bianchi si erano lasciati conquistare da questa musica, suonata alla radio o dai giradischi nelle loro abitazioni. La musica era forse l’unica alternativa per abbandonare la miseria dei campi di cotone, per raggiungere fama e successo economico. Ciò che, però, non capitò a Robert, morto senza avere il tempo di conoscere l’impatto che le sue canzoni avrebbero avuto negli anni a venire.

A Robinsonville risiedeva l’immensa piantagione Laetherman che offriva lavoro a una nutrita comunità. Non solo i raccolti di cotone impegnavano i braccianti, ma anche la produzione e la vendita del moonshine, ovvero il whisky di mais illegale. Che scorreva a fiumi nei juke joint della zona. Quello di bassa qualità poteva anche essere mortale.

Luoghi interdetti al giovane Robert, i juke joint, proibiti dal patrigno che così puniva il ragazzo e il suo rifiuto di lavorare nelle piantagioni. Ma ben altre prove, ancor più dure, lo attendevano.

La svolta nella sua vita, già burrascosa, avvenne in seguito a un evento tragico. Nel 1930 la giovanissima Virginia Travis, che aveva appena sposato, morì di parto insieme al bambino. Da questo momento Robert troncò con ogni forma di adattamento sociale. Abbandonò la famiglia e si dette al vagabondaggio. Trascorreva i giorni allo sbando, passando da una relazione sentimentale all’altra, da un bicchiere di whisky a uno di moonshine, con la musica come sola forma di resistenza alla disfatta.

(immagine di sintesi)

Come musicista blues, raggranellava qualche dollaro esibendosi nei ristoranti, nelle sale da ballo, alle feste in campagna, nei saloons sul fiume, nei joint, da una città all’altra, suonatore itinerante di armonica, di diddle-bow, di chitarra con cui accompagnava le canzoni che da poco aveva cominciato a scrivere. Autentico hobo, spirito vagabondo al pari di Woody Guthrie, si spostava saltando sui treni merci. Con la libertà di potersi avventurare in un viaggio sempre nuovo, ogni volta che gli andava.

Gli piaceva in fondo questa vita. Sono un tipo stabile nell’andare – scriverà in I’m a steady rollin’ man -, sia di notte che di giorno vado. Non ho nessuna donna dolce, ragazzi, che vada a questo modo.

Un viaggio solitario in cui trovare riparo tra le braccia di donne, spesso già tradite e abbandonate, affamate d’amore, disposte a mantenerlo e a prendersi cura di lui. Con una di loro convolò a nozze nel 1931, trasferendosi a Clarksdale, nei pressi del fiume Mississippi. Qui la lasciò, fragile e cagionevole per non rivederla mai più. Lei morì nel 1934.

Dopo varie peregrinazioni si fermò per qualche tempo nella vasta piana alluvionale del Delta, nella parte più vicina all’Arkansas, dove la cittadina di Helena era diventata punto di incontro di musicisti blues, futura sede del programma radiofonico King Biscuit Time, che offriva l’occasione a molti di esibirsi. Qui conobbe il cantante e chitarrista blues Johnny Shines, da subito colpito dal grande talento di Robert, con cui viaggiò sia a Sud che nelle grandi città del Nord degli Stati Uniti, fino al Canada. In poco tempo Robert si era guadagnato la fama di musicista esperto, in grado di coinvolgere folle di appassionati in ogni città in cui andasse.

Gli mancava ora di fare il grande salto, incidere i suoi pezzi e destinarli alla gloria. La cosa avvenne per merito di un bianco, H.C. Speir, proprietario di un negozio di musica a Jackson, nel Mississippi, punto d’incontro di musicisti e di appassionati, che acquistavano strumenti musicali, fonografi e dischi in quantità. Speir era anche noto come talent scout e segnalava alle case discografiche, la Victor, la Paramount, la Columbia, giovani talenti che andavano da lui a farsi ascoltare. Nel 1936 fu Robert a presentarsi e, impressionando Speir, ottenne di incidere un demo da inviare a qualche etichetta discografica.

(immagine di sintesi)

La registrazione convinse l’agente di zona della American Record Corporation e Robert venne invitato a San Antonio in Texas per una sessione di registrazioni ufficiali. Il responsabile della filiale di Dallas era Don Law, produttore discografico nato a Londra che aveva fondato lo studio di registrazione di San Antonio e aveva una certa esperienza nel riconoscere artisti che portassero un contributo originale alla musica. Tra gli aneddoti che circolano su questa esibizione ce n’è uno che offre qualche indizio sul carattere di Robert. Il fatto che si esibisse dando le spalle ai presenti mentre registrava poteva voler dire di una grave forma di timidezza. Ma era anche possibile che Robert lo facesse per migliorare l’acustica, chiudendosi in una sorta di spazio circoscritto. Oppure, semplicemente preferiva non cadere in qualche distrazione.

Si racconta anche che nell’arco del tempo in cui vennero effettuate le incisioni Robert venne arrestato per vagabondaggio e che fu Law a dover pagare la cauzione per farlo uscire. In ogni modo, tra il 23 e il 27 novembre 1936 Robert registrò sedici tracce, per le quali venne rimborsato con non più di cento dollari. Poca roba, ma meglio di niente. Poco dopo uscì il  disco Terraplane Blues che vendette abbastanza copie da renderlo famoso nel Sud.

Il disco conteneva le seguenti tracce: Kindhearted woman blues, I believe I’ll dust my boom, Sweet home Chicago, Rambling on my mind, When you got a good friend, Come on in my kitchen, Phonograph blues, 32-20 blues, Walking blues, Last fair deal gone down, Preaching blues (Un jumped the devil), If I had possession over judgment day. Terraplane blues, che dava il titolo all’album era un pezzo ironico che paragonava la guida della fantomatica Hudson Terraplane alla stimolazione sessuale di una donna.

Nel 1937 era in cantiere una seconda sessione in un magazzino di Dallas. Il primo giorno Robert registrò solo tre pezzi, mentre in quello successivo almeno una decina. Da questa serie provengono le sue canzoni più suggestive: Stones in my passway, I’m a steady rollin’, From four till late, Hellhounds on my trail, Little queen of spades, Malted milk, Drunken hearted man, Stop breakin’down blues, Travelling riverside blues, Honeymoon blues, Love in vain blues, Milkcow’s calf blues e Me and the devil blues.

In questo momento della vita di Johnson fa la comparsa un personaggio di grande levatura, il produttore discografico della Columbia John H. Hammond. Scopritore di talenti, tra cui Billie Holiday, Benny Goodman, Count Basie e tanti altri, si era distinto in politica, appoggiando molte cause di sinistra, tra cui la lotta alla segregazione razziale. Il suo obiettivo era far comprendere agli americani quanto fosse potente l’arte del popolo nero. Fu fautore, infatti, della formazione di orchestre jazz miste, composte di bianchi e di neri. E promotore di uno dei primi club in America aperto a bianchi e neri, il Café Society di New York. Per diversi anni, inoltre, fu direttore della National Association for the Avancement of colored people.

Nel 1938 a questo personaggio venne in mente di organizzare un grande concerto alla Carnegie Hall, un evento che potesse svelare al pubblico le origini della musica nera e la sua evoluzione nel jazz moderno. Un evento coraggioso e di grande portata culturale e ideologica, visto il contesto di quegli anni, fortemente razzista, caratterizzato da un sistema gravemente discriminatorio che ancora prevedeva il linciaggio, perpetrato ai danni di uomini e donne neri che non stavano alle regole decise dai bianchi.

From spirituals to swing era il titolo della serata, attraverso cui si intendeva passare in rassegna tutti i sottogeneri della musica afroamericana, dai canti tradizionali dell’Africa, mediante autentiche registrazioni fatte sul campo, al boogie-woogie, al dixieland, al gospel di Rosetta Tarp, agli spirituals dei Mitchell’s Christian Singers. Tutti i generi che potevano aver influenzato il jazz. Mancava il suono del Delta blues e per completare la lista Hammond pensò a Robert Johnson, delle cui registrazioni aveva sentito parlare.

In quegli stessi giorni, però, ricevette la notizia della morte del musicista, quasi certamente assassinato. La sera dell’evento comunicò il tragico fatto al pubblico: “Robert Johnson doveva essere la grande sorpresa della serata – si racconta nella biografia John Hammond on Record –. Lo conoscevo solo dai suoi dischi blues e dalle storie esagerate, entusiasmanti che raccontano di lui i tecnici del suono e i responsabili degli studi improvvisati di Dallas e San Antonio. Non credo che Johnson abbia mai lavorato da nessuna parte come musicista professionista, e ancora rimango stupito se penso a quanto siamo stati fortunati che un talento come il suo sia arrivato a incidere in studio. Johnson è morto la settimana scorsa nel preciso momento in cui gli scout della Vocalion riuscivano finalmente a raggiungerlo per dirgli che era stato ingaggiato per suonare alla Carnegie Hall il 23 dicembre”.

Poi fece portare in scena un giradischi e fece ascoltare Walking blues

e Preaching blues. In questa canzone Johnson oltre a evocare di nuovo il diavolo, offriva all’ascoltatore la sua interpretazione di blues: a low-down shakin’ chill, ovvero “un brivido che, come la consunzione, mi ammazza per gradi”, una malattia del cuore, profonda e dolorosa, che consuma. Johnson si sentiva sopraffatto da questo morbo e si augurava che a nessun altro potesse capitare di esserne contagiato.

La data della morte, dal rinvenimento di un certificato ufficiale, è un dato certo. Vaghe sono le cause. Secondo la versione più nota, Johnson sarebbe stato avvelenato da un marito geloso, forse il proprietario di un juke joint in cui era invitato a esibirsi, con della stricnina versata nel suo whisky. Oppure potrebbe essergli stato offerto del moonshine letale. Il bluesman era certamente noto per essere un gran donnaiolo, e di avere una forte dipendenza dall’alcol. Altre teorie circolarono. Come quelle che la morte fu dovuta a sifilide. Studi condotti dall’Università del Maryland, però, accertarono che a quel tipo di diagnosi erano soggetti quasi esclusivamente giovani neri vagabondi che secondo lo stereotipo dell’epoca erano condannati a tale esito per “caratteristiche razziali”, per il fatto cioè di essere nero e senza fissa dimora. Qualcuno sostenne, invece, che la sua morte aveva qualcosa a che fare con la magia nera. Teorie più o meno credibili, ma nessuna certifica con esattezza le ragioni della morte del musicista. Nemmeno è certo dove sia sepolto, dal momento che esistono ben tre lapidi, sparse lungo il Mississippi.

La vera tomba di Robert Johnson non è stata ancora ufficialmente identificata. Nei dintorni di Greenwood ci sono infatti ben tre pietre tombali con il nome dell’artista

Una si trova a Quito, presso la Payne Chapel vicino al juke joint dove Johnson si esibì l’ultima volta. Un’altra è presso Morgan City alla Mount Sion Church. Una terza dalle parti di Greenwood, presso la Little Zion M.B. Church. Probabilmente, quest’ultimo, il più credibile luogo di sepoltura, sulla base di alcune testimonianze.

Poco dopo la morte di Johnson uscì il 78 giri Love in vain blues che vendette diverse copie, poi la sua musica e la sua storia sparirono nel dimenticatoio. La canzone, tra quelle che riscuoteranno più successo, racconta una storia di abbandono, tema caro a Johnson. Una donna, la realmente esistita Willie Mae con la quale il bluesman si intrattenne per alcuni giorni, attende di prendere un treno. L’uomo la guarda andare via e confessa tutta la solitudine di quel momento, la voglia di piangere. Si sente perduto come se tutto l’amore profuso fosse stato dolorosamente invano.

Fu grazie al grande etnomusicologo Alan Lomax che Johnson poté avere una seconda vita. Nel 1939 si prodigò affinché la musica dei neri arrivasse a vasti uditori. Percorse il Sud in lungo e in largo, con il suo magnetofono portatile registrando in presa diretta i canti dei disperati al lavoro nelle campagne sperdute, nelle piantagioni, nelle baraccopoli, tra i carcerati costretti ai lavori forzati, per documentare l’esistenza di un universo sonoro autentico e puro, la voce originaria di un popolo ancora respinto ai margini, ancora schiavizzato. Quel popolo oppresso, dimenticato dalle narrazioni ufficiali.

Nato nel 1911, figlio di John, insieme al padre aveva da tempo intrapreso una serie di ricerche su mandato della Biblioteca del Congresso, con l’intenzione di raccontare una diversa storia del Paese, a partire dalla voce degli ultimi. Gli immigrati, i braccianti, gli sfruttati, i neri figli degli schiavi deportati dall’Africa. Ascoltò e documentò le loro proteste, i loro inni religiosi, i loro canti di sconfitta e di dolore, nelle piantagioni, nelle carceri. Come il penitenziario di stato della Louisiana ad Angola dove scontava la sua pena per omicidio Leadbelly, scoperto da John Lomax e diventato una celebrità, il re delle dodici corde.

Come altri studiosi prima di lui, anche Alan voleva fare chiarezza sulla vicenda di Johnson. Nel 1942 partì alla volta del Delta del Mississippi alla ricerca di tracce, testimonianze che potessero ricostruire la biografia del giovane musicista. Un viaggio raccontato in The land where the blues began che, tra interviste attendibili e altre più improbabili, ebbe il merito di rinverdire l’interesse verso il bluesman.

Dopo di lui, infatti, critici e giornalisti si diedero a varie pubblicazioni in cui tra analisi di canzoni, interpretazioni e recensioni, la figura di Johnson acquisiva una dimensione quasi soprannaturale, stagliandosi nelle forme di artista luciferino, dai risvolti inquietanti. Fu il critico americano Rudi Blesh (Rudolph Pickett Bles) a connotare Robert di questa aura oscura. Nella sua recensione a Hellhounds on my trail intravedeva lande desolate, ululati di vento, terre battute dalla pioggia, una figura solitaria e indemoniata, con la sua chitarra appesa al collo da una corda. Una descrizione che per lungo tempo condizionò ogni altra rilettura della canzone e dell’intera discografia di Johnson.

Robert, il diavolo, e il patto: il talento sovrumano nell’arte, come quello del mefistofelico Paganini e del suo virtuoso violino, in cambio della vita, che si consuma in breve tempo. Una leggenda che risale al Medioevo, quando Dio e il diavolo si contendevano le anime degli uomini. Tema reso poi immortale da Goethe nel suo Faust (1808).

E ancora evocato nei meandri dell’opera di Johnson. In Me and the davil blues il diavolo fa la sua comparsa come spirito maligno che conduce l’autore alla perdita di sé, preda della violenza più vile.

Mentre in Crossroad blues, di fronte a un crocevia, Robert (Bob) si affida a Dio, per non andare a fondo.

Sono andato all’incrocio/sono caduto in ginocchio/Ho chiesto al Signore lassù “Abbi pietà, dai/ Salva il povero Bob, ti supplico”.

Di fatto, un’anima turbata, perennemente in conflitto. Le fughe, gli abbandoni, il viaggio, le donne come tentazioni che conducono alla depravazione, la solitudine, il sesso, il peccato, la dannazione, sono le tematiche più ricorrenti nei testi di Johnson. Autobiografie di un uomo travolto dall’inquietudine, che si sentiva condannato a un’esistenza perduta.

Negli anni del folk revival, giovani artisti cantavano la loro protesta contro l’american way of life, si battevano per la causa dei diritti civili, contestavano la guerra in Vietnam, imbracciando una chitarra agli angoli delle strade, nel Greenwich Village, ad Harvard Square. Joan Baez, Bob Dylan, Peter Paul & Mary, Judy Collins, Odetta. Si cercava un dialogo profondo con i giovani di quella generazione, attraverso repertori provenienti da un passato che scavasse nelle viscere delle tante musiche popolari americane. Un linguaggio identitario. Fu allora che nel libro Country blues, scritto dal critico Samuel Charters nel 1959 ricomparve il nome di Johnson e la sua musica, Preaching blues, risuonò dalle trame dell’album allegato. Nel 1961, poi, la Columbia Records fece uscire un Lp di sedici brani intitolato Robert Johnson: King of the Delta blues singers. La sua musica, così riscoperta, diventava patrimonio da studiare e divulgare. Ispiratrice per molti.

Come Muddy Waters. Celebre la sua Kind hearted woman, incisa nel 1966.

Come Bob Dylan. Che così descrisse la prima impressione all’ascolto delle canzoni: “Erano fuochi di umanità che eruttavano dalla superficie di quel pezzo di plastica rotante” (Tom Graves). Nel 1965 fu il primo bianco a eseguire in pubblico un pezzo di Johnson, Rambling on my mind.

John Paul Hammond, figlio del produttore John Hammond, invece, fu il primo a registrare una canzone di Johnson, Crossroad blues, nel 1963.

Brano ripreso successivamente da Eric Clapton che lo renderà un successo planetario.

In omaggio al cantore del Delta blues, Clapton inciderà nel 2004 un intero album di suoi pezzi, Me and Mr. Johnson.

Nelle città, ora popolate da quei braccianti neri che dopo la fine del sistema mezzadrile avevano abbandonato le campagne, i pezzi di Johnson esplodevano dal chiuso dei club. Dust my broom

e Sweet home Chicago

risuoneranno amplificati da chitarre elettrificate. E nelle versioni più diverse, tra cui quella divenuta colonna sonora del film The blues brothers di John Landis, interpretata da John Belushi e Dan Aykroyd.

Canzoni che rimbalzavano dagli Stati Uniti al resto del mondo.

Per giungere in Inghilterra dove i Rolling Stones reinterpretavano Love in vain.

Fino ai Led Zeppelin di Travelling riverside blues,

e a Walkin’ blues di Peter Miller dei Fleetwood Mac.

Il ritrovamento di alcune fotografie di Johnson, tra cui una fototessera che, dopo una serie di complicazioni legali, nel 1986 venne pubblicata dalla rivista Rolling Stone, rinnovò l’interesse verso l’artista. Per la prima volta milioni di persone nel mondo poterono vedere il volto del cantautore. In una seconda fotografia era ritratto con la sua chitarra, come a cullare una creatura. Sull’onda di queste scoperte, nel 1990 la CBS/Columbia Records fece uscire un cofanetto con due CD: Robert Johnson: The complete recordings, che l’anno successivo vincerà il Grammy Award per la migliore registrazione storica. Quella musica, finalmente, travalicava ogni confine, di tempo e di spazio. Intero album:

Così Robert Johnson, divenuto figura classica della mitologia americana, non è il bluesman che ha venduto l’anima al diavolo, non è il malcapitato ucciso da un marito geloso. Robert Johnson è la pietra d’angolo. L’inventore di una musica che ha generato costellazioni. Priva di artifici, primitiva, nuda e cruda, nata dalle corde di una chitarra ipercinetica suonata in modo travolgente, e da una voce sinuosa, snodata. Che grida fatica e sussurra lascivamente. Nata da un’anima irrequieta, sconvolta dalla morte di una giovane moglie e di un figlio. Frutto di una esistenza vagabonda e solitaria, del rifiuto della condizione di bracciante-schiavo. Conseguenza dei viaggi sgangherati sui treni merci, tra il puzzo e la polvere di terra e sabbia di un’America razzista. Una musica che è arte, che è un destino di dolore e che stabilisce la quintessenza della tradizione del blues.

Devo restare in movimento/i blues vengono giù come grandine, vengono giù come grandine / e i giorni continuano a preoccuparmi/ c’è un cerbero sulle mie tracce (Hellhounds on my trail).

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli