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Nella società contemporanea, iper-mediatizzata e tesa al livellamento culturale verso il basso, una delle tendenze più frequenti è quella all’iperbole, delle narrazioni e ancor più delle descrizioni. Tutto è ottimale, stupendo, fuori misura, eccezionale; dal meteo alla pubblicità i superlativi si adoperano a pioggia. Così, taluni termini si sprecano, adoperandoli male, all’eccesso, attribuendo valore nei contesti sbagliati. Capolavoro, per esempio. Ancora: maestro/maestra.

(wikipedia)

In un linguaggio misurato l’artista che si può definire tale è colui o colei che rimane un riferimento, nel tempo, in relazione a ciò che ha saputo trasmettere a chi ne ha seguito opera e pensiero. E ciò non tanto per i contenuti trasmessi, quanto piuttosto per le metodologie condivise e consegnate, una sensibilità di approccio a temi e contesti. La maieutica, il criterio socratico di ricerca, come elemento fondamentale dell’insegnare: ti conduco a trarre da te ciò che magari neppure pensavi fosse nelle tue potenzialità. Neanche questa attitudine, però, esaurisce la grandezza dei veri maestri, che sono realmente tali se hanno espresso la loro opera secondo la dimensione di ciò che è originale, inedito, nuovo.

Jean-Luc Godard a Berkeley nel 1968 (wikipedia)

Specialmente se questo avviene in una chiave di contestazione a ciò che precede, perché crescere spesso significa mettere in discussione quanto c’è già, contestandone assolutezza e immutabilità. Si può pensare di farlo diversamente, per l’esigenza dei tempi nuovi che si stanno vivendo, per le vie inedite che non si può fare a meno di scoprire e percorrere. A ogni generazione la sfida di operare sintesi nuove, a partire da ma anche oltre ciò che si è già definito.

Jean-Luc Godard nasce a Parigi nel 1930, da una famiglia borghese di origine svizzera e di confessione protestante ugonotta, ha nell’albero genealogico ministri del culto e banchieri.

Archivio dei Cahiers nella cineteca di Grenoble (wikipedia)

Approda alla regia dopo l’esperienza nella critica cinematografica militante dei Cahiers du Cinéma (in un percorso analogo a quello di un altro grandissimo regista francese, François Truffaut) e arriva al successo già con il suo primo lungometraggio, Fino all’ultimo respiro, del 1959, che si fa notare per uno stile originale e una grande padronanza del mezzo filmico.

Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo in una celebre sequenza di “Fino all’ultimo respiro”

Anche le opere successive mettono in discussione gli stili tradizionali del cinema francese ed europeo, introducendo dinamiche di realizzazione nuove, innovative tecniche nel montaggio, l’uso della camera a mano, il ruolo degli attori (che guardano direttamente in camera, idealmente allo spettatore, interloquendo con quest’ultimo), l’idea che si possa fare cinema con lo strumento del collettivo. Il cinema della Nouvelle Vague recepisce la lezione del teatro di avanguardia, ma soprattutto vive dell’inquietudine culturale del tempo: quella di una generazione che mette in discussione il già fatto,– il cosiddetto cinema di papà con il suo modo tradizionale di filmare – per tradurre in immagini un mondo nuovo, che si sente l’esigenza di costruire e che sembra davvero comparire all’orizzonte.

Da “La cinese”

Con il Movimento del 68, Godard trasforma il mezzo filmico in strumento di contestazione, lotta di classe, necessità di presa di coscienza. Già dal 1966 aveva aderito alle teorie marxiste traducendole in una serie di intuizioni filmiche: ma l’autonomia di pensiero lo condurrà a contestare anche i contestatori, nel rifiuto di ogni dogmatismo. Film come La cinese, Week End (entrambi del 1967) e Crepa padrone, va tutto bene (1972) descrivono una parabola cinematografica in cui la necessità che il movimento si pone di contrastare la cultura borghese con una critica feroce eppur ironica non può non tener conto anche delle difficoltà che il movimento stesso sta incontrando, prima di vedere affievolita la propria spinta di cambiamento nel generale rientro nei ranghi della maggior parte dei militanti. Godard non rinuncerà alle sue istanze provocatrici, non si presterà a fare film destinati acriticamente al grande pubblico, rimarrà nello stile di autore, segnato dall’autonomia rispetto al mercato.

Al contrario, le trasferirà in un ambito più propriamente visivo, della continua sperimentazione riguardo all’uso dello strumento espressivo (il suo penultimo film si intitola Adieu au langage – Addio al linguaggio, 2014), nella commistione di mezzi tecnologici di ripresa diversi, in sinergia con le altre arti visive, ma sempre secondo un’ottica politica, capace di affrontare la storia nel dovere dell’imparzialità. I film di questa fase sono esercizi stilistici di grande rigore, di lettura estetica di valore eccezionale, in cui la notevole capacità di vedere secondo una prospettiva cercata con altri stilemi, spesso inusuale, non si è mai appannata. Conservando anche la libertà di raccontare comunque delle storie compiute, sia pur nell’originalità dell’approccio visivo: si possono citare grandi film come Si salvi chi può (la vita) (1980), Passion (1982), Prénom Carmen (1983), Je vous salue, Marie (1985).

Jean-Paul Belmondo e Anna Karina ne “Il bandito delle 11”

Apparentemente fuori dal contesto del mondo cinematografico tessuto di interviste, anteprime, eventi pubblici – Godard è rimasto fino alla fine (l’ultimo film, Le livre d’image, è del 2018) la coscienza critica di un’arte che spesso smarrisce la definizione della propria vocazione.

Un’opera di street art raffigurante Godard (wikipedia)

Che può essere politica, senza rinunciare alla ricerca estetica, ma nemmeno al pubblico. Che forse deve essere politica, non può mai rinunciare a dialogare con chi assiste al film, non può fare a meno di provocarlo a guardare con altre dinamiche e altra sensibilità sociopolitica: con un piacere di sguardo e lettura a cui convertirsi, una fatica di comprensione sempre feconda, rinunciando al mito della neutralità di visione (e dello schierarsi politico). Non tanto per i premi ai festival – innumerevoli e prestigiosi quanto piuttosto per questo livello di stimolo e di fantasia creativa, Jean-Luc Godard è stato un maestro vero. E grande.

Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, iscritto all’Associazione teologica italiana e al Sindacato nazionale critici cinematografici italiani, referente di Libera per la Toscana