Leone Jacovacci nasce in Congo, figlio dell’italiano Umberto e dell’indigena Zibu; nel 1902 torna in Italia con padre e viene registrato all’anagrafe come cittadino italiano. Scappato di casa, allo scoppio della prima guerra mondiale riesce a cambiare identità e ad arruolarsi nella marina inglese col nome di John Douglas Walcker. Impara a tirare di boxe, ha stoffa e così – negli anni 20 – combatte in Francia sotto le mentite spoglie dell’afroamericano Jack Walker. Pian piano però riaffiora in lui il desiderio di rivendicare le proprie origini italiane e, con determinazione, farà di tutto per farsi riconoscere italiano da un’Italia mussoliniana e non ancora espressamente razzista che, imbarazzata da questo suo figlio mulatto e popolarissimo, tenterà invece di rinnegarlo e dimenticarlo, in particolare dopo l’epico incontro del 1928 che vide il “Nero di Roma” Jacovacci mettere ko il bianchissimo “toro fascista” Mario Bosisio.
Lo storico Mauro Valeri ha riscoperto questa storia, mettendola nero su bianco nel volume Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico, Palombi 2008; Tony Saccucci, professore di storia e filosofia al liceo Mamiani di Roma ne ha voluto trarre un documentario, sul “pugile del duce” e non solo.
Qui il trailer ufficiale.
Leone Jacovacci cambierà più volte identità: sarà il soldato inglese John Douglas Walker e l’afroamericano Jack Walker che combatte e vince in Francia. Ma perché Leone decide, nel 1925, di restare in Italia e di ritornare italiano? Non sarebbe stato più facile essere nero in Francia o nel Regno Unito? Come e quando, comunque, riuscirà a farsi riconoscere la cittadinanza italiana dal regime guidato da Mussolini?
Il regista Tony Saccucci per questa domanda preferisce indirizzarmi direttamente allo storico Mauro Valeri, autore del libro Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico, Palombi 2008.
A Jacovacci era stato proposto di diventare francese, egli rifiutò perché si “sentiva” italiano. Eppure gli anni Venti, in Francia, sono quelli della “negrofilia”, lì le persone nere erano considerate per certi versi positivamente, mentre in Gran Bretagna c’era una vera e propria “barriera di colore”.
Ma Jacovacci fa coming out e rivendica la propria italianità. Dal punto di vista dei documenti, egli è italiano – in quanto lo è il padre Umberto – ma il regime fascista gli contesta, inizialmente, di non aver fatto il servizio militare in Italia e di non avervi la residenza; tuttavia Jacovacci dimostra di essere stato soldato per un Paese alleato (l’Inghilterra, sebbene sotto il falso nome di John Douglas Walker), cosa che era equivalente, e poi si trasferisce in Italia per superare anche il secondo ostacolo. Il fascismo allora gli pone un’altra condizione: gli proibisce di combattere col nome d’arte di John Walker (con cui Leone aveva incominciato a boxare).
Insomma, quando pare che finalmente Leone possa essere riconosciuto italiano il regime aggiunge un requisito in più da rispettare… di fatto Jacovacci per anni resta apolide e “invisibile”, soprattutto dal punto di vista sportivo in quanto la FPI (Federazione Pugilistica Italiana) non gli concede la tessera: non può così competere né per il titolo italiano né per quello europeo. La cittadinanza anagrafica, invece, prima o poi Jacovacci l’avrebbe ottenuta, i documenti la dimostravano con chiarezza.
La vera domanda, però, è questa: perché il fascismo negli anni Venti si preoccupa del colore della pelle di un suo effettivo cittadino?
Proprio l’Italia che aveva anche avuto, nella prima guerra mondiale, il primo aviatore nero al mondo e quattro ufficiali neri italiani! Improvvisamente l’essere nero e italiano diventa un problema per il regime di Mussolini. Valeri denuncia una sorta di vuoto storiografico sul tema dei “neri italiani” che vivevano in Italia: è stato affrontato il rapporto tra fascismo ed ebrei e neri stranieri delle colonie, ma, tranne qualche eccezione, mai quello tra fascismo e neri italiani, meticci che vivevano in Italia. Il fascismo, fino ad un certo periodo, non è stato apertamente razzista verso i suoi meticci, purché restassero in secondo piano, come fu per il fratello di Leone, Aristide, cittadino nero italiano cui non venne mai dato alcun fastidio poiché era un anonimo autista. Le discriminazioni verso i neri italiani iniziano, nel nostro paese, già negli anni Venti, quando, secondo Valeri, si impongono in ruoli chiave delle istituzioni fasciste personaggi con rigida mentalità coloniale, che considerano il nero “suddito” e mai “cittadino”
Il primo censimento dei neri in Italia avvenne nel 1938, se ne contarono 78, anche se erano molti di più, perché non si capiva bene chi dovesse essere contato; la legge dichiaratamente contro i meticci, pensata per le colonie, viene promulgata solo nel 1940 e stabilisce che il figlio di un genitore italiano e uno indigeno acquisisce solo la cittadinanza del secondo; una clausola di questa legge però precisa che i meticci nati prima del 1940 sono da considerarsi “ariani”: questo ci dice che prima di tale anno in Italia vi era una presenza non indifferente di meticci che dovevano essere in qualche modo salvaguardati. Jacovacci, nato nel 1902, costituisce un problema già nel 1928 perché arriva alla popolarità (grazie anche al “pregiudizio positivo” sui neri che caratterizza l’ambiente del pugilato: potenza, resistenza, forza bruta…) e mette in imbarazzo il regime che preferisce rispecchiarsi in campioni meno problematici: i bianchi Bosisio prima e Carnera poi.
Tale mancanza di studi sul rapporto tra lo Stato italiano e i suoi cittadini meticci si riflette, a ben vedere, anche oggi: gli insulti che si rivolgevano a Jacovacci sono gli stessi che si riservano a Balotelli e presuppongono tale assunto: non possono esistere italiani non bianchi. Invece non è stato e non è così e la storia dovrebbe far luce su questo.
Si dice che Jacovacci potesse essere fascista, sicuramente non antifascista: come stanno le cose?
Il regista Tony Saccucci anche per questa domanda preferisce indirizzarmi direttamente allo storico Mauro Valeri.
Dagli studi fatti da Valeri, sembra che Jacovacci abbia preso la tessera del PNF pur non essendo mai divenuto organico al partito, a differenza invece di quanto accadde a Bosisio, che andava a cena coi gerarchi ed era molto vicino al sistema fascista, che lo appoggiava fortemente.
La controprova è questa: quando nel ’45 Jacovacci rientra in Italia dalla Francia, dove durante la seconda guerra mondiale aveva fatto l’operaio, riprende la cittadinanza italiana e viene recuperato come pugile per una serie di tornei “comunisti” (ne danno conto alcuni articoli dell’epoca de L’Unità). Questo dimostra che Jacovacci non si era compromesso col fascismo, a differenza per esempio di Carnera che rischiò di essere fucilato nel dopoguerra con l’accusa di collaborazionismo.
Fu proprio Mauro Valeri a farle conoscere la storia di Jacovacci e lei non solo intuì che se ne sarebbe potuto trarre un documentario, ma ritenne opportuno inserirvi lo stesso scopritore Valeri con la sua propria storia: perché? Che storia è, quella di Valeri?
L’idea di inserire nel documentario la storia di Valeri mi è venuta una sera a cena con lui, mentre stavamo buttando giù la sceneggiatura sul solo “pugile del duce”; gli chiesi perché avesse speso ben sei anni della sua vita a scrivere un libro, Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico, con grande fatica, un libro denso e certo difficile che non ha avuto molta diffusione. E lui mi ha risposto. Da quella risposta – “volevo annerire un po’ di più l’Italia perché non posso sbiancare mio figlio” [la madre è etiope, ndr] – ho capito che desideravo raccontare anche la sua storia, perché è questa sua esigenza di uomo e padre del presente che ha consentito di riscoprire e raccontare il passato di Jacovacci, c’è un sottile filo che lo lega a Davide Valeri, il figlio di Mauro.
C’è il rischio, da parte del pubblico, di distorcere la figura di Jacovacci facendone un’icona dei diritti dei neri?
Parlare di “diritti dei neri” negli anni Venti in Italia è anacronistico. Tuttavia il rischio cui si accenna è un rischio “giusto” che si corre sempre quando una storia diventa paradigmatica e simbolica: nell’interpretazione successiva si può fare, di tale simbolo, un uso che prescinde dal contesto storico rigorosamente ricostruito. Il mio intento, poi, è “metastorico”: non solo e non tanto narrare il personaggio Jacovacci, ma dimostrare che la storia è frutto di continua interpretazione e reinterpretazione; ho voluto raccontare – da osservatore esterno – la biografia di Jacovacci attraverso quella di Mauro Valeri. Questo mi permette di dire che la storia è, in qualche modo, solo “contemporanea”, ossia c’è una esigenza del presente di ricostruire il passato, nella fattispecie l’esigenza di Valeri di rendere un po’ più nera l’Italia nell’impossibilità di esaudire il desiderio del figlio bambino di essere più bianco, è questo bisogno di padre che lo conduce alla fonte soppressa del “caso” Jacovacci. Questo è crocianamente il mio obiettivo: fare storia del passato a partire dagli interrogativi del presente – lo ricordo sempre anche ai miei studenti –, per questo la storia è sempre storia politica. Allo stesso modo non mi spaventa il fatto che, dopo aver messo in libertà la mia opera, nella testa di ognuno che la vede ci sia un’interpretazione personale e diversa.
La giustizia a Leone Jacovacci viene resa innanzitutto dal libro di Mauro Valeri Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico (Palombi 2008), una poderosa biografia di oltre 400 pagine; che cosa può aggiungere di nuovo e diverso, dal punto di vista del mezzo, un documentario? Le piacerebbe che ne venisse tratto un film vero e proprio?
Il documentario, rispetto al libro, consente di rivolgersi ad una platea molto più vasta. Per la praticità, anzitutto, dato che il volume ha oltre 400 pagine mentre il documentario dura poco più di un’ora; inoltre le pagine di Valeri sono pagine per studiosi, per addetti ai lavori, mentre il documentario può rivolgersi sia un ragazzino che una persona più anziana o di cultura medio-bassa. Diciamo che io sono stato il divulgatore dell’opera di Valeri, in più ho aggiunto la questione della “metodologia” storica: la prospettiva del mio documentario, rispetto all’opera di Valeri, inserisce uno sguardo “metanarrativo” che racconta anche la storia dello storico di Jacovacci. Tutta la tensione narrativa del film si concentra nel finale: passa certamente attraverso le vicende di Jacovacci, ma è alla fine che l’emozione si trasmette in modo potente, quando Mauro Valeri svela quale sia stata la sua necessità personale nel riscoprire la storia del pugile nero.
Per quanto riguarda la possibilità di ricavarne un film vero e proprio, beh, di questo se ne occupano i produttori; io sono uno storico, mi piace fare questo e non altro. Per ora, pertanto, assieme all’Istituto Luce, seguo la divulgazione del documentario che sarà proiettato il 27 aprile al Parlamento Europeo e che, spero, approderà nelle scuole a settembre-ottobre: per i ragazzi – infatti – questo lavoro è stato soprattutto pensato.
I più giovani, i ragazzi che lei – professore di storia e filosofia – dice di aver sempre avuto in mente realizzando questo suo lavoro, lo hanno apprezzato? Quale vorrebbe fosse il messaggio principale loro rivolto da Il pugile de duce?
Ho fatto una sola volta l’esperienza di far vedere ai ragazzi il film in lavorazione, stavamo parlando di fascismo e – in coda alla lezione – ho mostrato loro i primi 25 minuti di montato. Lì ho capito che il modo in cui stavo strutturando la storia teneva, perché non si sono distratti. Poi non so se i miei studenti abbiano visto il lavoro finito in qualche sala, e tendo anche a tenere distinti i due ambiti professionali. Ora che ne stiamo parlando, però, so per certo che alcune classi stanno guardano Il pugile del duce al cinema Farnese di Roma.
Che cosa deve dire il film, secondo me, a un adolescente di oggi? In realtà l’adolescente guarda e capisce quel che vuole capire. Io confido nel fatto di essere riuscito a spiegare bene il mio intento: trasmettere ai ragazzi che la storia è una continua costruzione degli uomini. Quanto al messaggio del meticcio italiano non riconosciuto dal proprio Paese è talmente scontato che non c’è bisogno di sottolinearlo: io credo che a un ragazzo di 16 anni che vive nell’Italia del 2017 non occorra spiegare che non si deve essere razzisti, un adolescente che si dice razzista oggi è un ragazzo che ha dei problemi e io non mi occupo di psicologia… La prima volta che mia nonna vide un nero, era un ambulante senegalese, aveva più di 80 anni e si spaventò: viveva in un paesino abruzzese di montagna di 300 anime ma già la seconda volta che lo incontrò, di paura non ne aveva più. Questo per dire che il razzismo è talmente fuori dal mio quotidiano mentale che quasi non lo riesco a concepire, non riesco a capire come si possano distinguere gli umani dal colore della pelle. L’unica differenza tra uomini e donne la fanno le loro intelligenze; per me non si tratta di fare “battaglia” al razzismo, o meglio è per me un combattimento facile perché lo svolgo naturalmente, senza pensarci, giorno per giorno.
Perché la narrazione della storia di Jacovacci si ferma al 1928, anno in cui – dopo aver sconfitto il “toro fascista” Bosisio – la sua carriera viene boicottata dal regime fascista? Cosa gli successe dopo e come si può scoprire?
È stata una scelta registica precisa. Inizialmente pensavo di partire dagli anni 50 e andare a ritroso, ma poi così si rischiava di perdere la tensione narrativa. Pertanto abbiamo deciso di cominciare dal principio e di fermarci all’apice del successo di Jacovacci, che ha coinciso poi con l’inizio del suo oblio. Per scoprire cosa sia successo dopo al campione mulatto ci sono due possibilità: attendere l’uscita del DVD de Il pugile del duce, dove sono presenti dei contenuti extra molto curati inerenti al “dopo”; oppure cimentarsi nella lettura della biografia di Valeri, appunto il già citato Nero di Roma.
Pubblicato lunedì 24 Aprile 2017
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