Paola Cortellesi è regista e protagonista del film

Paola Cortellesi attrice scanzonata ironica e grintosa diviene per la prima volta regista con C’è ancora domani un film indovinato e molto leggibile. Unisce il linguaggio della commedia, che conosce bene, all’ironia graffiante ed emblematica per farci entrare in una storia del dopoguerra ma anche attuale, centrata sulla condizione della donna sottoposta al becero maschilismo del marito e padre padrone.

La vicenda si situa a Roma nel 1946 in un quartiere che vede ancora le camionette alleate, gli afroamericani che offrono cioccolata, le file per il pane, le tessere annonarie e una diffusa indigenza. Delia, la protagonista (Paola Cortellesi), è una casalinga indaffarata tutto il giorno a servire la famiglia con i lavori di casa e all’esterno con la cura di anziani e altre piccole incombenze artigianali e di cucito. Lavora senza sosta, corre trafelata da un posto all’altro. Le sequenze dei suoi passi affrettati su e giù illustrano il perenne sfruttamento e la fatica. Come tutta ricompensa riceve insulti e botte dal marito Ivano (Valerio Mastandrea) mai contento, mai grato, che sfoga su di lei le proprie frustrazioni.

Nel ruolo di Ivano, marito della protagonista Delia, Valerio Mastandrea

Cortellesi ci dà un ritratto lucido e fresco del maschilismo e della violenza domestica che suscita indignazione. Ci ferisce la sottomissione della donna che l’accetta e vi si sottopone, senza farsi domande, quella rassegnazione femminile che nasce dalla solitudine in un mare di pregiudizi e luoghi comuni. Risuscita non solo le atmosfere dell’epoca ma i riverberi nel presente. La risposta di Delia alla figlia diciassettenne Marcella che la incita a ribellarsi, a partire, spiega tutto. “Ndo vado?” Dove vado?

La donna, certo vorrebbe andarsene ma non sa come e dove. “Ndo vado” racchiude il suo stato d’inferiorità nella società che il progresso e le battaglie sociali hanno poi in parte debellato. Oggi è finita l’epoca delle tre K, cucina chiesa e bambini nelle quali lo slogan tedesco Kinder, Küche, Kirche relegava il pianeta femminile. Esistono altre prospettive, i centri antiviolenza, una nuova legislazione familiare, la potestà genitoriale condivisa. La donna non sta più zitta, ha conquistato visibilità e riconoscimento in molti ruoli e luoghi di lavoro e coscienza di sé. In teoria può svincolarsi, deve solo avere coraggio e fiducia in se stessa. Ma c’è ancora da combattere il germe del maschilismo che spunta ancora tra di noi come pregiudizio o si esprime apertamente e tragicamente nei femminicidi. L’uomo non vuole rinunciare al possesso dell’oggetto femmina senza il quale si sente disarmato e vede l’emancipazione della sua partner come una sconfitta.

Il merito di questo film è di arrivare a tutti e ne è prova il grande consenso di pubblico. Il suo stile è semplice e originale. Va dritto al cuore delle dinamiche di coppia, fa ragionare su come eravamo e come non dobbiamo più essere.

Il suocero di Delia è interpretato da Giorgio Colangeli

La visione neorealista della Roma popolare grazie anche all’espressività del bianco e nero fa rivivere alle vecchie generazioni il tempo perduto e innesta anche il confronto col presente. Le battute argute, la sfilata di figure vive e vivaci colte nel quotidiano, al mercato, nell’officina, sul tram, in bicicletta, in chiesa, rievocano tempi passati ma fenomeni ancora presenti. Quante madri tra il pubblico si riconoscono nella pazienza della protagonista col suocero villano (Giorgio Colangeli), fautore delle botte alla moglie. Non sempre – dice – ma una tantum. Quante si ritrovano nella disparità di compensi rispetto al lavoro maschile, o nella volontà di dare alle figlie una vita migliore.

La narrazione filmica ci prende. Entriamo nel vivo dell’odissea familiare di Delia alle prese con Ivano (un Mastandrea perfetto nella parte). Vediamo tante sequenze significative: il picchiatore che chiede perdono, il soldato afroamericano solidale che vuole aiutare Delia o il lavorante pagato più di lei perché maschio. Ridiamo con i fotogrammi del pranzo in famiglia con i futuri suoceri di Marcella (ben interpretata da Romana Maggiora Vergano). L’aspirante fidanzato della ragazza suscita l’ammirazione delle comari del quartiere. È figlio di un “signore”, dicono. In realtà si tratta solo di un pasticcere burino arricchito con la borsa nera.

Romana Maggiora Vergano nel ruolo della figlia di Delia

Ivano deve fare una bella figura. Ordina che si apparecchi la tavola meglio che si può che Delia si tolga il grembiule e raccomanda ai bambini di non dire le solite parolacce. Purtroppo c’è un fuori programma, l’irruzione inattesa del padre col suo turpiloquio abituale che sconvolge gli invitati e Delia emozionata che inciampa e rovescia il prezioso vassoio di paste. Segue un coro di improperi. A festa finita saranno altre botte maritali dopo aver mandato i figli in un’altra stanza.

La Cortellesi sa intrecciare comicità e lacrime. La colonna sonora originale di brani di ieri e di oggi di Lele Marchitelli — romantici, blues, punk — è un elemento spiritoso narrante non solo un accompagnamento, dalla voce di Fabio Concato alla chitarra di Juda Bauer, al Calvin de Jon Spencer Blues Explosion. Le trovate stravaganti mitigano i contenuti drammatici col tono burlesco senza cancellarli. Dalla rabbia si passa alla risata.

Il matrimonio di Marcella non si farà. Il promesso sposo in un colloquio ci dimostra che sarà un padrone proprio come Ivano. Per questo Delia d’accordo col soldato africano farà esplodere la pasticceria.

La trama ci lascia col fiato sospeso fino alla fine. Speriamo che Delia riesca a districarsi dai numerosi contrattempi e a fuggire con l’aiuto di Marisa, un’amica fidata (Emanuela Fanelli). Dovrebbe raggiungere alla stazione Nino (Vinicio Marchioni), un buon meccanico gentile antico amore di gioventù. Per una nuova vita. Ha messo da parte un buon gruzzolo. Ma ecco la sorpresa: lo lascia alla figlia con un biglietto perché possa studiare, andare avanti. Il padre le ha sempre negato questo diritto.

E lei la protagonista se ne va al seggio elettorale. C’è il referendum, è il 1946, si deve scegliere tra repubblica e monarchia e le donne votano per la prima volta. È la prima volta anche per Delia, la prima scelta indipendente. La scena ha un valore simbolico. Si è risvegliata la coscienza femminile. La figlia applaude felice. E il marito sopraggiunto è arreso e stupito. Delia ha cominciato a dire la sua. Come canta la canzone di Daniele Silvestri A bocca chiusa. Il finale, non sembri forzato, è Storia. Per molte donne il voto è stato solo il primo passo.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice,
per Bordeaux edizioni ha da poco pubblicato il libro “Lo sguardo acuto del cinema”