Sono i figli dei figli dell’eretico Pietro Valdo, migranti dalla Francia e giunti in Val Pellice, Piemonte, attorno all’anno 1100, per secoli perseguitati in ragione della propria fede, che ora danno l’estremo saluto al ribelle di cui non conoscono il nome. È il 4 dicembre 1943.
La notizia del giovane ribelle che, ferito a Chabriols, un borgo tra Torre Pellice e Bobbio – ultimo paese prima della frontiera con la Francia – è morto dissanguato trapela sotterraneamente, perché le spie sono dovunque, e i lunghi spari, dopo la mezzanotte del primo dicembre, hanno svegliato i paesi della piccola valle.
L’assalto partigiano al presidio della milizia repubblichina di Bobbio ha scatenato il rastrellamento tedesco: i fascisti, assediati nella casermetta, hanno chiesto aiuto ai camerati tedeschi che, da Pinerolo, forti di un carro armato, un cannoncino, due autocarri carichi di truppa, risalgono la valle in cerca dei primi che si sono fatti ribelli, e che, al momento, non hanno altra organizzazione se non la loro rabbia: Renè (Renato Poet) che con la mitraglia è salito sul fabbricato di fronte alla caserma; Teju (Cesare Morel) che è riuscito a penetrare nel cortile; gli uomini della banda dell’Ivert che hanno scavalcato il muro di cinta e Ricou (Enrico Barolin) armato delle bombe a mano del gruppo partigiano della Budeina.
È il tempo di una scelta necessaria. Qui, già molti, donne e uomini, eretici per tradizione di fede e per scelta di coscienza, hanno chiaro il confine tra le parti in una guerra civile dove il tedesco è sì l’invasore, ma l’odio, incandescente e puro, quello che “liberamente e sovranamente” (cit. Giuseppe Filippetta, “L’estate che imparammo a sparare”, ed. Feltrinelli) porta ad imbracciare il fucile e a sparare, trova il suo primo nemico nel fascista, che gli è complice e spia, gli spiana la strada con le delazioni, e lo segue, indietro di un passo – con la ferocia dei servi – nelle azioni armate.
I tedeschi hanno lasciato la valle verso mezzogiorno del due dicembre; ma i fascisti sono rimasti e reclamano la presenza della popolazione al funerale di uno dei loro, affiggendo i manifesti che chiamano al lutto pubblico per capopattuglia, anche da morto difeso da un mitragliatore piazzato accanto alla bara.
Invece li vediamo arrivare, donne e uomini, i “barbetti”, così vengono chiamati gli eretici delle valli; disertano i funerali del capopattuglia e, in composto silenzio, danno il loro addio al ribelle che non è di queste valli, e di cui nemmeno i dottori dell’ospedale di Luserna, conoscono il nome e, pure, lo hanno vegliato dopo tre operazioni di amputazione alla gamba, facendo barriera perché nessun fascista osasse interrogarlo durante l’agonia.
Del ribelle che fino all’ultimo ha ripetuto “non importa il mio nome”, (cit. Antonio Prearo, Terra ribelle, ed. Claudiana) noi abbiamo appreso che era nato a Torino il 10 ottobre 1919, figlio di Anselmo e Lina, che si era laureato in agraria nel 1941, che aveva scelto la Resistenza armata nella formazione che sarebbe diventata la V divisione alpina “Sergio Toia”.
Abbiamo appreso che non era il solo a portare il suo cognome: anche i cugini, Giorgio e Paolo, nati a Torino, l’uno nel ’20, l’altro nel ’21, avevano raggiunto la Valle Pellice partigiana, l’uno diventando comandante di un distaccamento di Giustizia e Libertà, l’altro, quello che la popolazione e i partigiani affettuosamente chiamavano “il dottore dai capelli rossi”, trovando la morte fascista, non lontano da qui, in località Cotarauta di Inverso Pinasca, l’11 ottobre 44.
E abbiamo appreso così che il primo Caduto partigiano delle valli valdesi è un “ebreo” espunto per effetto delle leggi razziali dello stato fascista da ogni diritto, considerato non-persona, che ogni buon cittadino di italica razza avrebbe dovuto denunciare all’autorità costituita, o, preferendolo, avrebbe potuto privatamente far fuori con un legittimo colpo di grazia, così non subire la presenza nefasta né il contagio di sangue infetto dell’ebreo nemico e straniero.
Così Sergio Diena – perché è questo il nome del ribelle – con la sua morte scriveva il principio di laicità che avrebbe trovato poi le parole nella Carta costituzionale: “… senza distinzione… di religione”.
Annalisa Alessio, vice presidente Comitato provinciale Anpi Pavia
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2019
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