Don Giovanni Minzoni (Ravenna, 29 giugno 1885 – Argenta, 23 agosto 1923) aveva 38 anni quando venne ucciso dai fascisti

In un Paese, come il nostro, dalla memoria corta, se non cortissima, in cui da tempo si cerca di stravolgere la verità storica di capitoli cruciali del nostro recente passato, con rivisitazioni tanto infondate quanto distorte e fuorvianti, ci sembra opportuno ricordare il “sacrificio” di una figura come quella di don Giovanni Minzoni, assassinato – il 23 agosto 1923 – da due sicari fascisti, provenienti da Casumaro di Cento, che gli fracassarono il cranio a randellate, mentre faceva ritorno dalla passeggiata serale in compagnia di un suo giovane amico, Enrico Bondanelli, anche lui colpito e ferito.

Il primo gruppo scout  è nato a Ravenna nel 1922, intitolato a Don Bosco. Don Minzoni subito dopo creerà altri due gruppi di giovani esploratori

Se Giacomo Matteotti – la vittima più nota ammazzata dai seguaci di Benito Mussolini – ebbe il torto ai loro occhi di opporsi strenuamente all’ascesa del fascismo, don Minzoni – «attivissimo organizzatore di giovani esploratori cattolici» – si era macchiato della colpa di ostacolare con determinazione la fascistizzazione del piccolo centro romagnolo, in cui svolgeva la sua missione di sacerdote.

Il cappellano militare don Giovanni Minzoni sul fronte del Carso nel 1916

Fervente patriota, cappellano militare durante la Grande Guerra (decorato con Medaglia d’Argento Vm), arciprete di Argenta, la cui popolazione non arrivava allora a 5.000 abitanti, don Minzoni era alle prese con la miseria della zona e vedeva la prevalenza nella sua composizione sociale dei braccianti sui fittavoli e mezzadri. «Stimato, venerato e quasi idolatrato dal suo popolo» – come affermò l’arcivescovo di Ravenna, monsignor Antonio Lega – fondò cooperative bianche di braccianti e di operai, in concorrenza leale con quelle rosse.

Il console della milizia Italo Balbo con Mussolini nel 1923

Roccaforte socialista, la ‘sua’ Argenta venne investita, come tutta la «bassa», dalle tensioni del turbolento dopoguerra italiano. Il 17 aprile 1921, le squadre armate di Italo Balbo occuparono per l’intera giornata il borgo rurale situato al confine tra Emilia e Romagna. Meno di un mese dopo, il 7 maggio i fascisti massacrarono a bastonate, finendolo con due colpi di pistola, il sindacalista e consigliere comunale socialista, Natale Gaiba, uno dei tanti dimenticati antifascisti della prim’ora. Furibondo per l’accaduto, don Minzoni bollò i fascisti di «viltà» e di «barbarie». La sua avversione per le spietate imprese degli squadristi crebbe man mano che gli uomini di Balbo assaltavano amministrazioni comunali democratiche, circoli cattolici, Camere del lavoro e cooperative.

Un francobollo del 1973, in occasione del 50° della morte di Don Minzoni. Quest’anno per il centenario ne sarà emesso un altro

Dalla fine del 1920 – è il caso di tenerlo bene a mente – sotto il comando in Emilia-Romagna di ras come Italo Balbo, Dino Grandi, Leandro Arpinati e Roberto Farinacci, le camicie nere si dedicarono alla sistematica distruzione dell’intera rete organizzativa tessuta dal movimento operaio, bracciantile e contadino. In tutt’Italia, ma specialmente nel Centro-Nord, gli squadristi – con la connivenza e spesso l’appoggio degli apparati statuali (dall’esercito alla magistratura, alla burocrazia) – manganellarono, ferirono, uccisero e umiliarono con la somministrazione dell’olio di ricino migliaia di attivisti e militanti della sinistra, non risparmiando neppure i cattolici del «bolscevismo bianco», capeggiati da Guido Miglioli o figure di sacerdoti come, appunto, don Giovanni Minzoni. Leghe e cooperative socialiste, anarchiche, cattoliche erano ritenute molto più pericolose per la monarchia sabauda di quanto non lo fossero i fascisti, che si erano eretti ad arcigni tutori dell’ordine costituito. L’antifascismo non solo fu lasciato in balia delle scorribande dei ras e dei loro uomini, ma fu stigmatizzato e perseguito dalle forze di pubblica sicurezza.

Postando questa foto, il sindaco di Argenta, Andrea Baldini, scrive: “Ci stiamo preparando alle celebrazioni istituzionali del 23 e 25 agosto. Questo bellissimo murale, su via Pascoli, il vicolo dove è stato ammazzato da mano fascista don Giovanni Minzoni, prete libero, guida della comunità argentana, è di Riccardo Buonafede” (Le celebrazioni del 23 saranno alla presenza del presidente Cei, cardinale Matteo Zuppi, e per Anpi della vicepresidente nazionale Albertina Soliani, e il 25 del Presidente Mattarella; sono tre i murales fatti realizzare dal Comune di Argenta)

Lo squadrismo esibiva il volto violento costitutivo del fascismo, che si propose come il collante di un ordine fondato sulla paura, la forza e la repressione: un ordine agognato dal padronato agrario e industriale, teso a rendere inamovibili i propri privilegi, e dai ceti dirigenti liberal-conservatori, atterriti dallo spettro della sovversione incarnatosi prima nella rivoluzione d’Ottobre, poi nel «biennio rosso». Nel fascismo – inedita forma di reazione, basata sull’applicazione generalizzata della violenza alla lotta politica – si saldarono le spinte eversive di tante forze «antisistema» del dopoguerra (reduci, arditi, nazionalisti, futuristi, dannunziani, transfughi del socialismo e del sindacalismo rivoluzionario) con la domanda d’ordine della piccola borghesia urbana e rurale, dei possidenti agrari, dei grandi industriali e dei corpi burocratici e militari.

Squadristi veronesi, con al centro Roberto Farinacci, il “ras di Cremona”

Già prima della marcia su Roma, ma specialmente nel 1923-´24, in provincia i ras erano assurti al rango di signori incontrastati, capaci di sottomettere gli organi governativi locali alla loro autorità e di perpetrare abusi e prevaricazioni di qualsiasi tipo, essendo attorniati da bande d’armati, che si erano trasformati in guardie personali. In genere, erano uomini che assommarono nelle proprie mani la carica di segretario della federazione provinciale del Partito Nazionale Fascista (Pnf) a quella di comandante di formazioni militari private, in alcuni casi inserite nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, in altri tenute in vita autonomamente anche dopo l’istituzione della Milizia, che fu creata nel gennaio 1923 con la finalità di assorbire e irreggimentare tutti gli squadristi.

11 febbraio 1929, firma dei Patti Lateranensi. A sottoscriverli saranno il “Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per la Santa Sede e il capo del governo primo ministro segretario di Stato Benito Mussolini per il Regno d’Italia”

A ben guardare, il 1923 è stato un anno da non trascurare nella riconsiderazione del cammino intrapreso dal fascismo verso la costruzione di un proprio regime, imperniato sul «compromesso autoritario» tra Pnf, esercito, agrari, grande industria, Chiesa, burocrazia civile e larghi strati della società italiana. Infatti, nel gennaio del 1923 Mussolini si vide segretamente con il cardinale Gasparri per ottenere l’appoggio del Vaticano e del Banco di Roma, promettendo di salvare l’istituto di credito, che versava in una difficile situazione finanziaria, qualora esso avesse operato le opportune aperture al Pnf. In seguito, con un ritmo incalzante vennero adottate dal suo governo misure molto importanti: la privatizzazione della compagnia statale dei telefoni, lasciando alla mano pubblica le chiamate da lunga distanza; l’abolizione del monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita; la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore quotidiane, con una diminuzione del salario medio del 10%; la soppressione della festività del 1° maggio e la sua sostituzione con il 21 aprile, Natale di Roma; la riforma della scuola elaborata da Giovanni Gentile, «la più fascista» delle riforme; la legge elettorale Acerbo, che prevedeva un premio di maggioranza dei due terzi alla lista che avesse raccolto almeno il 25% dei suffragi.

Intanto proseguiva la caccia agli antifascisti, sei dei quali – a inizio d’anno – furono uccisi nel corso di una spedizione punitiva a La Spezia, mentre 36.000 ferrovieri venivano licenziati per scarso rendimento (si trattava per lo più di una vendetta politica contro i partecipanti allo «sciopero legalitario» dell’agosto precedente). Febbraio si aprì con l’assalto squadrista al palazzo di Giustizia di Livorno. In quell’occasione il deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani fu picchiato ed espulso dalla città. Nel frattempo si intensificava la «battuta anticomunista» con la chiusura de «L’Avanguardia», giornale della federazione giovanile del Pcd’I, e l’arresto del maggiore leader del partito comunista, Amadeo Bordiga, e successivamente di altri 252 attivisti. Dalla fine del 1922 ne erano stati fermati ben 2.325.

Il 23 aprile 1923 il Partito popolare (Ppi) abbandonò ufficialmente il governo guidato da Mussolini. L’indomani la corrente di destra uscì dal Ppi, costituendo una nuova formazione, il cui segretario Egilberto Martire si fece subito ricevere dal «tribuno di Predappio». Di lì a qualche mese don Luigi Sturzo, su pressione del Vaticano, dovette lasciare la segreteria del Ppi, mentre dalla primavera le organizzazioni cattoliche erano bersagliate dalle squadracce nere.

Il funerale di Don Minzoni

È questo il contesto nel quale va inscritta l’ennesima, vile aggressione del terrorismo fascista, che portò all’assassinio di Don Minzoni, il cui rifiuto dei soprusi e delle violenze dello squadrismo, a protezione degli interessi delle classi dominanti, non consistette in un semplice «non allineamento» all’autoritarismo ormai imperversante in Italia, ma si tradusse in un’azione concreta e coraggiosa, in una netta contrapposizione all’ideologia fascista, incentrata sul «disprezzo per le regole della democrazia», sul «gusto della sopraffazione attraverso la forza del potere e la forza del denaro». Quel rifiuto sfociò, nell’aprile 1923, nell’iscrizione al Ppi, nell’adesione ai convincimenti della sua ala più autenticamente antifascista. Una scelta, la sua, dettata dall’esigenza di non scendere a umilianti compromessi e di battersi a difesa dei principi del cattolicesimo sociale e popolare. «Quando un partito, il fascista, – ebbe a sostenere l’arciprete di Argenta poco prima di cadere vittima dell’agguato mortale – quando un governo, quando uomini in grande e piccolo stile denigrano e perseguitano un’idea, un programma, un’istituzione quale quella del partito Popolare, per me non c’è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio della vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

La morte di don Minzoni (a ottobre prenderà il via il processo di beatificazione promosso dalla Chiesa di Ravenna-Cervia, l’Agesci, il Masci, gli Scout d’Europa e la parrocchia di Argenta), che suscitò una grande emozione popolare, dividerà i cattolici italiani, anche se alla fine prevalsero, soprattutto grazie all’influenza delle gerarchie dell’alto clero, coloro che – in nome di un accordo col nascente regime – volevano «mettere un velo sull’incomoda “presenza” del martire…». Ed un «velo» di silenzio calò sul truce episodio durante il Ventennio e sui due processi contro Balbo e gli altri responsabili, che furono assolti con una grottesca quanto ingiusta sentenza in Corte d’Assise nel luglio 1925. Né andò meglio nell’immediato secondo dopoguerra, quando nel 1947 i superstiti, condannati per omicidio preterintenzionale, furono mandati liberi per intervenuta amnistia. Come tanti crimini e misfatti del fascismo, come tanti crimini e misfatti del neofascismo nell’Italia repubblicana, l’assassinio di don Minzoni rimarrà un delitto impunito.

Francesco Soverina, storico