Mi sono avvicinato al volume francamente in punta di piedi, con un certo pudore. Le vite di quei Caduti, i loro affetti, il loro pensiero, la loro quotidianità. La possibilità di connetterci con loro e con il loro tempo e di raccoglierci attorno all’evento della vita spezzata. 335 uomini innocenti ammazzati da altri uomini. Colpisce la dinamica della catena di comando. C’è un rimpallo reciproco su chi deve materialmente eseguire l’ordine. Si contrappone la logica della mera esecuzione di ordini inappellabili al rifiuto, per alcuni, per ragioni di carattere morale o religioso. Alla fine, l’ordine è stato eseguito in un luogo diventato l’orrore del colonnello Kurtz di Apocalipse Now. Più in generale, colpisce la natura di guerra ai civili della tragedia delle Ardeatine, analogamente a tanti altri drammatici eventi dell’occupazione nazifascista in Italia.

Nel volume ho trovato il racconto vivo delle persone, oltre a un panorama molto articolato della città e dell’Italia del tempo, nella sua eterogeneità di generazioni, di attività professionali, di scelte politiche, di caratteristiche personali, di abitudini, di vita quotidiana. Uno spaccato che arriva nel profondo della società e delle sue contraddizioni. Assieme, ho trovato un catalogo di ragioni ideali perché, come scriveva Pilo Albertelli, intellettuale, autorevolissimo esponente del Partito d’Azione, membro del Comitato militare romano del CLN, “Occorre avere una ragione di vita e a questa sottomettere tutto”.

Renato Guttuso, Fosse Ardeatine

Non nascondo davvero una ammirazione per Mario Avagliano e per Marco Palmieri che hanno portato a compimento una ricostruzione biografica che non c’era ancora, se si esclude, come hanno scritto, il fascicolo di Attilio Ascarelli. Gli autori scrivono che hanno ricostruito e restituito la storia personale di tutti i Caduti. Mi ha colpito quel restituito. Si restituisce qualcosa che è stato tolto. Agli stessi Caduti, ai familiari, alla memoria civile.

Rav. Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma,eleva una preghiera ebraica
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Mi è parso, però, che questo lavoro non sia soltanto un atto di omaggio ai 335 Martiri e neppure soltanto il frutto di una minuziosa ricerca storica. Da questo punto di vista conoscevo da tempo le diverse pubblicazioni precedenti degli autori. Non soltanto questo, dicevo, perché il pregio del volume – a mio avviso – è anche nel suo valore come atto di resistenza civile in un tempo di acuto revisionismo politico, quando spesso la storia è affidata, meglio, occupata da dirigenti politici, sovente con cariche istituzionali, e quando la propaganda sostituisce la ricerca e ignora le fonti, le testimonianze, i documenti, le lettere, i diari.

Non parlo ovviamente del revisionismo fisiologico della ricerca storica, che è un continuo processo di aggiornamento e riscrittura degli eventi del passato in base a nuove evidenze della ricerca, come fonti, testimonianze, documenti. Parlo del revisionismo politico. L’esito della lettura politica revisionista della storia è una rappresentazione che non corrisponde alla realtà storica, svilisce la lotta di Liberazione e spesso insinua elementi di legittimazione del fascismo storico. Il revisionismo politico si rivela oggi prevalentemente attraverso discorsi, dichiarazioni, articoli sui media, anche volumi, ma raramente di storici. Quindi fa senso comune. Da ciò anche la funzione resistenziale di questo lavoro, perché ci fornisce gli strumenti per distinguere ciò che è da ciò che appare, la realtà dalla rappresentazione.

Sapete meglio di me che la grande maggioranza dei Caduti aveva una colpa: erano antifascisti. Una forte minoranza – 78, mi pare – aveva un’altra colpa: erano ebrei.

Ho parlato della eterogeneità di generazioni. Mi hanno colpito due nomi: Duilio Cibei e Michele Di Veroli, entrambi quindicenni, il primo ucciso col fratello Gino di 19 anni, il secondo col padre Attilio di 54 anni, padre e figlio ebrei. La scure troncava anche le vite di ragazzini. Leggendo le biografie dei Caduti ebrei si scopre anche la deportazione senza ritorno di tanti altri rastrellati nel Ghetto romano. Sconcerta la tragedia piuttosto nota della famiglia Di Consiglio. Sei maschi arrestati e poi assassinati alle Ardeatine. Di questi, tre avevano 17, 18 e 19 anni. Le donne e i bambini della famiglia ad Auschwitz, e là sono rimasti. L’epifania della persecuzione e della shoah.

(Imagoeconomica)

La maggioranza degli assassinati era affiliata alle formazioni impegnate nella lotta clandestina, in particolare il Partito d’Azione, il Partito Comunista, Bandiera Rossa, il PSIUP; e poi quelli del Fronte Militare Clandestino di Roma a cominciare dal colonnello Montezemolo e poi i dodici Carabinieri, e poi i massoni, e poi tanti altri, fra cui una figura particolare, quella di don Pietro Pappagallo: lo specchio dell’Italia antifascista del tempo e del pluralismo degli antifascisti.

(Imagoeconomica)

Una parte rilevantissima dei Caduti passò da via Tasso o da altri luoghi di detenzione e tortura e fu sottoposta a supplizi di ogni genere. Leggendo le biografie si scopre che moltissimi di loro erano stati arrestati per la soffiata di spie e delatori, a cominciare dalla tragedia della famiglia Di Consiglio. E questo, in qualche modo, mi pare che ci interroghi. Dico paradossalmente – specifico, paradossalmente – che sarebbe di un qualche interesse una storia, seppure immeritata, delle spie e dei delatori.

(Imagoeconomica)

Perché c’erano tanti delatori? E chi erano questi delatori? Alcuni ovviamente fascisti, altri ovviamente per interesse personale; ci ricordano gli autori che c’era una taglia di 5mila lire per ogni ebreo catturato. Si può parlare di una sindrome di Efialte? Efialte di Trachis, il traditore delle Termopili? C’erano sicuramente elementi di sfascio morale, di imbarbarimento, di decomposizione della convivenza civile in conseguenza di vent’anni di fascismo, della guerra, dell’occupazione e del regime di Salò, cui si contrapponeva una resistenza sorda e diffusa che andava ben oltre chi contrastava i nazifascisti in clandestinità e copriva una rilevantissima parte della società romana. Si diceva allora che “metà Roma nasconde l’altra metà”.

Poi c’erano gli sgherri e i torturatori. Oltre alle bande, fra cui la banda Kock, leggevo, nel volume, delle SS italiane. Riporto a che cosa ci si sottoponeva il primo giorno dell’arruolamento delle SS italiane:Davanti a Dio, presto questo sacro giuramento, che nella lotta per la mia patria italiana contro i suoi nemici sarò in maniera assoluta obbediente ad Adolf Hitler. Gli italiani che giurano fedeltà al capo del nazismo.

Il processo nel dopoguerra la questore Caruso

Certo, il grosso del lavoro lo hanno svolto i tedeschi, ma italiani erano delatori e spie, italiane erano le bande, italiano era il questore Caruso e il pavido ministro Guido Buffarini Guidi. Certo, la responsabilità primaria era della gerarchia tedesca, ma c’è una inconfutabile responsabilità dei fascisti italiani. “Oltre la metà delle vittime – scrivono gli autori – è arrestata da italiani, o autonomamente o in collaborazione con i tedeschi”. Ecco, alle Fosse Ardeatine cade ogni tentativo di distinguere o addirittura di contrapporre le responsabilità del fascismo da quelle del nazismo.

Quanto basta per rendere indifendibile l’affermazione che i Martiri furono sterminati solo perché italiani. Comunisti badogliani, per i tedeschi. Ovviamente nella quasi totalità – ma non tutti – erano italiani; e tanti di loro difendevano l’amor di Patria, come ci ricorda l’epigrafe del volume, “questa bella Italia così martoriata”. Ma non furono uccisi perché italiani. Furono uccisi perché antifascisti o perché ebrei. E affermare che furono uccisi solo perché italiani può significare sia il nascondere le responsabilità dei fascisti italiani, sia il rifiutarsi di riconoscere il valore storicamente determinato, cioè incarnato nei corpi dei Caduti, dell’antifascismo.

Ma, più in generale, c’è ancora qualcosa in questa rappresentazione revisionista: presentare sempre una coppia di opposti: l’italiano e l’altro, dove dell’italiano si fa un mito per di più assai pericoloso perché apre le porte ad ogni irredentismo, dove l’altro coincide col nemico, dove alla Patria che è amata e che rispetta le altre patrie è sostituito il culto metastorico della Nazione, come nocciolo duro del nazionalismo. Dalla Carta del lavoro, il documento fondamentale dello Stato corporativo, legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 1927: “La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista”.

Così l’idea di Nazione coincide con quella di un popolo omogeneo che esclude ebrei, antifascisti, comunisti, minoranze politiche, etniche, sociali, e che si riduce ad un unicum, che nella versione del ventennio era lo Stato fascista.

Questo libro è un nuovo monumento all’eccidio simbolo della Resistenza, cioè in senso etimologico rende permanente il ricordo, la memoria. Io mi chiedo francamente quanto di questo ricordo sia sedimentato nella coscienza civile degli italiani oggi. Leggevo in questi giorni delle celebrazioni, delle iniziative nelle scuole, delle visite al Portico di Ottavia e a via Tasso. Benissimo le iniziative del Comune di Roma. Ma mi chiedo: Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Risiera di San Saba. Credo che questi quattro siano i luoghi di morte per mano nazifascista più noti nel Paese. Sono davvero così noti? O c’è ancora da fare un’opera di formazione continua, diffusa, pervasiva che riguarda in particolare le giovani generazioni su scala nazionale? E ancora: ci sono centinaia di altri luoghi dove sono avvenute stragi orribili ma sono del tutto sconosciuti all’opinione pubblica; penso a Monchio sull’appennino modenese, 18 marzo 1944, 134 cadaveri, ci sono stato pochi giorni fa, e poi Padule di Fucecchio, Cavriglia, Vinca, San Terenzo Monti, Pisino, Fosse del Frigido, Civitella, Castello di Codego, Pietransieri, Monte di Nese, Vallucciole, solo per indicare le stragi con numero di vittime superiore a cento. E forse ne ho dimenticato qualcuna. Chi le ricorda, se non la gente di quella provincia o comunque di quella terra?

(imagoeconomica)

L’Atlante delle stragi, una sorta di banca dati costruita dall’ANPI e dall’Istituto Ferruccio Parri, ha costituito un elemento basico per la ricostruzione di questi eventi ma non è diventato patrimonio in qualche modo di un comune sentire nazionale. Penso che in particolare nella contingenza storica e politica che attraversa il nostro Paese e l’intera Europa, occorra mettere a tema come oggetto del dibattito pubblico anche le stragi nazifasciste. Perché? Ancora una volta per contrastare la rappresentazione o, peggio, la mitopoiesi, con la memoria della realtà, la nuda realtà, la cruda realtà, per esempio delle Ardeatine, col suo infinito carico di umanità e di dolore, con la mattanza di innocenti, con le responsabilità dei nazisti, da Priebke a Kappler, quelle degli italiani, da Caruso a Buffarini Guidi, con la scoperta della montagna di cadaveri, con le biografie dei martiri, quasi disegni, per cui spesso gli autori, prima ancora di parlare della loro vita, si soffermano sulla corporatura, sui tratti del volto, sul colore dei capelli e sulla pettinatura, come un vento, una carezza sul ricordo di ciascuno di loro.

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi (Imagoeconomica)

Leggo così le bellissime parole con cui si conclude l’introduzione, ove è scritto: “Con questo lavoro di ricerca, che ci ha commosso e appassionato e ci riempie di orgoglio per il suo valore civile oltre che storiografico, abbiamo per la prima volta raccontato la storia di tutte le vittime”.

Grazie Mario. Grazie Marco.

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale ANPI