Gaza, con la tregua Il ritorno dei profughi nelle case distrutte

Palestina: pace? Diciamo più correttamente tregua o meglio ancora armistizio. In Palestina, al di là delle frasi di Trump e del rapido allineamento di tutti i Paesi, c’è ancora tantissimo da fare. Anzi, quasi tutto. Lo dimostrano i “pesanti attacchi” israeliani decisi da Netanyahu che hanno provocato cento morti e oltre 200 feriti in reazione all’uccisione di un soldato Idf a Gaza sud, e alla mancata restituzione dei corpi di tredici ostaggi. Ora sembra ritornato il cessate il fuoco, ma quanto terrà? Non c’è dubbio che la fine dei massacri della popolazione civile è un fatto di grandissima importanza: il massacro ha scosso le coscienze e ha prodotto una presenza di massa nelle strade e nelle piazze come da tempo non si vedeva. Certo, molti hanno manifestato per ragioni politiche, di sostegno e simpatia con i palestinesi popolo oppresso ma il senso di umanità è ciò che ha fatto la differenza.

(Imagoeconomica, Andrea Di Biagio)

La vera, importante novità è questo carattere del movimento che ha animato l’Italia: e va pur detto – ricordato e rivendicato – che l’ANPI abbia saputo essere interprete di questa grande spinta umanitaria promovendo insieme a Emergency la raccolta di fondi per un ospedale a Gaza, il cui risultato è stato di gran lunga più alto di quanto si immaginava.

La clinica di Emergency a Gaza (foto Emergency)

Diciamo subito che per lunga esperienza da un lato e per il rispetto vero, non a parole, delle migliaia che hanno scelto la partecipazione, dei giovani come degli anziani, degli studenti come delle famiglie, dall’altro, infastidisce la corsa a “mettere il cappello”, a pronosticare frettolosamente “avvisi di sfratto al governo”, a immaginare che “la piazza” (quanto futurismo in questi approcci! ma non quello alto e importante del simpatizzante socialista Boccioni) possa sostituire la politica e la proposta alternativa di governo. Anche se ne fa parte una reazione etica al galleggiamento del governo tra non fare sgarbi a Trump e al suo sodale Netanyahu (seguace o guida a seconda dei casi) e preoccuparsi per le manifestazioni… insultandole.

Boccioni, “Visioni simultanee”, 1912

Non c’è dubbio infatti che quando la sensibilità e la coscienza diventano di massa, qualcosa si muove: ma poi vanno definite forme, modi, direzione, obiettivi: tutto questo si chiamava un tempo politica, e oggi… anche!

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

E la politica ha bisogno, per rifondarsi – non si tratta di nulla meno di questo – di ancorarsi alle esigenze concrete di costruzione di un nuovo senso civico e partecipativo che avrà tanto più valore quanto meno sarà alimentato da slogan invece che dalla concretezza e materialità dell’impegno. Poi ciascuno, individualmente e collettivamente, sceglierà strada strumenti e tempi propri, come è stato per tutte le generazioni e le esperienze: con le persone si ragiona, con i soggetti politici ci si confronta e ci si misura, i movimenti crescono da soli come effetto dell’insieme dei rapporti e dei processi. Mai scambiare gli uni con gli altri: oltretutto a nessuno è riconosciuto un ruolo a prescindere da ciò che fa e sostiene concretamente adesso, come insegna la storia dei movimenti di massa.

Torniamo alla Palestina, però, perché la drammaticità della situazione – che perdura anche nel tempo della tregua – richiede di mantenere attenzione e impegno.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

L’accordo è fragile e può ridursi a una tregua solo temporanea, come dimostrano queste scorse ore. Si è giunti al cessate il fuoco per l’isolamento internazionale di Israele e degli Stati Uniti, grazie al movimento di protesta contro l’eccidio di Gaza in tutto il mondo, Italia compresa, e per il ruolo di mediazione di numerosi Paesi arabi e islamici come la Turchia, il Qatar, l’Egitto, l’Indonesia, e il Vaticano. E il silenzio sostanziale della Russia, quello formale di Cina e Iran – pur dovuto a ragioni diverse – segnala consenso o almeno assenso.

Cerimonia per la firma della pace in Medio Oriente (Imagoeconomica, via Ilham Alyev)

Vanno acquisite e consolidate le tappe indicate nella tregua e soprattutto vanno definite guida, finalità, composizione, operatività, responsabilità della presenza militare di pace – cioè il ruolo che l’ONU deve riprendere e assumere pienamente, anche per reagire alla inaccettabile e provocatoria politica USA nei suoi confronti, coerente solo con il disprezzo esibito da Israele verso l’Assemblea; vanno precisate modalità e organi che governino Gaza e sovraintendano al processo di ricomposizione e ricostruzione, per fare maturare in questo processo la nascita effettiva dello Stato di Palestina.

Netanyahu all’Onu. I Paesi della “maledizione” ne fanno parte dal 1945

Non si può realizzare questo, che è la pietra su cui poggiano le possibilità di una svolta, se non si verifica l’affermazione di uno o più soggetti politici in grado di sostenere questo processo. Dobbiamo essere consapevoli di tale Stato non esiste precedente nella storia e che i protagonisti attuali – Hamas e Anp, senza dimenticare le tante “famiglie” e gruppi, minori ma non meno preoccupanti – devono cambiare profondamente.

La liberazione di Marwan Barghouti fa parte di questo percorso, per ragioni umanitarie e per la ragione politica essenziale che occorre mettere pienamente in campo tutte le personalità che abbiano prestigio e autorevolezza.

Murale dedicato a Marwan Barghouti, considerato considerato una delle più importanti figure politiche palestinesi è imprigionato nelle carceri israeliane da 20 anni

E va tenuto conto che altri attori – gli Stati dell’area mediterranea e del Golfo – sono profondamente coinvolti, oggi per fortuna nell’impegno diplomatico ma domani in quello della ricostruzione e dei propri (più o meno legittimi ed illuminati) programmi di sviluppo e di potenza almeno regionale, pur avendo giocato in passato ruoli non precisamente orientati in favore del riscatto palestinese.

E poi c’è la partita da giocare in Israele, perché adesso deve potersi sviluppare il processo politico che negli ultimi due anni ha visto le ampie contestazioni popolari alla corsa a destra autoritaria e integralista di Netanyahu ma anche il consenso ad alcune delle iniziative più preoccupanti, come nel caso dei bombardamenti sull’Iran. E occorre anche porsi il problema delle comunità ebraiche nei vari Paesi, che riguarda gli Usa e la UE: anche in quei contesti la tragedia di Gaza ha prodotto effetti enormi e la strada per la ricostruzione implica anche la maturazione di orientamenti diversi da quelli consolidati negli ultimi trent’anni. Anche nelle comunità c’è una destra e una sinistra, componenti democratiche e componenti integraliste, laici e “clericali”: la dialettica e il pluralismo fanno bene a tutti e le vicende di questi anni, a partire dal concreto governo di Netanyahu, sono il fattore che non può essere aggirato.

Cosa possiamo fare noi, in un altro Paese, che non vogliamo ridurci a essere spettatori ed anzi abbiamo contribuito alla crescita del movimento popolare di solidarietà e per la pace?

L’ANPI, parte attiva del movimento per la pace, è impegnata nel sostegno a tutte le attività umanitarie, alla presenza delle organizzazioni non governative, garanti della giusta ed equa distribuzione degli aiuti sanitari e umanitari, importante contributo alla tenuta della tregua fino alla reale pacificazione tra le parti e fino alla ricostruzione, nella prospettiva dell’avvio della costituzione di uno Stato palestinese, in uno scenario di due popoli in due Stati in reciproca sicurezza. Siamo parte del movimento ma siamo un soggetto che deve svolgere una funzione specifica, di sollecitazione alla conoscenza e consapevolezza dei problemi, di stimolo alle forze politiche perché trovino ragioni e modalità di cambiamento di passo e di impegno costruttivo ed unitario, di critica all’opera di governo e Parlamento perché operino nel rispetto non solo di quanto dice la Costituzione ma soprattutto della necessaria coerenza con le finalità della sua impostazione internazionalista.

In generale, l’iniziativa deve per un verso continuare come è iniziata e per un altro cambiare profondamente.

Deve in primo luogo continuare l’azione di solidarietà operante, per interventi diretti nelle aree devastate di Gaza. Oltre ai già citati fondi raccolti per l’ospedale a Gaza, c’è stata la straordinaria raccolta di mezzi di sostentamento come base per l’azione non solo simbolica della Flotilla e centinaia di altre forme di raccolta di mezzi e merci in tutto il Paese. Nella prospettiva della ricostruzione si può pensare anche a ulteriori e diverse presenze di sostegno attivo: e troverei particolarmente significativo se ci fossero addirittura brigate di lavoro solidale, come avvenne quando Israele era un Paese quasi socialista…

Deve, in secondo luogo, iniziare (assai più che continuare, perché come diceva un poeta “fino a quel punto si limitarono all’invettiva”) una pressione sul governo e sul mondo produttivo e del credito perché la ricostruzione avvenga in forme, modalità e indirizzi rispettosi delle realtà locali e non cedendo alla tentazione di “sedersi a tavola” per spartire il pranzo. “Di questo impegno deve fare parte anche l’avvio di una soluzione alla progressiva occupazione della Cisgiordania con gli insediamenti dei coloni israeliani. Pur facendo parte del più ampio problema dell’occupazione che dura dal 1967 di altre porzioni di territorio – a partire dal Golan e in spregio delle numerose risoluzioni ONU in proposito – questa ha urgenza specifica sia perché connessa strutturalmente con la definizione dello Stato palestinese e la continuità territoriale con Gaza sia perché è il cuore della possibilità che il nuovo stato abbia una ragionevole base economica per vivere e svilupparsi”.

Deve, in terzo luogo, svilupparsi una azione politica perché dopo due anni di colpevoli silenzi, doppiopesismo e opportunismo filogovernativo verso Israele e gli USA, l’Unione Europea si ricordi di sé stessa, di dover recuperare le pesanti responsabilità storiche di Francia, Germania e Regno Unito nell’avvio e nella crescita di un dramma storico e umano, svolgendo un ruolo pacificatore nell’area e di promozione economica e sociale nella ricostruzione. Meglio stiano lontani dalle truppe sovranazionali e dalla gestione diretta di organismi: sviluppino, a partire dal riconoscimento dello Stato di Palestina (condizione basilare per una pace reale è che i contendenti siano posti sullo stesso piano non alla fine ma all’inizio del processo di pace), una politica nel e del Mediterraneo, autonoma dai sogni asiatici degli USA e attenta invece all’Africa, continente del (presente e tanto più) futuro.

Da ultimo ma non per ultimo: il movimento popolare è un protagonista ed è necessario, a me pare, che svolga una funzione diversa da quella condotta finora. C’è stato bisogno di una denuncia fortissima, di una presa di posizione a favore dell’umanità che ci rende uguali e liberi. Adesso c’è bisogno di stare a fianco delle forze positive e di progresso che in tutto il Medio Oriente, in Palestina come in Israele e anche negli altri Paesi, si impegnano da qui in avanti per trasformare la tregua in pace, la distruzione in ricostruzione materiale, politica e morale di quelle terre.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Gli slogan sono più importanti adesso di prima: sono dannose le posizioni sintetizzate nella nota espressione “Palestina libera dal fiume al mare” che significa nulla di diverso dalla ripresa dei combattimenti; sono sbagliate le posizioni di quanti non danno peso allo scontro politico all’interno di Israele come anche all’interno delle comunità palestinesi. E sono pura propaganda emozionale quanto poco meditata le concessioni di cittadinanza onoraria.

(Imgoeconomica, Saverio De Giglio)

Nessun passo in avanti verrà fatto se in entrambe le comunità non verranno sconfitte ed emarginate le forze retrive e integraliste, tra loro simmetriche e non a caso legate da legami nemmeno più tanto oscuri.

E una cosa va detta anche per la politica italiana: una forte anima di impegno internazionale ed internazionalista fa parte del campo progressista e democratico del nostro Paese. Guai a noi se si pensasse che questo possa sostituire l’impegno serrato per risolvere i problemi italiani, con parole alate di omaggio al movimento di massa, salvo darne una lettura di politica interna o ripetere frasi fatte e stanche di omaggio alle giovani generazioni.

(Imagoeconomica, Saverio De GigliO)

A molti – quelli accomunati dall’appartenere ad una specifica fascia di età – torna in mente il significato che ebbe la solidarietà con il Vietnam: tutto bello e giusto, a condizione di ricordare che sono passati oltre 50 anni, che la storia si ripete solo per chi non ha voglia di riflettere e capire le novità, che c’era un bipolarismo che era anche un principio di organizzazione dell’equilibrio mondiale. Di tutto ciò non vi è traccia e il compito di oggi è costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali e di sicurezza collettiva, nell’epoca delle grandi sfide – queste sì esistenziali – come l’ambiente e il clima, l’energia, la demografia, la transizione tecnologica, con nuovi protagonisti, stati quando non interi continenti come nel caso dell’Africa.

I paradigmi della storia precedente sono più che inadeguati, perché la frontiera democratica è quella di un mondo nuovo. E noi vogliamo provare a portare in esso i principi democratici, di convivenza civile, emancipazione e libertà che sono ciò che ci permette di portare con orgoglio il nome dell’ANPI.

Alessandro Pollio Salimbeni, vicepresidente nazionale Anpi