Anteo Zamboni, al centro, con la sua famiglia

“Anteo, ma che hai fatto!”. La sera di domenica 31 ottobre 1926, durante i festeggiamenti per l’anniversario della marcia su Roma, Mussolini si trovava a Bologna, dove si era recato il giorno prima per inaugurare lo stadio Littoriale. Alla fine delle celebrazioni, il duce venne accompagnato verso la stazione a bordo di un’Alfa Romeo scoperta. Anteo Zamboni, 14 anni, fattorino nella tipografia del padre, era appostato tra la folla. Mentre l’automobile rallentava per svoltare, sparò contro Mussolini, mancandolo.

Il giovane Zamboni avrebbe agito per iniziativa personale, senza alcuna complicità? Oppure. Era l’esecutore di un complotto ordito dai familiari, di estrazione anarchica? Ancora. Era la mano armata di un attentato organizzato dagli ambienti dell’intransigente fascista per antonomasia, il “ras di Cremona”, Roberto Farinacci, estromesso a marzo dalla segreteria del partito? In ultimo. Pedina di una architettura costruita dalla polizia al fine di avere un pretesto per la repressione degli oppositori? Forse un regolare processo avrebbe potuto offrire elementi di chiarezza, per il fatto in sé, e anche per la storia.

Ma è il 1926, l’anno IV dell’era fascista. Dopo l’omicidio Matteotti; il discorso alla Camera dei deputati del 3 gennaio 1925, quello delle “responsabilità, storiche, politiche e morali” (ma non quelle penali); l’allontanamento dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, (legge 24 dicembre 1925 n° 2300); la trasformazione del ruolo del presidente del Consiglio in Capo del governo, Primo ministro e segretario di Stato, escludendo il rapporto di fiducia tra parlamento e governo (legge 24 dicembre 1925 n° 2263); l’eliminazione dei Consigli comunali e dell’elezione dei sindaci, nominando al loro posto un podestà (legge 4 febbraio 1926 n° 237).

Squadristi nelle strade con un fantoccio e cartelli con i nomi dei quattro “autori” degli attentati alla vita del dittatore

E, soprattutto, con un pezzo armato del partito che si occupa di sicurezza dello Stato, i regolari processi che senso hanno? Anteo Zamboni è individuato, linciato e ucciso. Immediatamente. Dalle memorie di Federzoni (in M. Scurati “L’uomo della provvidenza”): “Quel fatto fu assai misterioso. Presumibilmente l’attentatore non fu il giovanetto Anteo Zamboni, pugnalato nel trambusto non si seppe mai da chi.

Le autorità locali procedettero incerte e lente nelle investigazioni, come se fossero incappate in uno strano imbarazzo”. Il questore di Bologna in una telefonata col capo della Polizia (Scurati, “L’uomo della provvidenza”) mostrava  suoi dubbi: “È prematuro esprimere un’opinione in proposito, ma, data la precisione del tiro, stento a credere che sia stato il ragazzo a sparare e ritengo che la sua morte sia servita a mascherare qualche intrigo più complesso”.

È troppo facile, dunque, associare all’azione di Anteo Zamboni le norme repressive successive.

Errore che spesso, soprattutto per chi ha atteggiamenti giustificanti verso il fascismo, compie. Attribuire ad un 14enne responsabilità che la giustizia non ha voluto o potuto constatare, se si trattava cioè di una azione personale, famigliare o verificare i fondati dubbi su qualcuno vicino al Duce e al regime, è superficiale e fuorviante rispetto a quello che stava già succedendo. “Anteo, ma che hai fatto!”. Semplice, il capro espiatorio.

Arturo Bocchini, capo della polizia dal 1926 alla morte, nel 1940. Creò un apparato alle dirette dipendenze di Mussolini. La foto è del 1931 nel 6º anniversario del corpo di pubblica sicurezza

Come sempre sono le scelte politiche che spiegano i fatti, non i dubbi irrisolti. Di fatto già era in vigore una delle leggi dei “novembre neri” del fascismo. La legge 26 novembre 1925 n° 2029: “Regolarizzazione dell’attività delle Associazioni, Enti ed Istituti e dell’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle Provincie, dai Comuni e da Istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”. Le associazioni, enti e istituti operanti nel Regno furono obbligati a fornire statuto, regolamenti ed elenchi delle cariche e dei soci ogni volta che le autorità di pubblica sicurezza ne facessero richiesta “per ragioni di ordine o di sicurezza pubblica”. Nei casi di omessa, falsa o incompiuta dichiarazione, un decreto prefettizio poteva procedere allo scioglimento; furono inoltre previste sanzioni detentive e pecuniarie. I funzionari, impiegati e agenti civili e militari dello Stato e delle amministrazioni pubbliche erano tenuti su richiesta “a dichiarare se appartennero o appartengano, anche in qualità di semplici soci ad Associazioni, Enti ed Istituti di qualunque specie costituiti od operanti nel Regno o fuori”. Inoltre, quanti di essi appartenevano, “anche in qualità di semplice socio, ad Associazioni, Enti od Istituti costituiti nel Regno, o fuori od operanti, anche solo in parte, in modo clandestino od occulto o i cui soci sono comunque, vincolati dal segreto, sono destituiti e rimossi dal grado o dall’impiego o comunque licenziati”.

I soli due articoli di questa legge propongono, in stile con le precedenti, un obiettivo alto per porre l’attenzione su un interesse generale per lo Stato, per mascherare le vere volontà. Dunque, col pretesto di colpire eventuali associazioni segrete o eversive, si colpiscono tutte con un solo obiettivo: il controllo del territorio. Consegnare alla Pubblica sicurezza, solo su semplice richiesta, lo statuto, significa conoscere i motivi per cui esiste quella associazione; consegnare il regolamento significa conoscere come funziona quella associazione; consegnare l’elenco soci significa sapere quantità numerica e in dirizzo di ognuno, soprattutto sapere chi è che le guida.

Mussolini e Luigi Federzoni, che fu in principio ministro per le colonie, dopo l’omicidio Matteotti venne scelto dal duce per la carica di ministro degli Interni, ricoperta dal 1924 al 1926 (fu lui a indicare Bocchini come capo della polizia); in seguito, dal 1929 e per dieci anni, fu presidente del senato

La domanda è: perché la Pubblica sicurezza dovrebbe fare richiesta di tali documenti? Prefetto e polizia sono “dipendenti” del ministro dell’Interno. Ma chi è al Viminale in quel momento? No, non è Benito Mussolini. Il duce si è dimesso dalla carica che deteneva dal 31 ottobre 1922, il 17 giugno 1924 subito dopo il rapimento di Giacomo Matteotti. La carica, dunque, è ricoperta da Luigi Federzoni (nel 1925 firmatario del manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile), leader del movimento nazionalista e protagonista dello stesso per la fusione col partito nazionale fascista. Federzoni, da ministro subalterno per legge al Primo ministro Benito Mussolini, con una legge da lui varata in qualità di ministro dell’Interno, è protagonista dell’emanazioni delle leggi fascistissime fin qui elencate.

Squadristi veronesi con Roberto Farinacci (al centro)

Fino al 6 novembre 1926 quando, pare per dissidi con l’ala radicale del partito guidata dal “ras di Cremona” Roberto Farinacci, Federzoni si dimette. L’applicazione della legge e i motivi per cui ci si poteva avvalere, si ascrivono al controllo politico del territorio per conoscerne le diverse composizioni.

Il 6 novembre 1926, riprende la guida del Viminale, sua eccellenza cavalier Benito Mussolini, carica che terrà, insieme a tutte le altre, fino al 25 luglio 1943. Nessun altro gerarca o fiero italico fascista o fido cortigiano era in grado di ricoprire quella carica? Il duce non si fidava “dei suoi”?

Fascicoli del Casellario politico centrale. Sono ora conservati all’Archivio centrale dello Stato, a Roma

Destino vuole, dunque, che anche il novembre 1926 lasci un profondo segno nero. Il 6 novembre 1926 viene emanato il regio decreto n° 1848: “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”. Con tali disposizioni vengono ampliati i poteri dei prefetti: possono sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche; istituisce, inoltre, il confino come sanzione principale nei confronti dei soggetti contro il regime. Il testo costituito di 224 articoli dedicava molto spazio alle misure di prevenzione alla repressione del dissenso politico e dotava di maggiore effettività l’applicazione di un istituto giuridico già presente nell’ordinamento: il confino.

Ventotene, isola divenne l’isola del confino per numerosi antifascisti, tra cui Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Eugenio Colorni, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio

Questa misura era stata già introdotta nel 1865, prevedeva l’allontanamento dalla società di vagabondi recidivi, agli oziosi e ai sospetti di alcuni reati. Nelle successive modifiche del testo (1871, 1889, 1894), i confinati erano persone che commettevano delitti o reati. La misura diveniva, cioè, applicabile nei confronti di chiunque fosse stato processato per delitti contro l’ordine e l’incolumità pubblica, nonché nei confronti dei promotori delle associazioni contro gli ordinamenti sociali. Nel 1926 venne estesa ben oltre una generica area di emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del controllo poliziesco del fascismo. Nel solo periodo novembre-dicembre 1926 vi furono ben 900 assegnazioni al confino di oppositori al regime. Secondo l’art. 185 del regio decreto, il confino di polizia si estendeva da uno a cinque anni e si scontava, con l’obbligo del lavoro, in una colonia o in un comune del regno diverso dalla residenza del confinato. Con questa norma chi dissente è equiparato a chi ruba, uccide, o chi delinque in genere verso la persona o lo Stato.

Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato

Il novembre nero del 1926 non è finito. Ecco la legge 25 novembre 1926 n° 2008: “Provvedimenti per la difesa dello Stato”. Il ministro della Giustizia è Alfredo Rocco, la legge è chiarissima:

  • 1: qualunque attentato diretto contro le persone del Re, della Regina, del Reggente, del Principe ereditario e del Primo Ministro viene sanzionato con la pena di morte;
  • 3: l’istigazione all’attentato, a mezzo stampa, diventa un reato specifico punito con la reclusione da 15 a 30 anni;
  • 5: la diffusione all’estero di “voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato” tali da nuocere al prestigio statale o agli interessi nazionali, comporta la reclusione da 5 a 15 anni, accompagnata dall’interdizione permanente dei pubblici uffici, dalla perdita immediata della cittadinanza italiana e dalla confisca dei beni;
  • 7: per applicare il “provvedimento per la difesa dello Stato” venne istituito il Tribunale speciale. Le sentenze del Tribunale speciale erano immediatamente esecutive e inappellabili.
Lo Statuto Albertino (1848)

Dunque con l’articolo 1 viene reintrodotta in Italia la pena di morte. Il Re firma un provvedimento che sconfessa lo Statuto Albertino che l’aveva esclusa. Nel preambolo autografo dello stesso Carlo Alberto lo Statuto viene definito come “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia sabauda”. Malgrado il carattere “perpetuo” e “irrevocabile”, lo Statuto Albertino, in quanto costituzione flessibile, poteva essere modificato o integrato con legge adottata secondo la procedura ordinaria. Mussolini lo sapeva bene. Al congresso del partito nazionale fascista, tenuto a Roma dal 21 al 25 giugno 1925, nel suo intervento cita lo Statuto Albertino in questo modo: Ho una grande venerazione per lo Statuto. Ma lo Statuto, o signori, non può essere un gancio al quale si debbano impiccare tutte le generazioni italiane. Lo stesso Cavour diceva che lo Statuto è modificabile. Ma poi voglio dichiararvi ancora che non è vero che le istituzioni non possano diventare fasciste, debbono esserlo!” Dunque, modificare la legge fondamentale dello Stato, era per Mussolini, il modo per fascistizzare l’Italia. E il Re firma tutte le leggi fascistissime.

Antifascisti incatenati e avviati al confino. Gli ultimi due a destra sono Ferruccio Parri e Carlo Rosselli

Le leggi costituzionali sono presenti nell’ordinamento italiano solo a partire dalla Costituzione repubblicana del 1948, che è rigida. Diceva Paolo Rossi (Psiup), membro della commissione dei 75 in costituente e relatore sulle garanzie costituzionali: Ciò che si deve pretendere è che la Costituzione sia posta al riparo dalle transitorie oscillazioni della politica e da quegli improvvisi ed effimeri scarti d’umore da cui i popoli, e il nostro specialmente, non sono più immuni degli individui”. Piccola divagazione, ma necessaria perché sempre attuale.

Con gli articoli 3 e 5 legge 25 novembre 1926, non si può criticare il regime né con la parola, né con lo scritto. Guai a criticare il duce o il re in pubblico.  Perché nuoce al prestigio statale.

Mussolini in uniforme con il presidente e i componenti del Tribunale speciale per la difesa dello stato nel 1929

L’articolo 7 istituisce la magistratura politica. Il Tribunale speciale è composto da un presidente scelto tra gli ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale provenivano altri cinque giudici, ed un relatore scelto tra il personale della giustizia militare.

Il Tribunale era in definitiva, un vero e proprio organo di giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzie difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio dell’avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura, impossibilità della libertà provvisoria, non si poteva ricorrere in Cassazione per le sentenze, inesistenza di altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della revisione. Quest’ultima, peraltro, era affidata ad un Consiglio di revisione composto anch’esso da membri scelti tra gli ufficiali dell’esercito e della milizia fascista e presieduto dallo stesso presidente del collegio di primo grado.

L’apparato legislativo repressivo del regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il confino diventerà  il più utilizzato strumento contro gli avversari politici. La genericità delle norme, basate sulla prevalenza dei momenti soggettivi e sganciate da una concreta pericolosità sociale, consentirà un controllo del dissenso molto più penetrante del ricorso ai delitti politici codificati.

Qualche numero dall’attività del Tribunale Speciale: operativo dal 1° febbraio 1927 al 25 luglio 1943. Imputati: 5.619 persone. Condannati: 4.596. Uomini 4.497, donne 122, minorenni 697. Operai e artigiani 3.898, contadini 546, liberi professionisti 221. Anni totali di prigione: 27.735. Condanne a morte 42 di cui 31 eseguite, 3 gli ergastoli.

Con la nuova misura, dunque, “i peccatori verso il regime fascista” accedono al confino. Cioè tutti coloro che in qualche modo deviano dal “comune sentire” fascista, dimostrando, anche solo vagamente, la loro dissonanza con i valori della nazione e con i suoi simboli. Antifascisti veri o presunti, semplici mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di questa sanzione che, per l’agilità della procedura e l’ampia discrezionalità, diventa il mezzo più veloce per eliminare soggetti pericolosi o soltanto fastidiosi. A questi si aggiungeranno, con l’abbraccio mortale della Germania e l’entrata in guerra, gli ebrei, i rom, gli irredentisti slavi e tutti i nuovi oppositori politici.

Sotto l’implacabile scure del confino passò un numero altissimo di italiani. Con nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati solo per aver pronunciato, in un momento d’ira, invettive contro il duce. Tutti furono prima arrestati e poi inviati in zone dove dovevano perdere il contatto con il proprio retroterra, affinché fossero messi in condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una migrazione interna di vaste proporzioni che aveva come unico obiettivo quello di ridurre al silenzio quanti si opponevano all’unicità di pensiero del capo. Una vera e propria “persecuzione”, dunque, ma, come ogni persecuzione, essa fu anche la culla, per coloro che continuarono a tenere duro, nella quale crebbe il senso della democrazia e della tolleranza.

Nel frattempo, in Italia nel 1926

Stato e istituzioni

16 febbraio: muore in esilio a Parigi Piero Gobetti, più volte aggredito dai fascisti

3 aprile: istituita l’Opera nazionale balilla

3 aprile: disciplina giuridica dei rapporti di lavoro. Riconosciute solo due organizzazioni sindacali, per imprenditori e per lavoratori; divieto di sciopero e serrata; istituita la magistratura del lavoro

12 aprile: muore a Cannes Giovanni Amendola, più volte aggredito dai fascisti

19 aprile: accordo tra Italia e Gran Bretagna. Riconosciuto all’Italia il diritto di espansione economica in Etiopia

2 luglio: istituito il Ministero delle corporazioni. Primo titolare è Benito Mussolini.

8 ottobre: il Gran Consiglio approva il nuovo statuto del PNF. Nomina non più elettiva ma dall’alto delle cariche

1° novembre: sospesi i giornali Il Mondo, La Voce Repubblicana, l’Avanti”, La Stampa, Il Gazzettino, Il Giornale di Sicilia, L’Ora;

1° novembre: assalto di fascisti contro l’abitazione di Emilio Lussu, fondatore del Partito sardo d’azione, che è arrestato

8 novembre: arresto di Gramsci e dell’intero gruppo dirigente del Pcd’I

9 novembre: i deputati aventiniani e quelli comunisti sono dichiarati decaduti

12 dicembre: fascio littorio dichiarato emblema di Stato; data dell’”era fascista” aggiunta agli atti ufficiali

I beni dell’intelletto

27 marzo: edito a Milano il settimanale Quarto Stato, diretto da Pietro Nenni e Carlo Rosselli

25 aprile: prima rappresentazione alla Scala di Milano dell’opera di Puccini “Turandot”

10 dicembre: conferito il premio Nobel per la letteratura a Grazia Deledda

Cronaca, costume, sport

4 gennaio: muore a Bordighera la regina madre Margherita di Savoia

31 gennaio: istituito il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI)

21 marzo: Milano-Sanremo vinta da Costante Girardengo

1° aprile: inaugurato a Torino il primo collegamento aereo con servizio passeggeri d’Italia, tra Trieste e Torino

23 agosto: campionato di calcio vinto dalla Juventus

5 settembre: gran premio automobilistico d’Italia vinto a Monza da Louis Charavel su Bugatti

Giro d’Italia di ciclismo vinto da Giovanni Brunero.

Conclusione. Nel 1926 un brano risuona ripetutamente nelle orecchie degli italiani, “Creola” qui cantata da Fernando Crivelli

La canzone è un tango in cui si mescolano accenti erotici ed esotici e un po’ di non-sense. Insomma, il popolo ha bisogno di distrarsi e allora sogna belle donne e amori lussuriosi dall’altra parte del mondo. Anche perché il nostro mondo, il mondo italiano del novembre 1926, ci accompagna nel regime aprendo una nuova pagina nella storia istituzionale della storia italiana. Ossia uno stato autoritario dalla forte componente ideologica, di tipo nazionalista, centralista, statalista, corporativista ed imperialista in cui pensare è delitto. Il controllo e la repressione sono le due parole che caratterizzano i mesi del “novembre nero” del fascismo. Chissà se al confino, o in vacanza come qualcuno pochi anni fa ha sostenuto, Pertini, Gramsci, Spinelli e tantissimi altri, cantavano “Creola dalla bruna aureola… Straziami ma di baci saziami…”. Non penso che le canzonette facessero al caso loro.  A loro veniva meglio pensare a cosa sarebbe stata la democrazia in Italia, o all’Europa… e quel pensare è stato utile per tutti. Tutto sommato anche oggi è bene non cadere nelle distrazioni che spesso, create ad arte, ci distolgono dai problemi reali. Continuiamo ad usare la testa, a pensare. Anche se è l’atteggiamento meno riconosciuto.

Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione