Rubagalline, vigliacchi, terroristi, protagonisti di una guerra inutile. A scorrere l’elenco dei luoghi comuni e delle bufale o falsificazioni più frequenti sulla Resistenza torna alla mente la celebre frase di Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bülow: “Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro”. Con quel “contro” sottolineato molte volte. “Il complesso di umori che galleggia nel nostro presente si è certamente nutrito e ha prosperato anche grazie a giudizi via via più liquidatori che sono stati dati della Resistenza nel corso del tempo”, scrive la storica Chiara Colombini in Anche i partigiani però… un saggio pubblicato da Laterza nella collana Fact Checking e che di recente Patria ha recensito.

La storica Chiara Colombini

“Circa trent’anni fa si è cominciato a denunciare – e si è continuato a fare in seguito con allarme crescente – un’offensiva revisionista ai danni della Resistenza, animata dalla volontà di metterne in discussione il significato storico, politico ed etico”, continua Colombini nell’introduzione al volume. L’esperienza della Resistenza ha il merito di “aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura fascista, la conquista della Repubblica e la stesura della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di vivere per oltre settant’anni e di reagire anche a crisi profondissime” come ha spiegato Giovanni De Luna ne La Repubblica inquieta.

Emanuele Artom (wikipedia)

Eppure nel 25 aprile appena trascorso il presidente del Consiglio Mario Draghi ha voluto spendere qualche parola sul fatto che non tutti gli italiani durante la Resistenza furono “brava gente” con il riferimento alla figura di Emanuele Artom, partigiano e storico, combattente nella Resistenza perché “non scegliere è immorale”. Per capire però dove affondano le radici delle allusioni e dei “non detti” che generano false rappresentazioni sulla Resistenza e sui partigiani, con il corollario di insulti e violenza verbale, abbiamo chiesto a Chiara Colombini, ricercatrice dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” di partire proprio dal suo saggio Anche i partigiani però… per smontare alcuni luoghi comuni.

Partigiani di Crespano del Grappa, in provincia di Treviso (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Nel libro si pone l’attenzione al “contesto” in cui si è svolta la Resistenza. Perché per uno storico è importante questo aspetto?

A costo di essere insistente, credo che il contesto sia la chiave. Perché se non si ricostruisce il quadro in cui si svolgono le vicende cercando di dare il maggior numero di elementi possibili, non si riesce a comprenderle. E vorrei precisare che per comprendere non intendo giustificare. Quello che è importante fare è proprio capire. È metodologicamente sbagliato e improduttivo rapportarsi a fatti accaduti 76 anni fa in una situazione radicalmente diversa dal nostro presente, bene o male pacificato. Quando ci si avvicina a un fenomeno storico si parte dalle domande del presente: è inevitabile, altrimenti non nascerebbe nemmeno l’interesse degli studiosi. Ma se gli interrogativi sono importanti per la sensibilità dell’oggi, occorre porli in maniera sensata, tenendo conto da un lato della distanza temporale, e dall’altro della distanza di sensibilità, delle condizioni differenti di vita tra allora e oggi.

Staffette partigiane nel Friuli orientale, estate 1944 (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Molti fanno fatica a immaginare il periodo storico della guerra nel nostro Paese.

Occorre ragionare sul fatto che era in corso una guerra totale, un’occupazione e una guerra civile che si è mischiata con la guerra patriottica e con la guerra di classe, come ha insegnato Claudio Pavone ormai decenni fa, fornendo una chiave interpretativa importante. Se non ci soffermiamo sul quel grumo di complessità intrecciate tra loro, perdiamo dei pezzi, non riusciamo ad analizzare e quindi a comprendere.

Dei partigiani della brigata Majella (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Nel suo saggio, capitolo dopo capitolo, ogni “accusa” nei confronti dei partigiani viene spiegata e smontata. È in corso un nuovo attacco al cosiddetto “mito” della Resistenza?

Più che altro, avverto un profondo disagio che penso proviamo un po’ tutti quando, nel dibattito pubblico o semplicemente sui social, si leggono appunto queste costanti riproposizioni. Provo disagio perché studio e mi occupo di queste cose lavorando in un istituto storico della Resistenza, perché esiste una mole di ricerche e di pubblicazioni serissime i cui risultati, però, faticano a passare nel dibattito pubblico per non specialisti. Questa narrazione della Resistenza stipata di luoghi comuni tende sempre a rappresentare una storiografia come se fosse uguale dal 1945 a oggi, come se non avesse fatto alcun cambiamento, come se fosse qualcosa di imbalsamato mentre è proprio l’opposto: c’è una quantità di studi approfonditissimi a livello di dettaglio del singolo episodio, ma anche di ricostruzione generale, di ragionamento su temi specifici. Ci sono studi che sono cambiati moltissimo nel corso dei decenni proprio per approccio, per tipo di fonti usate, per soggetti analizzati. E sapere che tutto ciò non arriva all’opinione pubblica è sconfortante.

Uno scatto della Liberazione di Pavia (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Il primo capitolo del libro va subito al dunque: “Tutti rossi” puntualizzando il fatto che ancora oggi politici di estrema destra molto popolari sui social parlino di 25 aprile come “derby fascisti-comunisti”. Perché?

Parlare di derby tra due squadre richiama immediatamente l’idea di un conflitto in cui si sono affrontate due minoranze contrapposte, un conflitto a cui la grande maggioranza della popolazione – e non si fa troppa fatica a percepire il sottinteso “perbene” – ha assistito senza prendere parte. Questa allusione lascia filtrare il giudizio che la Resistenza è sostanzialmente una faccenda da “rossi”, da “comunisti”. Invece a ben guardare la Resistenza, anziché come un partita che ha interessato in fondo “quattro gatti” esaltati in lotta contro altri, appare come un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze dissimili, strati sempre più ampi della popolazione. Forse la parola chiave che consente di leggere questa “avventura”, minoritaria e collettiva al tempo stesso, è complessità. All’interno della Resistenza si incontrano, convivono, si scontrano e si mescolano motivazioni, esperienze, slanci, idee e ideali i più diversi: non è un’esagerazione affermare che i percorsi di chi vi approda sono moltissimi, quasi quanto i suoi protagonisti.

Milano, reparti ossolani sfilano in piazza Duomo (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Tra le critiche “classiche” rivolte alla Resistenza c’è che fu irrilevante dal punto di vista militare. Ci può dare qualche dato per smentire questa bufala?

Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 si snodano circa venti mesi durante i quali il movimento partigiano nel suo complesso si trasforma con un andamento che non è lineare. La fase degli esordi, dal settembre 1943 fino alla primavera del 1944, è difficilissima: si devono individuare basi, ricoveri, magazzini, si devono stabilire collegamenti, si deve capire come campare, come coprirsi, come armarsi e anche come combattere. Malgrado tutto, il movimento si valuta che giunga a contare 30-40mila partigiani. Poi, tra la primavera e l’estate del 1944, si registra un balzo in avanti con la cosiddetta “grande estate partigiana” arrivando 70-80mila unità. Senz’altro contribuiscono i bandi di leva della Rsi, che spingono i renitenti in montagna, la bella stagione e anche il miglioramento dell’organizzazione del movimento. Verso la fine, a gennaio del 1945 il numero scende nuovamente a 30mila: è quasi come dover ricominciare da capo. Poi però la nuova primavera arriva, nel frattempo era iniziata la riorganizzazione delle formazioni dopo il prolungamento della guerra e si giunge alla fine con circa 250mila combattenti stimati. La Resistenza è stato un vero e proprio miracolo organizzativo. Il lavoro svolto dai combattenti non è stato affatto marginale o dal solo valore simbolico: lo dimostra il fatto che gli Alleati, come in tutta l’Europa sottoposta la dominio nazista, si adoperano per sostenerla. Oltre a equipaggiamenti, dotazioni e rifornimenti, gli Alleati aiutano la Resistenza economicamente, in misura crescente e più stabile nelle fasi conclusive della guerra.

Da sinistra in alto in senso orario: Carlo Greppi, Francesco Filippi, Chiara Colombini, Eric Gobetti

Anche i partigiani però… ha il pregio di essere un saggio chiaro, agile e adatto a tutti coloro che vogliono approfondire, come anche gli altri volumi della collana Fact Checking di Laterza, firmati dagli storici Eric Gobetti, Carlo Greppi e Francesco Filippi.

Tengo a sottolineare che il lavoro svolto con questo libro non è una ricerca originale: non ho scoperto alcuna fonte d’archivio nuova, non ho proposto una ricerca inedita. Quello che ho fatto è stato un tentativo di parlare a non specialisti, cercare di rivolgermi a un pubblico più ampio, di interessati che però di mestiere non si occupano di storia. Ho potuto fare un lavoro del genere proprio perché esiste quella sterminata mole di ricerche che dicevo: nella faretra ho avuto parecchie frecce da utilizzare grazie alle ricerche che hanno svolto altri storici prima di me.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Secondo lei c’è ancora molto non detto sui conniventi o su chi ammicca o spinge verso la normalizzazione del discorso sul fascismo, sulla repubblica di Salò e sugli “altri” ragazzi, quelli che la Resistenza non la fecero?

Credo che anche da questo punto di vista, cioè degli studi che hanno affrontato la storia della memoria e quindi di come si è costruita la memoria della Resistenza, ci sono molti contributi. Esistono riflessioni anche su come la memoria ha interagito con la costruzione dell’identità dell’Italia repubblicana. Anche su questo fronte il panorama bibliografico è ricchissimo: è stato analizzato sia in rapporto alle varie stagioni politiche attraversate dall’Italia repubblicana, sia attraverso l’analisi del contributo dei media all’argomento, analisi che vanno dal documentario alla trasmissione televisiva, al dibattito sui giornali. Certo, si può sempre approfondire, ma i lavori e gli storici che se ne sono occupati sono davvero tanti, ne cito solo uno: Filippo Focardi, che ha alle spalle anche lui un nutrito numero di studiosi. Credo che anche in quell’ambito ci siano molti strumenti per informarsi e per avere un quadro chiaro.

Partigiane di Modena (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Non ci sono scuse, insomma.

Poi rimane sempre naturalmente il fatto che si può non essere convinti e continuare a sostenere il discorso che si vuole, che però non condivido affatto e ho cercato di confrontarmici nella maniera più puntuale possibile. Detto questo, siamo in democrazia. Anzi: il fatto che esista questo discorso così lungo nel tempo e così stratificato che propone una lettura critica dei vari aspetti della Resistenza ritengo sia la dimostrazione più lampante che uno dei cavalli di battaglia di questo stesso ragionamento, del “la storia la scrivono i vincitori” – ovvero dire che esiste una memoria della Resistenza monolitica, indiscutibile e che ha colonizzato il discorso pubblico – sia smentito dai fatti.

25 aprile 2021. Roma, le celebrazioni a porta san Paolo (Imagoeconomica)

In ogni capitolo del libro si smonta una bufala: luoghi comuni come appunto “la storia la scrivono i vincitori” o “assassini” o “ladri di polli” eccetera. Qual è il luogo comune o la falsificazione più perniciosa e difficile da smontare sui partigiani e le partigiane?

Credo che il nervo più sensibile sia il discorso che viene fatto sull’uso della violenza da parte dei partigiani prima e soprattutto dopo il 25 aprile. Penso sia il luogo comune più insidioso, perché mette in difficoltà anche chi al significato della Resistenza si richiama con convinzione, perché l’uso della violenza è un problema grosso nel nostro presente e per la nostra sensibilità. Negli ultimi anni è stato notato da numerosi storici come, anche nel discorso pubblico non ostile alla Resistenza, la tendenza sia stata di mettere in luce soprattutto le forme di Resistenza “altra”, rispetto alla guerra partigiana, relegando l’aspetto della lotta armata a una posizione “di sfondo”, seppure senza mai negarla. Questo è un po’ il frutto anche di quell’evoluzione degli studi storiografici di cui dicevo prima perché, a partire dagli anni ’70 lo sguardo si è ampliato. Se nei primi decenni dopo la Liberazione la storia si è concentrata soprattutto sulle formazioni in armi e sui partiti a esse collegati, in seguito si è cominciato a studiare altri soggetti e contesti: l’impegno della società civile, delle donne, dei lavoratori nelle fabbriche oppure la Resistenza degli internati militari, la deportazione.

Le celebrazioni del 25 aprile in uno scatto della sezione Anpi di Bagnacavallo (RA)

Lo sguardo si allarga perché cambia la società?

Certo, e andava fatto. Sono stati tanti i contributi che hanno permesso di dare un quadro più ampio sul contesto di quegli anni. Detto questo, penso che la nostra sensibilità, che si basa sul ripudio della violenza, ci porti a lasciare sullo sfondo quelle forme di lotta. Anzi il ripudio della violenza nasce proprio dalla cesura del ’43-’45 e dal prezzo che lì è stato pagato, da quanto è stato doloroso quel momento per il nostro Paese. Però mi pare che questo ripudio della violenza, che ritengo sia un bene e non sia assolutamente da mettere in discussione, ci induca a portare invece in primo piano quelle forme di lotta che, per la nostra sensibilità, appaiono più spendibili e meno problematiche perché, in fin dei conti, diventa disturbante pensare che anche i “buoni” hanno deciso di usare le armi e lo hanno fatto volontariamente.

Una foto arrivata da Verona per “Strade di Liberazione”

Però…

Penso che questa posizione, questo tipo di sguardo abbia il limite di lasciare “senza argomenti” proprio a fronte di un attacco nei confronti della Resistenza che ha come cavallo di battaglia l’uso delle armi e della violenza. Non a caso tutti i luoghi comuni sulla Resistenza ritengo che vadano a convergere sulla lotta armata. Le altre forme di Resistenza non sono oggetto di critica. Quindi, a mio avviso, è fondamentale analizzare la scelta dell’uso delle armi collocandola nel suo contesto per capire che si è trattato di una scelta certamente volontaria – e questo va ribadito – perché la spontaneità della lotta penso sia uno degli elementi fondamentali nel significato della Resistenza. Però la scelta di prendere le armi va collocata in quel contesto di violenza che già esiste nell’Italia di quegli anni e che è dato dalla guerra e dall’occupazione.

Una foto arrivata da Ascoli Piceno per “Strade di Liberazione”

Tra i filoni più fecondi della ricerca storica sulla Resistenza c’è quello della dimensione transnazionale della lotta.

Questo dimostra quanto le domande del presente e la sensibilità contemporanea giochino un ruolo rilevante nell’interrogare la storia di un altro momento. Naturalmente, la richiesta di saperne di più sulla Resistenza delle donne per esempio nasce dalla nostra sensibilità di oggi, così come l’attenzione ai partigiani stranieri che hanno preso parte alla Resistenza italiana ha un forte nesso con la nostra situazione odierna. Poi però c’è il lavoro dello storico che, utilizzando consapevolmente i “ferri del mestiere”, parte dalla sensibilità e dalle domande che il presente impone per analizzare contesti e valori di epoche passate, dunque diversi.

Antonella De Biasi