Ci stanno lasciando uno alla volta gli ultimi prigionieri di guerra italiani, dei quali tanti di noi hanno un tenero ricordo. Lo stanno facendo in silenzio, una condizione che ha accompagnato di fatto la loro esistenza all’indomani della cattura. Dopo la battaglia di Bardia, avamposto italiano della colonia libica, il 5 gennaio 1941 furono fatti prigionieri 36.000 militari (alcuni storici ne hanno calcolati 40.000) dall’esercito alleato, capitanato dal generale australiano Iven MacKay.
Tra questi Giuseppe Polito, classe 1914, originario di Sacco in provincia di Salerno. A Bardia era arruolato nella 15esima batteria di artiglieria del Regio esercito, che disponeva di cannoni da 65/17. I corrispondenti di guerra inglesi dell’epoca avevano riconosciuto il valore degli italiani, che si erano battuti con coraggio nonostante la superiorità di mezzi degli Alleati, alle prese con la prima offensiva nell’Africa settentrionale e con il battesimo del fuoco dell’esercito australiano. Ho provato, dopo la sua scomparsa, a rintracciare la storia dei suoi cinque anni e mezzo di prigionia disponendo della generica informazione di una destinazione australiana, della quale parlava qualche volta ad un uditorio vagamente interessato. Ci incuriosiva la sua abitudine di bere il tè con le arachidi, facendolo cadere dall’alto con movimenti armoniosi e ritmati, retaggio evidente di una precedente vita. Dopo diversi e infruttuosi tentativi, diretti ad una serie di campi di prigionia, ci sono riuscito grazie ad una persona che ha camminato nei loro stivali.
L’attraente metafora è ripresa dal titolo di un libro, pubblicato nel 2017, “Walking in their boots italian prisoners of war in Queensland 1943-1946”. Lo ha scritto Joanne Tapiolas, un’appassionata e simpatica storica australiana, che mi ha regalato un pezzo delle sue ricerche.
Un fascicolo completo di 31 pagine della vita di Giuseppe Polito, in aggiunta a tre schede personali compilate dagli uffici e campi di prigionia. Sono rimasto affascinato, e al tempo stesso emozionato, dalla miriade di informazioni ricevute, complete di foto, documentazione, articoli e particolari sulla condizione dei prigionieri.
Il materiale, che potete visionare o scaricare in pdf (prima e seconda parte), è focalizzato sulle traversie di Giuseppe ma riveste altrettanto valore, umano e storico, per tutti coloro che ne condivisero le sorti e per i loro familiari. E non erano pochi. Basti pensare che nel periodo 1941-1944 circa 18.000 prigionieri italiani arrivarono in Australia, impiegati in larga parte nelle aziende agricole e nei progetti di irrigazione governativi, e che a guerra finita il dieci per cento di questi vi ritornò con la sponsorizzazione delle famiglie per le quali avevano lavorato.
Giuseppe era arrivato in Australia, al porto di Melbourne, solo il 13 febbraio 1945. Era stato imbarcato in India a Bombay, l’odierna Mumbai, sulla nave “Generale William Mitchell”, con altri 2.076 connazionali, l’ultimo manipolo di italiani.
È singolare che, a due mesi dalla liberazione dell’Italia, che con l’armistizio dell’8 settembre 1943 era diventata cobelligerante degli Alleati, i prigionieri non venissero ancora rimpatriati. La debolezza, e disattenzione, del governo italiano e le necessità dell’economia australiana l’avevano fatta da padrone sulle convenzioni internazionali e sulle esigenze umanitarie. D’altro canto cosa ci si poteva attendere da coloro che avevano firmato l’armistizio a Cassibile, ne avevano colpevolmente ritardato la diffusione ed erano scappati, con in testa il capo del governo Badoglio e il re Vittorio Emanuele III, a Brindisi? Uguale disimpegno sui prigionieri si era registrato con il primo e secondo governo Bonomi, con Parri e persino con De Gasperi. I governanti italiani, oltre alle evidenti difficoltà nel corso del conflitto mondiale, erano impegnati nella ricostruzione post bellica e preoccupati che, con l’arrivo dei prigionieri, si ingrossassero le fila dei disoccupati.
Dal 1941 al 1945 le notizie di Giuseppe, nelle cui schede personali viene evidenziata una “cicatrice verticale al centro della testa”, sono meno puntuali. Da un campo di prigionia anglo-egiziano, dove gli era stato attribuito il numero identificativo M.E. (middle east) 125871, era stato trasferito in India. Gli internati venivano trattati dai carcerieri in maniera accettabile, non disumana, ma non erano sopportabili le condizioni climatiche, che si aggiungevano al cibo e all’acqua di scarsa qualità, ad un’assistenza sanitaria inadeguata. In tanti si ammalarono di tifo, malaria e beriberi e persero la vita.
Le prospettive e le condizioni di vita si ribaltarono decisamente in Australia. Giuseppe sarà identificato come PWIX (prisoner of war italian profascist) 68172. Dal campo di Wembley verrà assegnato con altri 155 compagni a Karrakatta in attività di riconversione di aree e materiali post bellici dal 24 febbraio al 25 luglio 1945. L’ultima tappa, il 25 luglio 1945, è la più gradita: l’arrivo in una fattoria a Dalwallinu dove ritroverà il contesto ideale per chi, come lui, si era sempre dedicato al lavoro nei campi (lo farà anche al ritorno in patria).
La guerra è finita oramai da tre mesi. Giuseppe sarà trattato come un componente della famiglia, gli verrà affidato un trattore per arare, accudirà con amore il bestiame e gli verrà liquidata anche una paga, benché inferiore ai compensi dei lavoratori australiani. La famiglia che lo ospitava aveva ogni forma di premura nei suoi confronti, come quando gli sostituirono con un altro salume il bacon da lui non gradito. Gli “internati” nei campi tedeschi, persino francesi (De Gaulle aveva dato ordini in proposito), subirono trattamenti disumani, dalla Russia ritornarono in pochi e senza notizie ufficiali sulla loro sorte. L’umanità degli australiani è dimostrata, oltre che dal numero rilevante dei ritorni dopo il 1950, dal fatto che 92 italiani si resero irreperibili al momento di ritornare in patria. Giuseppe fu imbarcato sulla Chitral il 30 settembre 1946, con altri 2797 connazionali (dei quali 51 ufficiali), che approderà a Napoli il 30 ottobre. Non aveva votato per il referendum del 2 giugno, con il quale gli italiani si lasciarono alle spalle l’esperienza monarchica. Nel suo paese, Sacco, i voti erano stati di segno decisamente opposto: 761 (92,58%) per la monarchia e solo 61 (7,42%) per la repubblica.
In paese ritroverà la moglie Amelia, il figlio Carmine, due anni dopo nascerà Antonio, e il suo lavoro in agricoltura. Non accetterà l’invito della fattoria australiana, che non aveva dimenticato la sua serietà sul lavoro, di emigrare nel continente dei canguri. In paese, dove viene ricordato come un lavoratore mite e solare, per tutti era zi’ Scepp’ r’ Mecc’, che univa il suo nome di battesimo, il nomignolo della sua famiglia di origine e il titolo rispettoso di “zio” (troncato in zi’) tipico di alcune regioni meridionali.
Dall’Australia, della quale conserverà sempre un ricordo affettuoso, aveva portato un ricamo di sua produzione, dal forte valore religioso e simbolico. Raffigurava la Madonna degli Angeli, che in paese gode di grande devozione e si festeggia il 2 agosto, la data più importante dell’anno per i sacchesi, che rientrano da mezzo mondo per partecipare alla processione per le vie del paese.
Possibile visionare o scaricare la ricerca della storica anche cliccando sulle due foto sotto.
Pubblicato martedì 5 Gennaio 2021
Stampato il 05/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/storia/liberate-il-soldato-giuseppe/