La storia di Rudolf Jacobs, disertore tedesco Caduto combattendo tra i partigiani italiani, divenne da subito una sorta di mito. Colui che si adoperò più di ogni altro per promuoverlo e divulgarlo fu Piero Galantini “Federico”, comandante della Brigata garibaldina a cui Jacobs aveva aderito, la Ugo Muccini, operante in Val di Magra, nello Spezzino confinante con l’allora Provincia di Apuania. All’inizio lo fece da solo, o quasi. Nell’articolo su Patria Indipendente dell’8 dicembre 2021 “Quei disertori del Reich nel vento del Nord” ho più volte citato il racconto Rudolf Jacobs, scritto da Galantini nel marzo 1945.
Il comandante della Muccini così lo presentava in una lettera al comandante Primo Battistini “Tullio” – che della Muccini aveva fatto parte – nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione: “Caro Tullio, ti mando un mio articolo su Rudolf Jacobs, estratto da ‘La nostra vita’, minuscolo volume da me scritto in due giorni nella pace dell’Italia libera mentre si attendeva di tornare sul fronte. Ho scelto Rudolf Jacobs per varie ragioni: perché è stato veramente un eroe, ha voluto morire per la sua vera Patria tedesca, per riscattare la volontà di un popolo travolto dal nazismo. E te lo mando perché ho visto che nessuno ha intenzione di concorrere; proviamo a dare la spinta e gli altri verranno” [1].
Galantini continuò per tutta la vita “a dare la spinta”, scrivendo più volte su Jacobs e trovando sempre maggiore ascolto. L’ultima volta lo fece nel 2000, pochi anni prima della morte, nella pubblicazione 55° anniversario della Battaglia del Monte Gottero, edita dall’Istituto Storico della Resistenza della Spezia in occasione di un convegno in ricordo del terribile rastrellamento del 20 gennaio 1945. “Federico”, nel breve testo La Brigata Muccini, scelse di inserire tre foto: Paolino Ranieri “Andrea”, la figura politica di riferimento della Brigata, Flavio Bertone “Walter”, comandante della Muccini quando Galantini passò le linee, e Jacobs [2].
Galantini fu l’evidente ispiratore di un articolo a firma Carlo A. De Rosa pubblicato dal quotidiano napoletano Il Mattino il 25 aprile 1981. È tra i più completi e precisi sulla vita di Jacobs. Eccone i brani principali: “Ostile da sempre a quella guerra che i suoi stessi connazionali avevano scatenato, le sue convinzioni antinaziste andarono rafforzandosi man mano che il conflitto protraeva la sua opera devastatrice. Finché, nell’estate del ’44, la grande svolta: Jacobs, tramite un membro del CLN, stringe i primi contatti con la Resistenza italiana. Ma nonostante il suo comportamento fosse sempre stato leale, furono molti i partigiani della Brigata Ugo Muccini, che operava nella zona, a dimostrarsi restii ad accoglierlo nelle loro file, nel timore che potesse poi rivelarsi una spia”.
L’articolo continuava: “Jacobs diede pertanto prova della sua sincerità consegnando subito i piani delle fortificazioni tedesche lungo tutta la Riviera di Levante […]. Ma le perplessità in molti rimasero. […] Dopo violente discussioni si decise comunque di accoglierlo nella Brigata. L’incontro viene fissato nell’immediata periferia di Sarzana. Ed è il comandante stesso della brigata, ’Federico’ (Piero Galantini) ad andarvi con altri due partigiani. Jacobs arriva puntuale a bordo di un autocarro tedesco accompagnato dal suo attendente, un austriaco taciturno, che subisce a tal punto l’ascendente del suo ufficiale da passare anche lui, senza esitazioni, dalle file dell’esercito tedesco in quelle della Resistenza”.
Proseguiva De Rosa: “Nonostante che Jacobs parli un italiano stentato, ben presto cominciano a cadere le diffidenze e le riserve che avevano accompagnato la sua accettazione nella brigata. Entra anzi in crisi in molti partigiani la stessa concezione settaria per la quale essere tedeschi significa essere nazisti. La presentazione che poi Jacobs fa di se stesso, mentre il gruppo riguadagna la montagna, è quanto mai illuminante circa i motivi che l’hanno spinto a quel passo. La sua decisione d’abbandonare l’esercito tedesco era infatti maturata nel convincimento che la sua partecipazione, unitamente a quella di altri connazionali, alla resistenza europea contro il nazismo avrebbe certamente rappresentato una manifestazione di riscatto per tutto il popolo tedesco, sopraffatto nelle sue libertà e prima vittima di quel regime di violenza e di terrore. E Jacobs si dice perciò lieto di morire – frase che ripeterà spesso negli ultimi mesi di vita – se la morte potrà valere ad abbreviare la guerra anche di un solo minuto. Gli eventi successivi staranno a testimoniare che quelle non erano solo frasi di circostanza” [3].
Jacobs, diventato il partigiano “Rodolfo”, nel mese di ottobre partecipò a un combattimento e a due missioni pericolose. Smaniava di agire. Il 3 novembre la sua ultima, sfortunata azione: contro la caserma delle brigate nere di Sarzana e il suo spietato comandante, che costantemente minacciava i parenti dei partigiani. Un fortilizio nel cuore di Sarzana, completamente recintato di filo spinato e difeso da numerose mitragliatrici. Sessantasei uomini in forza. Per di più in quei giorni vi era anche un distaccamento della brigata nera della Spezia.
Ancora da De Rosa: “Il piano era questo: comandata da Jacobs, una pattuglia di partigiani in uniforme tedesca (due jugoslavi, un russo, un austriaco – l’ex attendente – e cinque italiani di diverse regioni) sarebbe scesa in città per raggiungere la caserma alle 18,15 in punto. A quell’ora, infatti, tutti i brigatisti sarebbero stati a cena. Jacobs avrebbe superato facilmente l’ostacolo delle sentinelle, chiedendo del comandante. Una volta all’interno della caserma, l’attacco si sarebbe svolto in maniera fulminea, appoggiato e coperto all’esterno dai GAP”.
L’articolo riportava i fatti accaduti: “Le cose purtroppo andarono diversamente. La pattuglia, giunta in città in anticipo sui tempi stabiliti, finse di svolgere funzioni di polizia in attesa dell’ora fissata. E alle 18,15 in punto era all’ingresso della caserma. Ma quella sera in cucina c’era stato un contrattempo e la tromba del rancio tardava a suonare. I fascisti erano ancora tutti sparsi tra il piano terra e il primo piano in attesa della chiamata a mensa. Jacobs volle tentare lo stesso. Chiese del comandante della caserma. Si presentò un ufficiale. Jacobs sparò. Ma dalla sua machinepistol partì un solo colpo perché l’arma si inceppò subito. L’uomo che gli si era parato davanti – e che risultò poi essere il vicecomandante e non il comandante della guarnigione – cadde a terra esanime in una pozza di sangue”.
Infine: “La reazione dei fascisti fu pronta e rabbiosa. Jacobs cadde tra i primi sotto i colpi delle mitragliatrici, mentre era ancora intento a verificare l’arma. Inutilmente il fedele attendente cercò, benché ferito, di portare via il corpo senza vita del suo ufficiale. Gli altri partigiani, fallito ormai l’attacco a sorpresa, ripiegarono subito. Lo scontro costò comunque ai fascisti cinque morti e sei feriti. ‘O morto comandante brigate nere o morto io’, aveva sussurrato, quasi in un presentimento di morte, Jacobs a ‘Federico’, nel suo stentato italiano, prima di partire. E nel consegnargli (per impedire un eventuale riconoscimento) il suo portafogli, gli aveva mostrato, con un mal dissimulato velo negli occhi, una foto che riuniva i visi sorridenti dei suoi due bimbi, biondi come lui” [4].
Rudolf Jacobs è un esempio della Resistenza come guerra internazionale. Così come lo è la pattuglia della Brigata Muccini da lui comandata il 3 novembre 1944. Nel 1947 i partigiani della Muccini, nel numero unico del 29 novembre del loro giornale, scrissero: “Dove sono William, John, Boris, Wladimiro, Jean, Hans? Saranno ritornati alle loro case. Noi siamo convinti che non hanno dimenticato le felici giornate trascorse insieme ai monti. Erano molti gli stranieri in brigata: inglesi, americani, russi, slavi, francesi e tedeschi. Lo stesso ideale ci univa: l’amore per la libertà. Vorremmo rivederli e dire loro che la lotta non è ancora terminata; che il mondo sognato ai monti è ancora di là da venire. Uniamoci William, John, Boris, Wladimiro, Jean e Hans, perché il sacrificio dei nostri caduti non sia vano” [5].
Gli esempi della Resistenza internazionale sono moltissimi. Secondo gli autori di Storia internazionale della Resistenza italiana, appena pubblicata, in Italia i disertori tedeschi “furono non meno di 2.000”, mentre nel complesso i partigiani stranieri che parteciparono alla nostra Resistenza ammontarono a “non meno di 15-20.000”: “A conti fatti si parla di un ordine di grandezza di un decimo del partigianato” [6].
All’inizio della Resistenza, prima che le file del partigianato si aprissero ai renitenti della leva di Salò, il ruolo degli stranieri fu proporzionalmente ancora maggiore. I canali della partecipazione internazionale furono due: da un lato gli alleati inglesi, gli alleati jugoslavi, gli stranieri fuggiti dopo l’8 settembre dai campi di concentramento, come – per restare nello Spezzino – Gordon Lett e i tanti inglesi, sovietici, polacchi; dall’altro lato i disertori, tedeschi ma non solo, perché una forte connotazione internazionale era anche nelle forze armate tedesche. Il primo, straordinario esempio, di Resistenza internazionale fu la banda formata da Aldo Cervi, per tutti “Gino”. Con lui c’erano i primi partigiani italiani, da Dante Castellucci – il futuro “Facio” – a Otello Sarzi, ma soprattutto molti partigiani stranieri.
In un’intervista del 1954 Sarzi riportò una dichiarazione del russo Anatolij Tarassov, scritta il 20 maggio 1945: “Io sottoscritto tenente russo Tarassov Anatolio dichiaro che dopo l’8 settembre 1943 fuggito dal campo di concentramento di Reggio Emilia sono giunto e ospitato nella casa dei sette fratelli Cervi, situata in via Campi Rossi di Campegine, e dichiaro quanto segue: Il 19 settembre 1943 in questa casa con me si trovavano quattro prigionieri inglesi provenienti dal Sud Africa e tre russi; dopo qualche giorno arrivarono altri prigionieri inglesi. Il giorno 9 ottobre 1943 già pronto un gruppo di prigionieri inglesi e russi in numero di 13 inglesi e quattro russi e sono partiti per la montagna in località Cervarezza in provincia di Reggio Emilia. Verso il 13 ottobre un secondo gruppo composto di nove inglesi e due russi partirono essi pure per la stessa località; un terzo gruppo composto di 16 prigionieri inglesi partirono per diverse località, chi per la Svizzera chi per la montagna, appoggiati sempre finanziariamente ed economicamente dalla famiglia dei sette fratelli Cervi” [7].
Contemporaneamente la Resistenza dei militari italiani all’estero ebbe caratteristiche sì diversissime, ma contrassegnate da un assai simile forte spirito internazionale. Nell’articolo su Patria Indipendente “I 52 giorni eroici dei militari italiani antifascisti a Lero” ho raccontato il piano di rivolta dei sopravvissuti, poi fallito, organizzato tra fine 1943 e inizio 1944 da italiani e da “tedeschi antinazisti; rumeni e ungheresi delle “Unità Mobili di Disciplina” (gli equivalenti degli Strafe Bataillon germanici); polacchi, cechi, slovacchi e serbi, ex prigionieri di guerra” [8]: un “Battaglione Internazionale” già allora, in terra greca.
Per tornare alla Resistenza spezzina e lunigianese, un riferimento d’obbligo è all’esperienza in Alta Lunigiana, in zona contigua, della Divisione Lunense, guidata dal futuro storico della Resistenza Roberto Battaglia, partigiano del Partito d’Azione, e dal maggiore inglese Anthony John Oldham. La compagnia di guardia era composta “da turkestani, disertori dell’esercito tedesco, jugoslavi, cecoslovacchi, alcune staffette di collegamento con l’Emilia francesi” [9]. In quell’articolo Quei disertori del Reich nel vento del Nord ho raccontato le altre pagine della storia della diserzione tedesca nella Resistenza spezzina e lunigianese. La Brigata Centocroci, dopo la battaglia del Manubiola a difesa della zona libera del Taro, fece prigionieri 80 tedeschi, alcuni dei quali disertarono.
Nel Battaglione Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà “i militari tedeschi accolti […] furono in tutto sette” [10], e fu costituita la 5ª Compagnia, nella quale “vennero inquadrati quasi tutti i partigiani di altre nazionalità, russi, polacchi, tedeschi ed ungheresi” [11]. Uno dei disertori tedeschi, un sottufficiale, consegnò al comandante del Battaglione Daniele Bucchioni la pianta del golfo della Spezia, da Lerici a Portovenere, in cui erano riportate tutte le mine collocate: circa tremila ordigni, molti di grande potenza, innescati con detonatori elettrici e comandati a distanza. Fu lo stesso sottufficiale, insieme a due partigiani, a disinnescare le mine: se il Golfo dei Poeti è rimasto in buona parte salvaguardato lo dobbiamo a lui, e alla donna spezzina che lo amava e lo convinse a disertare. Nella Brigata Gramsci combatterono Enrico Rahe e Leonard Wenger, quest’ultimo già volontario nella guerra di Spagna, ucciso da una mina nel dicembre 1944 mentre passava le linee [12]. Nella Brigata Vanni spiccava invece la “squadra dei russi”. Erano tredici, secondo la testimonianza di Saverio Sampietro “Falchetto” [13]. C’era, infine, il Battaglione Internazionale di Gordon Lett, che meriterebbe una storia a parte.
I dati sono davvero significativi. I primi Caduti della Resistenza spezzina e lunigianese furono un polacco che era nella banda di “Tullio”, ucciso dai tedeschi il 30 gennaio 1944 nei boschi tra Tresana e Calice al Cornoviglio, e il disertore tedesco Hans, che era nella banda di Piero Borrotzu “Tenente Piero” e cadde il 26 marzo 1944 nel territorio di Sesta Godano insieme a due partigiani italiani. Hans si suicidò per non farsi catturare dai nazisti. Il polacco non ha un nome e una storia, Hans ha solo un nome di battesimo. Eppure nella memoria della Resistenza in Val di Vara il suo sacrificio non è stato dimenticato, ed è sempre ricordato accanto a quello del “Tenente Piero” [14]. I disertori tedeschi caduti furono quattro, forse cinque: Jacobs, Wenger, Kurt Ruhle della Muccini, Josef Bauer della Brigata garibaldina Leone Borrini, ucciso nella battaglia di Licciana Nardi del 23 aprile 1945. Secondo Antonio De Lucchi “Tugnin” un disertore tedesco della Centocroci fu fatto prigioniero e morì fucilato [15].
Battaglia sottolineò la positiva convivenza tra partigiani italiani e stranieri. “Decine, dunque, di lingue, d’usi e costumi diversi: eppure era così semplice ‘vivere d’accordo’, senza che si producesse mai il minimo incidente dovuto a motivi nazionali. Era semplice perché in questo campo la Resistenza aveva riportato tutti gli uomini che vi partecipavano alle condizioni essenziali, ai motivi fondamentali per cui si vive e si lotta” [16]. Fu così, anche se non mancarono i contrasti, fisiologici date le differenze di condizione.
Giovanni Tognarelli, figlio di Luigi, il mugnaio di Castoglio di Zeri che per primo ospitò Gordon Lett, mi ha raccontato: “Ci fu un litigio di mio padre con Lett, che era con tre polacchi. Il maggiore voleva uccidere i fascisti di Zeri. Mio padre l’ha portato fuori di casa, Lett ci ha ripensato. Ma i rapporti si sono rotti. Nel dopoguerra Lett è tornato, hanno fatto pace: mio padre gli aveva salvato la vita” [17]. Non era “attesismo”: Luigi Tognarelli fu tra coloro che disarmarono, il 12 giugno 1944, la caserma fascista di Sesta Godano. Era il segno di una comprensibile diversità di approccio con le popolazioni locali. Strettamente intrecciato all’elemento internazionale vi fu l’elemento patriottico. Esso era ben presente in Jacobs, come rilevato da De Rosa e da “Federico” nella lettera a “Tullio”.
In un’iniziativa del 3 novembre scorso in ricordo di Jacobs a ottant’anni dalla morte, il mio intervento, d’accordo con la Sezione Anpi di Sarzana, è stato intitolato: La Resistenza. Guerra patriottica e guerra internazionalista. Una possibilità era Il patriottismo internazionalista nella Resistenza.
Patriottismo internazionalista o internazionalismo patriottico che dir si voglia – in certe esperienze politiche più avanzate, comuniste, anarchiche e gielliste, l’accento fu più sull’internazionalismo – il tema è comunque l’intreccio delle due dimensioni. Lo storico Claudio Pavone parlò delle tre guerre, patriottica, civile, di classe, tra loro strettamente intrecciate. Pavone preferiva la definizione di guerra patriottica a quella di guerra di Liberazione nazionale. Il nemico della guerra patriottica è lo straniero invasore, cioè il tedesco. Che era nazista. Questo ci porta sul terreno della grande guerra civile europea. Il nemico della guerra civile è il fascista, che è servo del tedesco. La guerra di classe è contro il padrone, spesso alleato del tedesco e del fascista. Un fenomeno che rientra anch’esso sotto la categoria di guerra civile: la guerra civile dopo l’Ottobre è anche guerra di classe.
Oggi si può parlare di una quarta dimensione, quella internazionale, e di un nuovo intreccio. Si può concordare con Chiara Colombini e Carlo Greppi quando, nell’Introduzione a Storia internazionale della Resistenza italiana, scrivono: “Lo stesso Pavone non mancava di tenerne conto, soffermandosi sui tratti che fanno del secondo conflitto mondiale una ‘guerra di religione europea e mondiale’, e considerando questa quarta dimensione universale – che pure resta in secondo piano nella sua riflessione – come un elemento costitutivo della natura ideologica dello scontro in corso: ‘I resistenti, motivando la propria lotta con l’appello a grandi valori che andavano oltre ‘il politico’, da una parte tendevano davvero a vedere incarnati nei loro nemici disvalori assoluti; dall’altra però avevano proprio nei valori professati, in quanto universali, l’antidoto contro questa degenerazione” [18].
Nella testimonianza sulla battaglia del Manubiola del cappellano della Centocroci, il parroco di Càssego di Varese Ligure don Luigi Canessa, nel libro La strada era tortuosa, leggiamo: “Un altro [tedesco, NdA] esce da una siepe col mauser a tracolla e si presenta ai partigiani: ‘Bravi combattenti, io non aver sparato perché tutti patrioti: voi in Italia, io, se potessi, in Germania’” [19]. I russi della Vanni combattevano in primo luogo per la loro Patria, la grande madre Russia. “Falchetto” alla sera, intorno al fuoco, era particolarmente colpito dalle “canzoni nostalgiche e tristi dei i russi” e capì “che i russi erano molto attaccati alla loro terra” [20].
Ma il patriottismo dei partigiani di ogni nazione non fu nazionalismo [21]. Fu tutto il contrario: patriottismo internazionalista, se non internazionalismo patriottico. Probabilmente entrambe le cose. Il nazifascismo compattò i tanti patriottismi. Fu guerra civile internazionale nel nome di grandi valori universali. Il riscatto della Patria fu il comune terreno di incontro contro il nazismo e il fascismo. Come evidenziato da molti studiosi, in particolare da Enrico Acciai, tutto nacque prima: nella solidarietà alla Repubblica spagnola, forse già nella lotta all’aggressione fascista all’Etiopia. Fu “una guerra generalizzata lunga oltre un decennio, quella innescata dai fascismi” [22]. Cominciò nel luglio 1936 in Spagna e finì nell’agosto 1945 in Giappone. Forse cominciò nel 1935 in Etiopia. Alla Spezia è viva la memoria dell’arcolano Domenico Bruno Rolla, che partecipò alla guerra di Spagna, alla Resistenza etiopica insieme a Ilio Barontini e ad Anton Ukmar, poi alla Resistenza italiana [23].
Non c’è dubbio: quando Pavone scrisse di “una guerra di religione europea e mondiale” in fondo intuì la quarta dimensione, quella internazionalista e universale. Una guerra civile che fu “guerra di civiltà”, per dirla con un altro grande storico, Guido Quazza. Ma oggi questo tema va molto approfondito, sempre tenendo conto dell’intersecarsi con gli altri temi. Scrisse Pavone: “Io credo senz’altro che il libro non sia definitivo, al contrario di quello che qualcuno, per eccesso di bontà verso il mio lavoro, ha scritto, perché nulla è definitivo in assoluto, in particolare nella storiografia. È naturale che ogni tanto qualcuno interroghi il passato con domande diverse” [24].
La domanda del tempo presente è quella di come far vivere oggi la lotta di allora per l’umanità contro la disumanità. Allora c’era un’idea universale: di pace, di guerra alla guerra. Quest’idea di pace si è in fondo espressa anche nel progetto europeista che affonda le sue radici proprio in questa idea universale della Resistenza. Jacobs ci invita a riflettere su di noi, sulla crisi del sogno europeo e universale, sulla speranza che oggi sembra mancare. L’antifascismo è speranza. La Resistenza “lascia in eredità l’idea che le cose possono cambiare” [25].
Giorgio Pagano, storico, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007, ultimo suo libro
“Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”, Edizioni ETS, 2024
[1] I testi originali dei racconti, battuti a macchina, che compongono La nostra vita mi sono stati consegnati da Federico Galantini, figlio di Piero, insieme ad altro materiale inedito, ai fini di una pubblicazione e della conservazione presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia. Una copia del racconto su Jacobs – il IX della serie, l’unico già edito – è conservata nell’Istituto con il titolo Articolo di Federico (P. Galantini) su Rudolf Jacobs [a “Tullio” (Primo Battistini)], s. d., ma 1945, in AISRSP, Fondo II, Attività Militare Bis, Serie 16, f. 619P. La breve lettera di accompagnamento a “Caro Tullio”, senza data, fu scritta nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione. La parola sottolineata è nel testo originale.
[2] P. Galantini, La Brigata Muccini, in 55° anniversario della Battaglia del Monte Gottero, AISRSP, Misc., C.2.7.
[3] C. A. De Rosa, Quel capitano tedesco che morì da partigiano, “Il Mattino”, 25 aprile 1981. Come in ogni mito, anche in quello di Jacobs non mancano gli elementi romanzati. Fu sempre chiamato “il capitano”, ma era in realtà un caporalmaggiore, membro del Genio Costruzioni della Marina, impegnato a progettare le fortificazioni del golfo spezzino. Il suo collaboratore, sempre chiamato “l’attendente”, in realtà non poteva esser tale, perché un caporalmaggiore non poteva avere un attendente. Tanto più che la funzione di attendente fu abolita nelle forze armate tedesche dopo la Prima Guerra Mondiale. Potremmo definire questo “austriaco taciturno” come uno stretto collaboratore, rimasto finora senza un nome e senza il seguito della sua storia: nulla sappiamo infatti di quanto gli accadde dopo il 3 novembre, quando venne ferito. I partigiani lo ricordarono a volte come Paul, a volte come Fritz. Nella drammatizzazione della scuola di Marinella di Sarzana del 1994 Jacobs Rudolf Un nome un’arma la libertà, basata su studi e testimonianze di partigiani, questa figura ha il nome Marius. A “Federico”, il 3 settembre, dice: “Io essere Marius, suo [di Jacobs, NdA] autista e compagno fedele” (AISRSP, Misc., B. 2. 1).
[4] C. A. De Rosa, Quel capitano tedesco che morì da partigiano, cit.
[5] 29 novembre, Numero unico della Brigata d’Assalto Garibaldi “Ugo Muccini”, Sarzana (SP), 1947
[6] C. Colombini, C. Greppi, Storia internazionale della Resistenza italiana, Laterza, Roma-Bari 2024, p. 20.
[7] A. V., Nuove testimonianze sulla vita dei 7 Cervi, “Nuovo Risorgimento”, 11 luglio 1954. Di Tarassov si veda Sui monti d’Italia, ANPI, Reggio Emilia 1975 (ed. or. Leningrado 1960).
[8] G. Pagano, I 52 giorni eroici dei militari italiani antifascisti a Lero, “Patria indipendente”, 16 novembre 1943.
[9] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964 (I ed. 1953), p. 351.
[10] S. Guerrieri e Luigi Ceresoli, Dai Casoni alla Brunella. La Brigata Val di Vara nella storia della Resistenza, Zappa, Sarzana (SP) s. d. ma 1995 (3ª ristampa, I ed. 1986), p. 259.
[11] D. Bucchioni, Attività della Brigata Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà, in Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia 1975, p. 179.
[12] Su Rahe e Wenger, oltre all’articolo citato Quei disertori del Reich nel vento del Nord, si vedano In memoria di Enrico, l’ultimo buon tedesco, “Patria Indipendente”, 19 agosto 2022, e Storia di “Enrico”, l’ultimo disertore tedesco, “Città della Spezia”, 26 settembre 2022. In seguito ho rintracciato la testimonianza in cui Daniele Bucchioni racconta il supporto del Battaglione Val di Vara a Wenger per il passaggio del fronte: sta in Il passaggio dei civili, delle missioni e dei prigionieri attraverso la Linea Gotica, in Retrovie della Linea Gotica occidentale : il crocevia della Lunigiana : atti del convegno nazionale : Aulla, Fivizzano, Pontremoli, 17-19 ottobre 1986 / Comuni di Aulla … [et al.], La Spezia 1987, p. 148.
[13] Memoria del partigiano Falchetto della brigata garibaldina “M. Vanni” della divisione Liguria Picchiara / Saverio Sampietro, AISRSP, Misc., B.2.34
[14] Si veda, ad esempio, La Resistenza nella Val di Vara : testimonianze raccolte dagli alunni della Scuola media di Sesta Godano, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia 1976.
[15] C. Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, Editrice Associazione Partigiani «Centocroci», Varese Ligure (SP) 1982, p. 74.
[16] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 351.
[17] G. Tognarelli, testimonianza all’autore, 18 novembre 2022.
[18] C. Colombini, C. Greppi, Storia internazionale della Resistenza italiana, cit., pp. 10-11. La citazione è tratta da C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994 (I ed. 1991), p. 305 (per la prima espressione citata) e p. 206 (corsivo di Colombini e Greppi).
[19] Luigi Canessa, La strada era tortuosa, Editrice A.V.A, Genova 1947, p. 59.
[20] Memoria del partigiano Falchetto della brigata garibaldina “M. Vanni” della divisione Liguria Picchiara / Saverio Sampietro, cit.
[21] G. Pagano, Raccontatela per bene la nostra Resistenza, “Patria Indipendente”, 26 aprile 2022.
[22] C. Colombini, C. Greppi, Storia internazionale della Resistenza italiana, cit., p.17.
[23] G. Pagano, Bruno Rolla, partigiano in Spagna, in Etiopia e in Italia, “Città della Spezia”, 7 maggio 2017.
[24] Sulla moralità della Resistenza. Conversazione con Claudio Pavone condotta da Daniele Borioli e Roberto Botta, Quaderno di storia contemporanea, 1991.
[25] Ivi.
Pubblicato giovedì 7 Novembre 2024
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/il-tedesco-rudolf-jacobs-il-patriottismo-internazionalista-e-la-quarta-dimensione-della-resistenza-italiana/