Vincenzo cade da un’impalcatura a 41 anni a Mondello. Bujar, 63 anni, è schiacciato da un gigantesco coil d’acciaio al porto di Ravenna. Roberto, 57 anni, è travolto da un sacco di 12 tonnellate a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Ignazio muore impigliato nel tritarifiuti in un impianto di Villacidro, in Sardegna. A Darfo Boario, nel Bresciano, Angelo, centauro, giace esanime sotto il pianale del camion in riparazione. Nella fabbrica tessile di San Giorgio in Bosco (Padova), Luisa, nonna operaia, resta impigliata col camice in un macchinario e muore soffocata.

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Sono alcune delle tante storie umane sottratte alla banalità dei numeri e raccontate, col titolo di Morire di lavoro, dal giornalista Marco Patucchi su la Repubblica, sia nella versione cartacea che nello speciale online.

Mentre i media si concentrano sull’ondata di guerra e contano i crimini quotidiani a carico di civili, questo libro volge lo sguardo sulle morti assurde nel mondo del lavoro. Veri crimini anche questi, “crimini di pace”, appena visibili sulla stampa e meno che mai in tv. Frutto di indifferenza sulla sicurezza di chi lavora, di mancanza di controlli da parte delle imprese e delle istituzioni sul campo, di avidità di profitti che mal si concilia con le regole, fretta di concludere i progetti, fatica e sovraccarico di orari che gravano sulle spalle di chi non ha altra scelta per sopravvivere.

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Questa pagina vergognosa di necrologi, destinata alla noncuranza dei più, è aperta da anni, denunciata, ma non sanata con la dovuta fermezza malgrado le generiche esternazioni dei politici e le richieste sindacali. Questo volumetto ci dà una scossa, ci risveglia. Non è accettabile andare a lavoro ogni giorno come a una battaglia mortale.

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Leggiamo tutti i nomi dei lavoratori italiani e stranieri caduti nell’ultimo anno nei più diversi luoghi del nostro Paese. Ad Avola, in provincia di Siracusa, il 45enne Sebastiano è travolto dal crollo di un ballatoio di una palazzina, a Tuturano (Brindisi) Camara, bracciante di 27 anni venuto dal Mali, cade dalla bicicletta al ritorno a casa stroncato da 6 ore di lavoro nei campi sotto il sole a 40 gradi. A Panzano, nel Chianti, Lorenzo è schiacciato dal trattore a cingoli. A Valtournenche (AO), Leandro, 58 anni, controllore di piste sciistiche, viene travolto da una slavina; a Villanova Tulo (Oristano), Roberto, che di anni ne ha 22, è schiacciato da un macchinario della ditta di lastre di cemento. Fabrizio, capocantiere, è sepolto a Rodano (Milano) da un cumulo di terra e cemento. In una fabbrica di prodotti alimentari di Lesignano Bagni (Parma) Himal, 22 anni, è schiacciato dal macchinario che cercava di sbloccare: era un valido giocatore di cricket venuto dallo Sri Lanka. Anche Furio, inarrestabile camionista cinquantenne, perde la vita all’interno dell’azienda a Cesano Maderno, travolto dal carico del suo tir. A Melfi in un incidente definito in itinere, Rossella, mamma operaia di ritorno dal turno di notte, è travolta da un autobus appena fuori dei cancelli dell’azienda.

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La lista continua. Tutti uccisi da una posizione insicura, da un incidente meccanico, da una macchina ingovernabile, da protezioni trascurate. Sfilano nelle pagine come fotogrammi, indoviniamo i loro volti. Sono flash di vite spezzate come quelle di caduti in una battaglia, uccisi dall’egoismo dei datori di lavoro ma anche dall’abbandono, dalla miopia – o meglio, dalla cecità – dell’informazione e delle istituzioni. E dalla nostra distrazione.

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Il merito di Patucchi è di sottolineare il valore individuale e sociale dei vari identikit, uno per uno. Coglie le singole particolarità, l’amore per la moto, per la bicicletta, l’impegno per l’equilibrio e la cultura della montagna, la passione per il calcio, quella per i motori, il dono di sorridere, l’impegno nel sindacato, la cura dei boschi devastati, l’orgoglio per i propri compiti, le impagabili gioie di vite semplici, l’altruismo. Accenna ai caratteri delle vittime: Piero di Scandriglia non diceva mai di no; Bepi, trevigiano tornitore tutto lavoro e volontariato; Daniele, carpentiere che ama l’acqua, il mare, la pesca; Luisa, operaia tessile esperta di San Giorgio in Bosco che sogna una crociera a Dubai; Luigi, operaio di Barletta nel settore fertilizzanti, gentile, sempre pronto a sacrificarsi per gli altri; Gianuario, sassarese addetto al servizio di igiene urbano, appassionato di clarinetto e di calcio e ideatore di un progetto politico. Salvatore, operaio edile specializzato messinese, unico secondo i colleghi a portare la luce nel lavoro; Tiziana, punto di riferimento per tutti a Scandicci, nel magazzino della ditta di stampaggio di materie plastiche. La presentazione di uomini e donne veri, che sfonda la prigionia delle anonime statistiche dell’Inail e i polverosi fascicoli processuali, chiede riconoscimento e giustizia anche per tutti gli altri. Ci ricorda che la dignità di ogni lavoratore è sancita dalla nostra Costituzione, che il lavoro, iscritto nei suoi principi fondamentali, è una priorità fondativa su cui dovrebbe basarsi l’intero edificio statale e che difendere la vita della persona è un dovere civile pressante per tutti noi.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice