È lontano il tempo in cui era relegato in un cono d’ombra quanto accaduto nel Mezzogiorno durante il drammatico 1943 e negli anni immediatamente successivi. Su questa fase cruciale della sua storia ormai si dispone di numerosi contributi, frutto di accurati scavi analitici: molto è stato indagato e ricostruito, molti aspetti sono stati messi sotto la luce dei riflettori. Si pensi alle ricerche di Luigi Cortesi (1977) e di Giuseppe Capobianco (1995), a quelle promosse e realizzate dagli studiosi che gravitano attorno all’Istituto Campano per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea; ai lavori di Gloria Chianese («Quando uscimmo dai rifugi». Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra, Roma 2004), di Gabriella Gribaudi (Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Torino 2005), di Francesco Soverina (La difficile memoria. La Resistenza nel Mezzogiorno e le Quattro Giornate di Napoli, Napoli 2013), di Gianni Cerchia (La seconda guerra mondiale nel Mezzogiorno. Resistenza, stragi e memoria, Milano 2019). Su questa scia si colloca la densa sintesi di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Bologna 2021).

Questo corposo libro, che concentra l’attenzione sulla peculiare strada imboccata dal Meridione tra il 1943 e il 1945, è un racconto corale che assembla frammenti di storie individuali, proponendo una polifonia di voci e testimonianze. Servendosi di una pluralità di fonti (diari, lettere, appunti, relazioni di militari e carabinieri, documenti di autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film), gli autori restituiscono la parola ai diretti interessati, ai protagonisti, grandi ma soprattutto piccoli, i cui percorsi si sono intersecati con la grande storia. Attraverso l’utilizzo delle memorie popolari depositate nei diari e mediante l’esplorazione della stampa e della letteratura, penetrano nel vissuto di classi, ceti, comunità e singoli alle prese con il ciclone del secondo conflitto mondiale. Gli autore dedicano ben 188 pagine all’irrompere della guerra totale in casa, quando il Mezzogiorno diventa teatro di asperrime operazioni belliche, che ne devastano i territori e ne stremano gli abitanti.

Battaglie, micidiali raid aerei, sfollamenti, scontri a fuoco, rappresaglie, rastrellamenti, eccidi, violenze sessuali, stupri di massa scandiscono la ritirata tedesca e la lenta avanzata degli Alleati. Di tutto ciò è lastricato il cammino che porta alla Liberazione dal nazifascismo. La morte viene anche dal cielo, con lo sganciamento di migliaia di tonnellate d’esplosivo sui centri urbani meridionali, la cui vita quotidiana è sconvolta dal sinistro ululato delle sirene, dalla macabra “musica delle bombe”. Se Napoli è la città italiana più martoriata dalle incursioni aeree, che provocano migliaia di vittime, è Bari a subire, il 2 dicembre ’43, un tremendo bombardamento a opera dell’aviazione tedesca: la contaminazione delle acque marine e un migliaio di perdite tra militari e civili sono il tragico bilancio dell’affondamento di 17 navi, tra cui la Harvey carica di yprite.

Un fotogramma da “Paisà” (1946) di Roberto Rossellini

Efferata è la breve occupazione nazista nel Mezzogiorno. I saccheggi di viveri e beni, i sequestri di animali, le razzie di uomini da inviare al lavoro in Germania, gli incendi, i massacri indiscriminati, che colpiscono duramente le popolazioni locali, depredate di tutte le loro misere risorse, si inscrivono nella strategia della “terra bruciata”, brutalmente applicata dalla Wehrmacht per assicurarsi il controllo delle zone a ridosso delle linee difensive approntate per frenare la marcia delle divisioni anglo-americane verso Roma. Oggetto di angherie e violenze sono quanti tentano di difendere la propria rete familiare o comunitaria; bersaglio di una feroce risposta sono coloro che si sforzano di opporre aggregazioni spontanee alla tracotanza degli “unni meccanizzati”. Le tante stragi (Mondragone, Acerra, Bellona, Caiazzo, Mignano Monte Lungo, Filetto e Onna) perpetrate nel Mezzogiorno dall’esercito tedesco, a partire dalla Sicilia, dove anche le truppe statunitensi si macchiano di gravi crimini, rientrano nella logica del sistema di dominio del nazismo, della guerra di sterminio che il Terzo Reich conduce con spietata determinazione prima sul fronte orientale e poi su quello occidentale.

Napoli, 1° ottobre 1943

In Puglia, in Basilicata e soprattutto in Campania si registrano i primi episodi di resistenza, che saranno a lungo, spesso intenzionalmente, rimossi, stentando a trovare posto nella memoria pubblica. Da Barletta a Matera, da Castellammare a Ponticelli, da Scafati a Nola, da Acerra a Orta d’Atella, da Santa Maria Capua Vetere a Capua si susseguono gli scontri, le rivolte, le ribellioni, a cui partecipano militari sbandati, operai, contadini, intellettuali e popolani. In questa cornice va inserita l’insurrezione delle Quattro Giornate, che rappresenta la congiunzione tra il dissenso esplicito e il dissenso carsico al fascismo, a cui si aggiunge quello maturato in ampi strati della società durante la guerra. Anche al Sud, dunque, la Resistenza muove i suoi primi, travagliati passi, non esaurendosi nel tentativo di arginare la furia devastatrice dei soldati tedeschi. Elementi di antifascismo e di un’embrionale organizzazione politica sono rintracciabili nei vari momenti di lotta armata, in cui le ragioni di coloro che sono animati da una volontà politica si saldano a quelle di quanti sono indotti a imbracciare il fucile per proteggere se stessi e la propria famiglia.

Una testimonianza fotografica dalle Quattro Giornate di Napoli

Quello che l’intero Mezzogiorno vive tra la fine del ’43 e il 25 aprile ’45, mentre nel Centro-Nord si radica e si sviluppa il movimento resistenziale, è stato definito da Enzo Forcella e poi da Nicola Gallerano l’altro dopoguerra. È il periodo della “pace dimezzata”, nel corso del quale il Sud si configura come una sorta di laboratorio storico-politico, influendo profondamente sul futuro assetto post-bellico del Paese (Luigi Cortesi, Guido D’Agostino). Si delinea di nuovo l’asimmetria tra Nord e Sud, che rinvia alle fratture geografiche e sociali tra le due macro-aree, fratture in grado di lasciare segni indelebili nella storia politica come nell’immaginario collettivo. Un dopoguerra anticipato, dunque, caratterizzato da fenomeni contraddittori: dalla diffusione della microcriminalità all’esplosione della rabbia contadina, che in alcuni borghi rurali – Caulonia, Maschito, Calitri – arriva a proclamare delle sia pur effimere “repubbliche”. Sono anni in cui si consolida il mito della soverchiante potenza nordamericana, in cui l’Italia si ancora alla sfera d’influenza occidentale. Anni in cui le popolazioni meridionali intrattengono un rapporto ambivalente, spesso conflittuale, con gli Alleati, che indossano la duplice veste dei liberatori-occupanti, dei portatori di libertà, di nuovi costumi, ma anche di propagatori di degrado morale e sociale, incarnato dal proliferare degli sciuscià, dal dilagare della prostituzione e del mercato nero.

È un’Italia a più facce quella che riparte alla fine della guerra, da cui il Mezzogiorno esce ulteriormente impoverito, con l’agricoltura, l’industria e la sua rete infrastrutturale ancor più deboli. Ingombranti macerie materiali rendono fosco il quadro socio-economico di tutte le regioni meridionali, afflitte dalla miseria, dall’incremento della disoccupazione, dalla carenza di manodopera, dalla denutrizione, dall’accattonaggio, dall’imperversare del tifo e delle malattie veneree. Decine di migliaia i senzatetto, gli sfollati, gli indigenti: uomini e donne, per lo più smunti e miserabili, assillati dall’angoscioso “problema alimentare”. La fame – annota costernato il giornalista australiano Alan Moorehead – “dominava tutto. Di fatto stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. Il cibo era l’unica cosa che importava: cibo per i bambini, cibo per se stessi, cibo a costo di qualsiasi abiezione e depravazione”. Tutto questo spiega anche le difficoltà incontrate dal paradigma antifascista nell’attecchire, nel secondo dopoguerra, nel Mezzogiorno, nell’alimentare la conoscenza e nel valorizzare la memoria del contributo importante dato dalle sue genti alla lotta contro il nazifascismo e alla rinascita del Paese.

Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea