In una sera di marzo del 1981 un uomo, sulla via del ritorno verso casa, è colto dall’impulso a deviare dal percorso e pernottare a Recoaro. A questo luogo è legato il ricordo di una vacanza estiva da lui trascorsa nel 1938 in compagnia della nonna e degli zii materni: un soggiorno che avrebbe segnato una svolta decisiva nella sua vita, il brusco – e per molti aspetti traumatico – passaggio dall’adolescenza alla maturità.

Il ritorno nel noto centro termale non è però la prima tappa di un devoto pellegrinaggio nel passato, non dà avvio a un malinconico viaggio alla ricerca del tempo perduto: Come un temporale di Michele Santuliana, pubblicato dall’editore Ronzani, è un tipico e suggestivo romanzo di formazione, anche se il mondo in esso evocato – la sua memoria – confligge dolorosamente con la realtà presente. Ma procediamo con ordine.

Quando la narrazione ha inizio, Federico – il protagonista, che racconta in prima persona – è un ragazzo tredicenne che ha appena concluso il primo ciclo di studi ginnasiali, che non ha mai conosciuto il padre, che è stato allevato dalla famiglia materna e che, pur avendo uno zio socialista, appare sedotto – come peraltro quasi tutti i suoi coetanei – dai miti sfornati dalla propaganda del regime e inculcati nelle giovani generazioni dalla sua pedagogia scolastica: crede nell’infallibilità del duce, nella missione provvidenziale che gli è stata affidata, nel radioso futuro imperiale della Roma fascista.

A Recoaro, Federico entra in una dimensione più ampia, variopinta e vivace di quella ristretta, grigia e monotona della cittadina di provincia in cui ha consumato la sua ancora breve esistenza, viene a contatto con un’umanità ignota all’ambiente piccolo-borghese in cui è cresciuto: ha modo di osservare gli sfarzi dell’opulenza e i frivoli riti della mondanità, s’imbatte in stravaganti figure di avventurieri e di vagabondi, ma soprattutto conosce il popolo che abita le montagne circostanti, e che si dimostra antropologicamente diverso dalla folla dei villeggianti.

A fare da guide – e, in qualche misura, da mentori – a Federico nella scoperta di un nuovo mondo sono due coetanei: lo scontroso, diffidente, ma generoso e leale Emilio, l’estroversa, disinibita, ribelle Flora, che appartengono a ceti sociali differenti e opposti (al milieu contadino il primo, all’alta borghesia la seconda) e che però sono uniti da una profonda affinità elettiva, da una spontanea complicità.

Sironi, 1928

Grazie a loro il protagonista del romanzo sperimenta il brivido del rischio e impara ad affrontare il pericolo, manifestando un coraggio di cui mai in precedenza aveva dato prova e che ignorava persino di possedere; sono loro, inoltre, a fornirgli l’occasione per intuire che la società è divisa in classi in reciproco, perenne, insopprimibile conflitto, allorché lo coinvolgono in uno dei ricorrenti scontri fra le bande rivali dei montanari e dei piassaròti, dei figli dei “siùri del centro”, non per caso capeggiati da un fanatico avanguardista, e di quelli dei “poaréti della periferia”, guidati da Emilio (per inciso: dall’episodio traspare una reminiscenza dei “ragazzi della via Pal” di Molnar).

Guttuso, “La fucilazione”, 1938

Altri personaggi concorrono all’educazione sentimentale e morale di Federico. Il Baldi, lo stesso zio Manrico e i suoi compagni socialisti, gli fanno capire che il fascismo non gode di un totale, entusiastico consenso; l’untuoso, perfido Brusaferro gli insegna che il regime non si fa scrupolo di ricorrere ai mezzi più ignobili per colpire i dissenzienti e gli oppositori.

Le certezze del protagonista, già insidiate dal dubbio sull’effettiva corrispondenza fra la retorica del fascismo, l’immagine che esso offre di sé, e la sua vera natura, crollano definitivamente quando si scatena il “temporale” della storia, che nel romanzo si manifesta attraverso il rapido susseguirsi di eventi minori, ma simbolici e di grande impatto sulla sensibilità del ragazzo.

La precipitosa fuga dell’affabile, magnanimo dottor Modena all’indomani della promulgazione delle leggi razziali, prima, e poi l’arresto, la detenzione, i maltrattamenti subiti dallo zio e dai suoi compagni dopo la beffa consumata da ignoti in occasione dell’inaugurazione della Casa del fascio e nell’imminenza della visita del duce a Recoaro, ottengono l’effetto di svelare compiutamente al protagonista il carattere iniquo, oppressivo e violento del regime. Le vicende di Federico e dei suoi amici testimoniano che le vie attraverso cui in quegli anni molti giovani approdarono all’antifascismo, e che soltanto per alcuni condussero alla scelta della lotta armata, furono tracciate da fattori non politici o ideologici, ma esistenziali.

Tornato a Recoaro, Federico trova una lapide dedicata all’amico Emilio, caduto sotto il piombo nazifascista a poche settimane dalla Liberazione. Insieme alla “freschezza, alla forza e alla schietta musicalità” del dialetto (idioma peraltro frequentemente usato nel romanzo, soprattutto nei dialoghi), questa lapide è l’estrema sopravvivenza di una stagione remota. La morte ha desertificato il paesaggio umano delle presenze più care, il progresso ha devastato un’intera comunità, stravolgendo persino la geografia urbana. Federico non prova nostalgia per un tempo crudele, ma rimpiange l’estinzione della civiltà contadina, con accenti che richiamano l’elegia di Zanzotto. Lo scenario crepuscolare del finale del romanzo racchiude dunque un allarme e un monito: ovvero, il timore che vada smarrita ogni memoria del passato e l’esortazione a custodirla, affinché l’orrore non si ripeta e le conquiste ottenute al prezzo di tanti lutti, di tante sofferenze, non vengano dissipate.

Ferdinando Pappalardo, italianista, vicepresidente nazionale Anpi