Il 1889 sarebbe potuto essere un anno promettente: prende avvio la Seconda internazionale a Parigi, città in cui, contemporaneamente, si inaugura la Torre Eiffel; Vang Gogh dipinge la Notte stellata, a Torino svetta per la prima volta la Mole Antonelliana; a giugno nasce Amedeo Bordiga e, un paio di mesi prima, ad aprile, lancia i suoi primi vagiti al mondo Piero Calamandrei. Sembra davvero un’ottima partenza, se si conta ancora che il 5 luglio nasce Jean Cocteau, il 14 novembre Jawaharlal Nehru, e che martedì 16 aprile vede la luce a Londra quel geniaccio di Charlie Chaplin. Eppure l’ironia della sorte volle che, nella stessa settimana in cui aveva i suoi natali l’uomo che per primo sfidò sul grande schermo la più grande dittatura europea, nascesse anche l’odiosa creatura che, fuori dalla finzione cinematografica, avrebbe steso sul vecchio continente l’ombra cruenta della sua follia. Adolf Hitler nasce infatti a quattro giorni di distanza da Chaplin, sabato 20 aprile 1889, nella piccola cittadina austriaca di Braunau am Inn.
1889 (trad. di Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy, pp. 238, € 19,50) è la più recente opera di Régis Jauffret; narra la gravidanza della ventinovenne Klara Pölzl, la donna che portò per nove mesi nel proprio ventre il futuro Führer. Si tratta di un romanzo storico, certo, ma anche di un affondo nella mentalità e nella psiche di una famiglia, di una madre e di un padre. “La regola alla quale mi sono attenuto”, spiega l’autore nella Postafzione, “è stata quella di muovermi tra gli elementi tangibili di cui disponiamo oggi sui genitori di Hitler e sua zia che, in quel momento, vivevano tutti sotto lo stesso tetto a Braunau am Inn, nell’Austria settentrionale, per tentare di ricostruire la loro sordida genealogia e la loro quotidianità durante quella gravidanza dalle innumerevoli conseguenze”. Jauffret ci accompagna così per le stanze dell’appartamento al numero 15 della Salzburger Vorstadt, in cucina, in bagno, nella camera da letto in cui si muovevano Klara e Aloïs, ispettore delle dogane imperiali; ne annusiamo gli odori, percepiamo la luce che cola dalle finestre.
Vediamo i mobili e gli oggetti del loro ambiente quotidiano. Tra i due c’è una bella differenza di età: lui è di ventitré anni più vecchio di Klara, lei è una ragazzina. Aloïs, scrive l’autore, “era sicuramente un verme, ma anche un imbecille”; non sappiamo chi fosse suo padre, mentre la madre, Maria Schickgruber, si era sposata con un mugnaio itinerante, Johann Georg Hiedler, che ai tempi in cui si svolge la vicenda narrata è già morto da più di vent’anni. Ciò che è certo è che Aloïs volle togliersi di dosso quell’ambiguo passato e ci riuscì – dopo lungo tempo – convincendo il parroco del paese ad assegnargli il cognome del mugnaio e addirittura a trasformalo in Hitler. Un cognome nuovo di zecca per ripulirsi le spalle da “un’ascendenza confusa, melmosa e inquietante”.
Quello del romanzo – ma doveva esser tale anche nella realtà – è un uomo privo di scrupoli, superstizioso, intollerante, severo in maniera grottesca, rozzamente sfrontato; oltreché un essere moralmente sporco – ma ipocrita – e incapace di frenare i propri istinti. Il romanzo – che prende a tratti la forma delle pagine di un diario segreto tenuto da Klara – lo coglie in quei mesi, tra il 1888 e il 1889, in cui ha già lasciato una prima vecchia moglie, Anna Glassl, che gli ha dato un figlio, si è invaghito di una serva, Franziska, da cui ne ha avuti due, e mentre costei si avvia alla morte a soli ventitré anni per una malattia polmonare (sta lì a sudare nel letto e già lui le fa preparare la bara) si rifà con Klara, che tra l’altro è sua parente, essendo Aloïs – forse – il figlio del suo bisnonno paterno. Klara, infatti, per tutto il romanzo lo chiama “Zio”, a indicare l’incestuoso rapporto su cui si regge la loro unione. Sono sposati da quattro anni quando lei resta incinta.
Anche il loro matrimonio è stato squallido: celebrato alle sei del mattino da un abate che ne percepisce il puzzo di incesto sotto lo sguardo apatico di una donna di servizio del presbiterio e di un becchino. L’alloggio che occupano sta al secondo piano, sopra una locanda. Hanno già avuto due figli, entrambi morti in tenera età. Potrebbe essere un segno del destino, forse sarebbe stato meglio che Dio non avesse concesso loro di averne un altro. Eppure Klara, desiderosa di compiacere lo Zio, prega affinché il suo ventre si riempia di nuovo, affinché quel cognome inedito, “all’origine di una nuova stirpe a cui nessuno prima di lui era mai appartenuto”, germogli in “rami e ramoscelli”.
Si sono trasferiti nell’alloggio in Salzburger Vorstadt dopo la morte di Franziska; lo Zio è paranoico e volitivo. Ordina a Klara, a Johanna (la sorella storpia e zitella di quest’ultima, venuta a vivere con loro per dare una mano) e alla serva Rosalia di pulire profondamente ogni angolo, convinto che pulci e microbi abbiano seguito la famiglia anche nelle nuove stanze. Quando lui torna dal lavoro, controlla, rimprovera, impartisce ordini. Klara si sente moralmente tenuta a piegarsi: sgobba, fatica, si cruccia, mettendo a repentaglio la gravidanza. A volte sviene: “temevo di perdere il bambino. […] Qualche grammo d’umanità pronta a staccarsi e colare via come una lacrima di sangue”. È un’annotazione forse brutale, ma il lettore spera ogni volta che davvero quel feto muoia prima di vedere la luce. Sulla sola Klara si adagia il velo della pietà, per lei, inconsapevole e speranzosa madre di un futuro mostro.
Lo Zio risolve le angosce della moglie con giudizi trancianti o con la violenza; prende a schiaffi Johanna, umiliandola per la sua deformità con sentenze che preannunciano la sordida ferocia nazista (“Sei deforme e pazza”, “Non meritavi di nascere”, “Alcuni esseri umani sono solo microbi cresciuti”). La casa diventa così un’incubatrice di odio, di ignoranza, di pregiudizi; in essa si incrociano gli immondi capricci dell’uomo (“quell’onnipotente desiderio che di notte trasformava lo Zio in una specie di Golem”), le superstiziose preghiere delle donne, le bugie di Klara, le delazioni di Johanna. Si mormora che tra i loro avi si annidassero dei folli, che le distorsioni della mente serpeggiassero tra i geni.
La vita di Klara si incrocia spesso con quella dell’abate Müller e con quella del dottor Bloch; il primo è un cieco fondamentalista cristiano; il secondo un medico ebreo. L’abate Müller non vede di buon occhio i nostri rapporti col dottore. Secondo lui una famiglia cattolica deve stare a distanza dagli israeliti. La loro frequentazione fa di noi dei complici della crocifissione. Religione e razzismo si mostrano più folli della follia stessa; quando si incontrano si nutrono a vicenda. Lo Zio, pur diffidando di entrambi – il dottore e l’abate – ne condivide alcune strutture mentali; ad esempio pensa che ogni ebreo “contenga in germe tutte le malattie del mondo” e che per questo essi siano da sempre ottimi medici. Lo Zio li teme, ma se ne serve. E meno male, perché a dire il vero le parole del dottor Bloch sembrano le uniche dotate di senso in tutto il romanzo.
Klara, poi, che avrebbe forse le potenzialità per diventare una donna equilibrata, è invero condotta tra i vortici di un tragicomico universo di fantasie distorte, di blasfemi – ma umanissimi – moti dell’animo (come quando prova odio per il Signore che le ha appena tolto Gustav, il primogenito di due anni), sballottata qua e là dalle allucinate, ma a tratti profetiche e tremende parole del suo confessore: Portate in voi un essere che è già malvagio, portatore del peccato originale, e che una volta purificato dal battesimo continuerà a commettere errori fino alla morte e forse finirà dannato. Klara che – lei sì –, nel presentire la malvagità del nascituro, sulla scorta di un amore materno che insegue le più disperate speranze – e, col senno di poi, antiteticamente empie –, vorrebbe che il bambino fosse immerso per intero nel battistero: Che vi sia tenuto così a lungo da gonfiarsi i polmoni d’acqua benedetta. Un essere purificato fin nelle sue fibre più infime e impermeabile al male quanto il Cristo. Immaginavo Gesù che lo teneva per mano, portandolo a spasso, baciandolo sulla guancia come fosse un suo fratellino.
Ovviamente le preghiere di Klara non saranno esaudite; il figlio incarnerà anzi l’anticristo; e nei polmoni del feto penetreranno piuttosto i sogni guerrafondai e le diaboliche argomentazioni eugenetiche dello Zio, quelle che ripete ad alta voce quando parla delle sue api e dei suoi alveari: Un alveare era simile a un immenso castello. L’autorità reale doveva amministrare la giustizia, presiedere all’esecuzione delle lavoratrici inadatte e arruolare truppe per combattere contro vespe, calabroni, picchi, rondini, tutti quei predatori che sognano di sgranocchiarsele e di devastare la loro nazione. […] Solo alcune femmine scelte con la massima cura avranno il diritto di riprodursi. […] Daranno venti o trenta figli nel corso del loro periodo di fecondità. La maggior parte di essi saranno maschi perché per la riproduzione sono necessarie solo poche femmine e gli scienziati riusciranno in breve a impedire alle femmine di prendere il posto dei futuri guerrieri di cui l’Impero avrà un giorno bisogno.
Lo Zio è freddo e insensibile; non soffre per i figlioletti morti (pochi mesi dopo Gustav, muore anche la piccola Ida). Anziché dolersene se la prende con Klara, che è stata solo in grado di dargli dei figli deboli e indegni della vita; e ora deve smetterla di struggersi per la loro perdita, poiché l’uomo ancora ha “bisogno della [sua] carcassa per metterne al mondo di altri che lui spera più coriacei”. E Klara resiste; va avanti col suo “gioioso dolore di essere in vita” mentre lo Zio, sempre più, sostituisce all’autorità di Dio la propria.
Più che una gravidanza, quella di Klara sembra quindi un calvario; le nausee, la spossatezza, il vomito; la crudeltà di Aloïs, le privazioni, le male parole; e come se non bastasse, la ragazza viene violentata da Burgstaller, il padrone della locanda al pian terreno della casa di Salzburger Vorstadt. Alle sofferenze fisiche si sommano quelle spirituali, e a queste le malinconie, i dubbi, le paure; e poi ancora, le fobie, le alienazioni, gli stati d’animo quasi psicotici. Continuano anche le confessioni con l’abate Müller – rese sempre più sfiancanti dalle denunce di Johanna – poiché gli umanissimi pensieri di una peccatrice che cerca di ragionare con la propria testa vanno a collidere con quelli del fanatismo religioso. Le sue riflessioni sono angosciose parole di una madre che ancora non conosce il proprio figlio ma che, per chi sa chi sarà Hitler, riverberano come macabri sprazzi di luce infernale; quello che sente crescersi dentro – dice Klara – è un feto già capace di peccare nei suoi sogni amniotici, già in grado di generare in altri pensieri sinistri, già pronto a farsi carceriere della propria madre. Le cui fantasie non una sola volta possono essere assimilate a quelle della genitrice del demonio, sbriciolando ai piedi del lettore cupi indizi sul futuro, sulla guerra, sull’odio, sul genocidio: A furia d’immaginarlo sotto la pelle tesa del proprio ombelico, sua madre ha fatto di Satana un figlio presuntuoso e crudele.
E più avanti: Alla nascita oltre al peccato originale potrebbe avere un’anima sfregiata che nessuna acqua benedetta potrà mai lavare via. Fino a questo vaticinio: Nel mio ventre, la sventura del mondo. E noi sappiamo che sarà così; Klara cerca perciò il più intimo rifugio tra le pagine del diario segreto e poi sulla superficie levigata di una lavagna, la cui vergatura, tuttavia, non fa che alimentare nuovi sensi di colpa, nuove vergogne scaturite dallo stigma che lei stessa, sulla scorta del giudizio che sente gravare su di sé, riversa su questo suo luogo privato. “Devo contentarmi della vita senza lasciare traccia. Con la mia penna la deformo, ne sono il pessimo pittore. Questo modo di sostituire la realtà con le frasi è impuro”.
Ecco, la scrittura di Jauffret, speculare a quella della ragazza, “rimettendo insieme la realtà, la scortica”. E fa paura per la sua potente capacità di rivelare, assieme a ciò che sta sotto l’apparenza, il futuro. Grava per tutta la durata della lettura un senso opprimente di tragedia annunciata. Lo Zio è odioso, il feto che cresce nel ventre di Klara non riesce a suscitare mai nel lettore un’ombra di tenerezza.
La casa dove nascerà Adolf Hitler potrebbe ascriversi all’universo di Bosch, con le sue creature bizzarre, coll’odore rancido dei sogni che si sognano tra i suoi lenzuoli, abitata da un uomo-verme e da una donna, un po’ santa, un po’ strega, tragicamente “incinta dell’avvenire del mondo”.
Vorremmo fermare ciò che sta avvenendo ma non è possibile. Alla fine Klara partorisce, urlando e piangendo. Ne esce un neonato ancora rossastro. Purtroppo le scritture attestano che in quel sabato Gesù discendeva a visitare l’Inferno. Rimpiangevo di non aver saputo ritardare la sua nascita fino alla radiosa domenica della Sua resurrezione.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato sabato 6 Maggio 2023
Stampato il 06/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/nascita-del-dittatore-il-romanzo-di-jauffret/