La Francia è il paese delle mie gioie, l’Armenia quello dei miei dolori. Parigi è la città della mia infanzia, Yerevan quella delle mie radici. Charles Aznavour
“Sono il nipote di una famiglia vittima del genocidio e senza essere passatista, vivo all’ombra del mio tempo passato. Certo, non ho subito alcun supplizio, ma soffro nella carne e nel cuore quado mi vengono in mente – in momenti in cui non me l’aspetto – immagini nefande. Sono nato a Parigi e mi considero francese a pieno titolo, ma nondimeno sono uno sradicato della Turchia. Quando ero bambino, mia madre infiorava i suoi ricordi di parole turche. Se la situazione fosse stata diversa, avrei potuto, credo, sentirmi anche un po’ turco. Perché le mie origini sono molteplici: francese di ascendenza armena, con un tocco di Georgia da parte di padre; turco da parte di madre”.
Charles Aznavour comincia così il racconto della sua vita di discendente di vittime del genocidio armeno. Ovvero, quel progetto criminale volto all’eliminazione di un’etnia, perpetrato attraverso deportazioni e massacri dall’Impero ottomano, in Turchia tra il 1915 e il 1916. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Gli armeni, infatti, di religione cristiana, avevano fatto loro gli ideali dello stato di diritto di tipo occidentale, e con le loro richieste di autonomia, costituivano un ostacolo al progetto governativo nazionalista, fondato sull’omogeneità etnica e religiosa. Quindi vennero sterminati, oltre a essere depredati dei loro averi. Un crimine aberrante di dimensioni spaventose che determinò un numero impressionante di vittime, gli ultimi sopravvissuti fuggiti nel deserto, vennero annegati nel Mar Nero e nel fiume Eufrate oppure bruciati vivi.
Di queste origini si nutrono la musica e le parole di Charles Aznavour, compositore e cantautore, ma anche poeta, scrittore, autore dell’autobiografia A voce bassa. Un libro in cui sono narrate le vicissitudini umane e artistiche di un grande protagonista della canzone d’autore del Novecento, ma dall’indole semplice, eternamente grato alla famiglia e orgoglioso del suo riscatto. “Tra figli, coniugi (Charles si è sposato in prime nozze con la francese Micheline Rugel, poi in un secondo matrimonio con la ballerina Arlette Bost, infine con la scandinava Ulla Thurcel) e nipoti, il destino del nostro clan fu un solenne maramao alla sfortuna. I miei genitori, Aïda e io, a furia di amore e di determinazione, siamo riusciti a far crescere, fiorire e perpetuare il ramo martoriato della nostra stirpe”.
Shahnour Varenagh Aznavourian, nasce a Parigi nel maggio del 1924, in seguito alla fuga dei genitori dalla Turchia avvenuta su una nave italiana. Sbarcati a Salonicco, vi si stabiliscono e restano qui per diverso tempo, mettendo al mondo la primogenita Aïda. Misterioso il loro ingresso a Parigi, come vi siano arrivati e quando non è noto. Il padre Mamigon Misha Aznavourian, armeno nato in Georgia, figlio del cuoco del governatore d’Armenia, è un uomo pieno di vita che insegna ai figli a superare ogni ostacolo. Il suo mestiere è cantare, ha una voce da baritono e un grande orecchio, capace di intonare ogni melodia. Le signore del pubblico si emozionano quando lo sentono cantare le canzoni del poeta trovatore armeno Sayat Nova. Se avesse conosciuto bene la lingua francese avrebbe potuto avere una carriera importante in Francia, con il suo stile da crooner. Ma quel talento non sarebbe comunque bastato, infatti diventa necessario adattarsi a qualsiasi lavoro in grado mantenere la famiglia, allora in stato di povertà.
Durante la seconda guerra mondiale si offre volontario nell’esercito in segno di riconoscenza del Paese che gli aveva dato asilo. Al ritorno dal fronte si mette al servizio di Missak Manouchian, comunista impegnato nella Resistenza, e della moglie, segretaria della Gioventù armena della Francia (Jaf). Missak e la moglie avevano entrambi perso la famiglia durante l’esodo verso il luogo di sterminio degli armeni e quell’associazione era il punto di riferimento per tutti coloro che sentivano la nostalgia del loro Paese. Dei Manouchian verrà poi ricordato il destino crudele, il loro assassinio per mano dei nazisti, nella poesia L’affiche di Louis Aragon e nel successivo film L’Armée du crime di Robert Guédiguian. Prima di questa tragedia, tramite loro, fu possibile far entrare in Francia in clandestinità russi e armeni, arruolati a forza nell’esercito tedesco, ma che avevano disertato.
La madre Knar Bagdassarian viene descritta dal figlio come una donna raffinata e colta, una cantante in spettacoli di saltimbanchi, amante della cultura greca. Originaria di Smirne, odierna Turchia, tutta la sua famiglia venne travolta dalla grande atrocità compiuta contro gli armeni. Scamparono al genocidio solo lei e a nonna e di questa tragedia non dimenticò mai l’orrore. Dal principio faceva lavori di cucito, e in casa il rumore della vecchia macchina Singer si sentiva ininterrottamente giorno e notte. Ma il matrimonio dura pochi anni e forse anche per la nostalgia del suo Paese vi fa ritorno, abbandonando la famiglia. La sorella Aïda – racconta sempre Charles – era una validissima musicista, che aveva deciso di mettere il suo talento a servizio del marito compositore Georges Garvarentz, ma anche del fratello, aiutandolo nelle composizioni, negli arrangiamenti, e nelle questioni più pratiche.
Aïda ha inoltre svolto un lavoro importantissimo in campo musicale, insegnando alla nipote Seda, figlia di Charles, a cantare il repertorio armeno del nonno, che intonava i versi dei poeti tradizionali più importanti. Tenere vive le tradizioni, comunque e dovunque, era un imperativo che in casa Aznavourian risuonava fortemente. “Quando si è figli di emigrati o addirittura di apolidi, esiste una sola strada: ripiantare le radici della terra perduta che si sono salvate, e diventare capostipiti di una nuova discendenza sul suolo dove la sorte ci ha portati. Fiorire in una terra nuova senza per questo rinnegare la propria cultura e il proprio passato: non è forse questa l’integrazione?”, scrive Aznavour.
Raggiunta la fama e divenuto Chares Aznavour, in Francia costruisce la sua vita e la sua carriera, ma resta aggrappato alle radici di una terra madre. I suoi bisnonni, trovatori in Asia occidentale, che scrivevano piccole composizioni nella lingua popolare armena, e il padre che leggeva e cantava le poesie di Sayat Nova e di Omar Khayyam, gli consegnano in eredità un universo poetico di cultura e tradizioni, un passato che marchia indelebilmente il suo presente, di cui farà tesoro. “Questo Paese che mi commuove senza che io sappia bene perché – scrive –, questo Paese di cui non so cantare l’inno nazionale, di cui non conosco le preghiere, questo Paese che ho incontrato tardi nella mia vita, è l’Armenia”.
In famiglia, durante l’infanzia, oltre alla poesia, anche la musica è di casa. Al fonografo si ascoltano canzoni alla moda, in sala c’è un pianoforte, Aïda ha imparato a suonarlo dalla madre. Il padre oltre a cantare suona diversi strumenti tipici. Dagli Aznavourian è normale che si canti, si suoni, si reciti. Il padre, dopo una serie di lavori occasionali, prende in gestione un caffè ristorante in rue Cardinal-Lemoine, nel centro di Parigi, che diventerà il cuore della comunità armena nella capitale. Di fronte vi sorge la Ecole du Spectacle, dove i due fratelli vengono iscritti. I bambini frequentano i corsi nel pomeriggio mentre la sera recitano a teatro. In una di queste occasioni Charles viene notato da un regista che lo scrittura per il dramma Emile et les détectives, nella parte di un piccolo africano. Arriveranno presto altre opportunità e una discreta paga che gli permette di aiutare la famiglia, soprattutto quando il padre è impegnato nell’esercito durante la guerra. Molto giovane, Charles conosce così il mondo del teatro e del cinema, appassionandosi alle letture, allo studio, agli incontri nei principali luoghi della cultura di Parigi.
Nel 1939, l’anno di invasione della Polonia da parte di Hitler, Charles ha quindici anni, ha seri problemi alle corde vocali, ma vuole cantare. E canta le canzoni di Raymond Asso, attore e cantante della troupe di Jean Vilar al Théatre National Populaire, nonché artefice della grande svolta realista di Edith Piaf, la quale aveva già interpretato diverse sue canzoni, tra cui: Le fanion de la Légion, Paris-Mediterranée,
Elle fréquentait la rue Pigalle.
Versi e parole che colpiscono fortemente il giovane Aznavour.
Altro artista di grande influenza poetica è Charles Trenet che, con i suoi capolavori Y’a d’la joje
ma soprattutto la malinconica Les anfants s’ennuient la dimanche, lo sconvolge letteralmente.
La canzone diventa un mondo nuovo da esplorare e in quel periodo i cantautori cominciano a essere riconosciuti come grandi artisti dopo la guerra. Nomi come Guy Béart, Georges Brassens, Jacques Brel, Leo Ferré.
Così Aznavour continua a studiare a L’école du Music-Hall, dove compone i primi scritti che vengono messi in scena senza grandi consensi. A diciassette anni, però, la strada è segnata. Studiando le parole dei cantautori quei primi testi diventano versi di canzoni che evocano il quotidiano, e permettono a chi li ascolta di identificarsi. Sono chiamate canzoni-giornale, una sorta di testimonianza di fatti vissuti o come osservati in prima persona. Un giorno ho abbandonato il mio Paese/per la città e, nell’arrivarvi, m’è parso che una mano di gigante/mi schiaffeggiasse il viso, scrive in La ville.
Da tre ragazzi del mio quartiere/mi son lasciato trascinare/in una bisca, la settimana scorsa. In una stanza affumicata/ ci siamo sistemati è l’incipit di Poker.
Canzoni in cui racconta vite al margine, vite di gente comune che campa sognando un mondo migliore: La voce della povera gente si mischia a voci impure:/dacci oggi il nostro pane quotidiano/. Non chiediamo null’altro che il diritto di vivere, canta in Donnez-nous aujourd’hui.
Storie di miserie e abiezioni umane, come Moi j’fais mon rond: In un alberghetto aperto a tutti/ la mia donna fa il suo lavoretto./Ha vent’anni e a quell’età/non si può mica crepare di miseria./Io, di schiantarmi non ci penso proprio./Mi ci faccio il grano.
Storie di indifferenza: Una bambina di sedici anni/una figlia della primavera/ coricata sulla strada/morta. Morta di fame, dell’amore sbagliato, del disinteresse, racconta in Une enfant.
Con queste canzoni si esibisce, ma ciò che ottiene è un riscontro raggelante. La stampa, i critici, i giornalisti musicali vedono solo un fisico mingherlino da cui fuoriesce una voce sgraziata che canta su melodie poco popolari. Una voce ritenuta inascoltabile, colpevole di un evidente insuccesso.
Ci vorrà del tempo, una lunga gavetta, un cambiamento anche sociale e culturale perché questa voce fortemente evocativa e piena di sfumature, che congiunge storie e luoghi tra loro lontani, possa conquistare pubblico e critica, ancora disabituati alla voce naturale e grezza, alle parole sporcate della vita quotidiana, ai virtuosismi del jazz. “Stentata, poco agile, in difficoltà di fronte agli ostacoli più infantili della scala musicale, almeno a un primo ascolto”, si dirà della sua voce. Che invece poi sa rivelare la ricchezza di tonalità tragiche e apparentemente sgradevoli: una voce capace di ribaltare ogni norma, che “impone la propria cavernosa raucedine e calpesta le sacre regole ufficiali dell’estetica vocale”, scrive Yves Salgues nella prefazione al volume Charles Aznavour. Canzoni.
Una voce che si conquisterà la gloria dopo ripetuti rifiuti. Solo un nucleo di intellettuali comprenderà subito l’intrinseca qualità di questo timbro, nonché la sua natura intimista. Registi dell’avanguardia cinematografica, esponenti della contestazione anarchica e progressista. Giovani studenti, appassionati di jazz, residenti nel quartiere latino di Parigi, in quegli anni frequentato da cultori del moderno genere musicale. Ma per diverso tempo Aznavour è costretto a cantare in cabaret di infimo ordine, nei cinema dei quartieri di periferia, nelle sale da ballo delle banlieu, accompagnato solo da un pianista.
In pochi lo ascoltano, qualcuno esce a fumare un sigaro proprio quando è il suo momento, qualcun altro a volte gli tira addosso monetine o bicchieri, aggiungendo fischi e battutacce. Anche l’editore e produttore Eddy Barclay, che una sera lo ascolta, non lo ritiene all’altezza come cantante, ma gli commissiona canzoni per i suoi artisti. Perché la scrittura appare subito sconcertante. Una scrittura che stravolge totalmente i canoni del narrare l’amore, per esempio. Che diventa vivo, carnale, devastante. Come nella censurata Après l’amour con i versi espliciti: Dopo l’amore/ quando il respiro è affannoso/ rimaniamo stesi/tu ed io, seminudi.
E poi Si je n’avais plus: E in un bacio/il corpo placato/il cuore sollevato/d’un milione di dubbi/il mio ultimo sonno/m’aprirà la strada/che porta al sole.
Se questi anni trascorrono nella frustrazione del continuo rifiuto come interprete, le canzoni scritte da autore sono capolavori. Come Sa jeunesse, con vitalità, i sogni e le speranze dei vent’anni,
On ne sait jamais, con la libertà della vita in cui ce ne freghiamo infinitamente/del perché e del percome/ siamo felici come stiamo.
Nel 1941 l’incontro con il compositore musicale Pierre Roche segna l’avvio di una importante collaborazione. Ma la svolta giunge nel 1946 quando Edith Piaf e Charles Trenet, protagonisti di una trasmissione della radio francese, assistono a un’esibizione del neonato duo che apre lo spettacolo con canzoni originali. Per Piaf, straordinaria talent scout, è una rivelazione che dà l’avvio a una forte intesa sentimentale e artistica. Impressionata dalla voce di Aznavour costruisce uno spettacolo per il duo da portare in America, in Canada e per tutta la Francia. Lo spettacolo è un trionfo.
Al ritorno, nel 1950, il duo Roche-Aznavour si divide, e su consiglio di Piaf, Aznavour procede da solo come autore. Per lei continua a scrivere canzoni, tra cui l’adattamento di Jezebel.
In seguito al rifiuto di eseguire Je hais les dimanches, a lei proposta, l’intesa tra i due si conclude. Sarà Juliette Greco a portare la canzone al successo, ottenendo il premio annuale della Società degli autori drammatici. Un testo di critica sociale, sulla noia delle convenzioni borghesi che vogliono l’ultimo giorno della settimana, non lavorativo, un giorno felice, quello della famiglia e della funzione religiosa. Invece è un giorno buono solo per i benpensanti che vanno in chiesa/perché così si fa (…) quelli che fanno l’amore/perché non hanno niente da fare.
Così Aznavour continua a scrivere per altri interpreti, canzoni spiritose come Et bailler et dormir per Eddie Constantine;
per Gilbert Bécaud canzoni vivaci come Viens,
e di intensa sensualità come Donne moi,
https://www.youtube.com/watch?v=sXZ9fcXSOvo
e Je veux te dire adieu con le parole che non alludono ma dicono: Perché le tue reni s’inarcano a nuove spinte/ e la tua pelle freme sotto un respiro nuovo/ perché un altro che non sono io può strappare i tuoi gemiti/facendo sgorgare da te rantoli e parole/voglio dirti addio.
Poi Jacqueline Françoise e Marcel Amont includono suoi brani nei loro repertori e nei concerti.
Nel 1952 arrivano i primi veri contratti come paroliere offerti da artisti come Patachou che incide l’appassionata Parce que: “Son pronto a morire, se un giorno morirai:/perché la morte è solo un gioco, di fronte all’amore”.
Nel 1953, vista la mole di canzoni originali e inedite Aznavour prende la decisione di interpretarle lui stesso. Ora i tempi sono maturi, la canzone d’autore ha un pubblico di estimatori. Ed ecco che nel 1954 può finalmente firmare il suo primo contratto come cantante solista, esibendosi all’Alhambra di Parigi e poi al tempio della canzone moderna che è l’Olympia.
Una sempre più nutrita schiera di seguaci lo acclamano, mentre la critica è ancora tiepida, non disposta a riconoscere l’originalità della sue canzoni d’amore audaci, originali e sincere, abbinate a una voce inedita che disorienta. Sconvolge e rivoluziona ogni catalogazione, sfugge alle etichette. Come l’arte, quando è autentica e anticonformista. Una lunga tournée lontano dalla Francia, sorda alle sue composizioni, indifferente alle sue parole è la conferma del suo talento. In Africa, dove nessuno ancora lo conosce, Charles ottiene la prima vera vittoria. Canzoni come Viens pleurer au creux de mon épaule
e Aprés l’amour ottengono un riscontro così sonoro da farlo piangere in palcoscenico per l’emozione.
https://www.youtube.com/watch?v=44zhxT960gc
Dalle platee dei teatri di Rabat, Agadir, Marrakech, Casablanca la sua voce riceve solo applausi e richieste di bis.
La notizia del successo di quest’uomo mingherlino e dalla voce impopolare arriva alle orecchie dell’impresario Bruno Coquatrix, che ora si convince della potenza espressiva di questo francese di origini armene e lo fa esibire al Moulin Rouge. Interpreta sette canzoni tra cui la dichiarazione d’amore Sur ma vie, accolta con un’ovazione trionfale.
Ma non basta a far ricredere la critica, e di nuovo alcuni giornalisti giudicano questa voce come oscena, grottesca, sbagliata.
Chi ha orecchie buone, come Maurice Tézé, direttore artistico della Ducretet-Thomson, è invece convinto che questo artista debba avere un’opportunità. Nel 1954 con la sua etichetta discografica incide i primi dischi di Aznavour e successivamente l’esclusiva opera fino al suo passaggio alla Barclay. Viens pleurer au creux de mon épaule e Les Deux Guitares, in cui una chitarra suonata da due zingari fa riaffiorare ricordi del passato e riflessioni sulla natura mortale dell’uomo, sono un successo senza confini.
E la sua voce conquista tutti. Non solo la voce, strana e diversa. È anche il suo universo poetico a entrare nelle vite delle persone. Il successo meritato è il riscatto di una intera vita di patimento, di fatica e di rifiuti. Di porte in faccia e di nuove ripartenze con la fede incrollabile nel proprio talento, nella voce unica, con la sua sensazionale forza comunicativa.
Seguiranno viaggi in ogni parte del globo, Aznavour è ormai una stella internazionale che parla e canta in tutte le lingue. Nel 1964 nella prima tournée statunitense si esibisce alla Carnegie Hall di New York. È una conferma. Un successo che lo accompagnerà nei suoi concerti in Grecia, in Turchia, perfino in Urss e in Armenia, dove ritrova la madre. Importante anche l’attività cinematografica. Aznavour esordisce nel cinema come protagonista nel 1959 con Les Draguers di Jean-Pierre Mocky, e recita, tra i tanti, in Tirez sur le pianiste di François Truffaut, del 1960. Nel 1965 è di nuovo all’Olympia con un one man show di trenta canzoni, accompagnato da un’orchestra. Aznavour è ora il simbolo della canzone francese. Gli anni Sessanta lo hanno ormai consacrato interprete eccellente, autore di grandi capolavori, a partire da Tu t’laisses aller (1960),
Il faut savoir (1961) con la sua morale fatta di esperienza vissuta: In una vita stupida da morire/costi quel che costi, devi saper/conservare la tua dignità,
Et pourtant,
la celebre For me formidable (1964)
e gli amori tristi di Que c’est triste Venise (1964),
La Bohème (1965)
e Désormais (1969).
Aznavour possiede un universo poetico da lui creato nella totale originalità, senza riferimenti artistici o imitazioni, ma frutto dalla personale vicenda biografica, di radici culturali che hanno lasciato un segno profondo nelle sue composizioni. Un’opera, la sua, necessaria e per questo rivoluzionaria, che dopo gli intellettuali ha raggiunto persone semplici, uomini e donne che da quelle canzoni si sono sentiti rappresentati, umanamente coinvolti.
“Di che cosa è fatto quest’universo di Charles Aznavour per poter passare la soglia delle fattorie, forzare la porta delle officine, entrare nel cortile dei collegi, nelle caserme, per scendere nella strada? (…) È l’universo di un crociato (…). Una crociata d’amore. Per sollevare, con il suo cuore angosciato, tutti i cuori angosciati della terra”, scrive lo scrittore Yves Salgues. L’amore si presenta in tutte le sue forme: è il pensiero continuo, è desiderio, è la felicità assaporata, il sesso consumato tra le lenzuola di un letto sfatto, il colpo di fulmine, la devozione, l’epilogo doloroso, è la complicità coniugale di Bon anniversaire
o Tu exagères.
“Tu canti l’amore come ma è stato cantato fino a oggi – gli rivelerà l’attore e interprete Maurice Chevalier –: con un vocabolario che è quello stesso dei gesti fisici dell’amore. Sì, sei il primo tra i cantanti di tutti i tempi a osar di cantare l’amore come lo senti, come lo fai, come lo soffri”.
Un vero cataclisma che avviene nella canzone e nelle diverse espressioni artistiche che in contemporanea alle battaglie sociali per i diritti civili, per l’emancipazione delle donne, si libera dalla narrazione stereotipata di amori idealizzati, eternamente desiderati e mai consumati. Che anche la canzone italiana del dopoguerra rappresentava nella banalità delle strofe in rima, nell’astrazione, nel sentimentalismo romantico. Con Aznavour, invece, l’amore è vissuto realmente, nel bene e nel male, nella carne degli esseri umani che ne provano lacerazione, scompenso, vertigine, disperazione. In questa verità tutti si riconoscono, senza censure, senza filtri, l’amore è nel corpo, nei gesti, negli odori, nei sapori. In una notte, l’amore emancipò i nostri cuori – canta in Le Palais de nos chimères –: abbracciati, vergognosi di felicità, nei nostri occhi fieri non c’era ombra di paura.
Di questo rinnovamento si deve essere grati a Charles Aznavour. Figura statuaria della canzone del Novecento a cui va inoltre riconosciuto l’importante impegno politico, per i diritti umani per i quali si è speso cantando, facendosi portavoce e testimone. Nel 1989 scriverà il testo di Pour toi Armenie, canzone incisa a scopo umanitario per i bambini Armeni.
Nel 2004, verrà insignito dal presidente Chirac della Legion d’onore per il lustro conferito alla nazione francese, mentre nel 2009 verrà nominato ambasciatore armeno in Svizzera e all’Ufficio Onu a Ginevra. Nel 2010 al Teatro La Fenice di Venezia gli verrà consegnato il Premio Lunezia International.
Attore, cantautore, autore di un repertorio impressionate di quasi trecento album e più di un migliaio di canzoni che ha condiviso fino agli ultimi giorni con un pubblico immenso. Un pubblico che, in ogni parte del mondo, lo ha eletto a simbolo di integrazione e di libertà. Charles Aznavour è mancato nella sua casa delle Alpilles, nel sud della Francia, a causa di un edema polmonare il 1º ottobre 2018, all’età di 94 anni. Il documentario La Vie De Charles Aznavour di France2 racconta la vita e l’arte di Charles Aznavour.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato sabato 8 Ottobre 2022
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