Édith Piaf nel 1939

La mia vita è contrassegnata da miracoli. Probabilmente fino al giorno in cui il cielo si stancherà di salvarmi da un’ultima catastrofe.
Édith Piaf, Ma vie

 

Con la sua voce Édith Piaf ha trasformato un’esistenza destinata alla rovina in uno strumento poderoso, grazie al quale ha calcato i palcoscenici più importanti, da Parigi agli Stati Uniti. Cantando le vite degli umili, le pene quotidiane della povera gente come lei. Ma non solo. A lei, diventata scopritrice di talenti, si deve il successo delle tante voci che hanno aperto la strada alla canzone d’autore. Con lei, giovani artisti di valore sono saliti in scena per la prima volta, plasmati e incoraggiati. Interpreti, cantautori o musicisti come Yves Montand, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud.

Una figura sempre sull’orlo del baratro che ha trovato la salvezza nella mano tesa di un estraneo, un impresario che per primo la condusse fuori dai margini in cui era scivolata, lungo le strade dissolute della periferia parigina, sui bordi di una vita quasi già arrivata al suo epilogo.

Édith Piaf

La storia di Édith Piaf è anche quella di una redenzione. Di una donna che trova conforto nella rassicurazione di qualcuno che crede nel suo talento, quando nemmeno lei pensava di possederlo e che, tra dolorose cadute e inimmaginabili rinascite, prende così tanto coraggio da portare lo splendore della sua voce nei luoghi più oscuri, come i campi di detenzione in cui erano rinchiusi i prigionieri di guerra francesi, nella Germania nazista. Non avrà paura di imprimere per sempre nei propri occhi quel dolore, la pena di chi stava al margine tra la vita e la morte. Perché quel terreno di confine lo aveva da sempre calpestato anche lei.

Lei, minutissima (piaf è passerotto nella lingua argot di Parigi) ma dalla voce grandiosa, venuta al mondo in una famiglia sospesa tra l’arte e la vita, tra la miseria e i sogni di gloria. Louis Gassion, il padre, ha in corpo l’arte del circo e della strada, ereditata da suo padre Victor Alphonse, agile cavallerizzo, a briglia sciolta sotto i tendoni del circo Ciotti. A Louis, cresciuto contorsionista, è destinata Annetta Maillard, anche lei specialista delle arti circensi. Con i genitori fa parte di un circo itinerante. E canta.

In poco tempo la coppia si industria per sopravvivere in una stanzetta di Rue de Belville: lui espone il suo corpo flessibile nelle più incredibili acrobazie, lei, con un vibrato di soprano lirico, esibisce la sua voce qualche marciapiede più in là.

Ma Annetta, divenuta Anita Gassion, nome d’arte Lina Marsa, deve sospendere presto la sua attività artistica: sta per diventare madre. Una delle tante notti in cui Louis tracanna alcol al bancone di un bar, una bambina sta venendo al mondo, sola, in una fredda stanza dell’ospedale Tenon. È il 19 dicembre 1915. Si chiamerà Édith. Come Édith Cavell, martire di guerra della quale tutti i giornali in quei giorni evocavano le imprese. Infermiera inglese, era stata condannata a morte dai tedeschi perché aveva aiutato alcuni feriti belgi e inglesi a trovare rifugio in Olanda.

Sono gli anni del Primo conflitto mondiale e mentre Louis parte per il fronte, Lina preferisce abdicare ai compiti di madre per continuare a esibirsi lungo le strade di Parigi. Scomparirà dalla vita di Édith per farsi ritrovare morta per overdose di droga e alcol nel 1945.

Così, in quei primi mesi di vita è la nonna materna Aisha, di origine berbera, a prendersi cura della bambina. Allevata in un tugurio sudicio, nell’immondizia e nell’abbandono, Édith trova però nelle nenie dell’anziana donna una dolce consolazione. Al ritorno di Louis la bambina è come un animaletto selvatico, rannicchiata in un angolo, scappa alla vista degli estranei, sul viso croste di una infezione mai medicata.

Édith Piaf e i Compagnons de la Chanson (wikipedia)

Non ha un soldo in tasca Louis, ma la bambina non resterà in quella topaia un minuto di più. In Normandia i suoi genitori sapranno prendersi cura di lei. Quella dei Gassion, però, non è proprio una vita rispettosa delle regole della buona società e il posto in cui vivono non è esattamente una casa. Più un bordello, in cui uomini in cerca di piacere si intrattengono, a pagamento, con giovani donne. Eppure, in quella situazione assurda, una bambina di un anno trova tutto l’affetto e le rassicurazioni che mai nessuno prima le aveva riservato. Ognuna di quelle giovani donne assolve a un compito. Chi la tiene in braccio, chi prepara del cibo e la nutre, chi cuce abiti e la veste, chi la coccola con una tazza di latte dolce, chi le canta una ninna nanna.

Per le conseguenze di una infezione è quasi cieca e il mondo che si forma nella sua testa è quello dei profumi delle giovani donne che la tengono in braccio, dei suoni delle loro voci e delle risate vivaci, quello di un armonium che qualcuno suona in una stanza. Serviranno le cure di un medico per tornare alla vista e alla vita e, come un miracolo, Édith potrà perfino andare a scuola.

Édith Piaf nel 1950

Ma questa gioia dura poco. Deve lasciare i Gassion per tornare a Parigi. Le mancherà la tenerezza delle ragazze, la semplice felicità che nessuna madre le aveva mai dato.

Suo padre ha bisogno di lei. Di qualcuno che intenerisca i passanti e che al termine di una esibizione si aggiri tra di loro con un cappello per raccogliere monete. Édith al mondo ha solo lui, un padre che sbarca il lunario in quel modo, sperpera soldi nell’alcol ubriacandosi ogni sera, la trascina con sé da una città all’altra, da una piazza all’altra.

Una volta uno spettatore, prima di offrire il denaro chiede che anche la bambina si esibisca in una acrobazia. Il padre può solo rispondere che, invece dello spettacolare salto mortale che aveva promesso, la bambina canterà. Lei ubbidisce. Conosce La Marsigliese, imparata a scuola, ed è la canzone che intona con una voce che strappa le lacrime. La bambina ha un talento, forse ereditato dalla madre. Fatto sta che in breve tempo cantare diventa una seria attività e a ogni occasione la bambina aggiunge una canzone: Nuits de Chine, J’suis vache e Voici mon cœur.

A partire dal 1930 la sua vita è un susseguirsi di incontri con improbabili madri, donne con le quali il padre si intrattiene. Una di queste, Jeanne, resterà incinta dopo pochi mesi e diventerà sua sposa.

Édith Piaf nel 1950

Édith non smette di cantare, sbalordisce e sorprende. Tanto da irritare il padre che ora ha meno successo di una ragazzina di quindici anni. Meglio mandarla altrove. Per qualche tempo Édith distribuisce latte, svegliandosi alle quattro e mezza del mattino, ma quel mestiere non fa per lei: può certamente guadagnare di più mettendosi in proprio, imprenditrice di se stessa e del proprio talento. Per strada conosce Momone, Simone Berteaut, una povera disgraziata che della vita conosce solo la miseria. Diventerà il suo braccio destro, a lei toccherà il compito della questua alla fine dell’ultima canzone. A zonzo per tutta Parigi, dai quartieri più poveri a quelli benestanti, gruzzoli di denaro tra una canzone e l’altra si accumulano, e alle due ragazze non va così male, tanto che spesso si festeggia con una bevuta.

Ed è in tutta questa libertà che fa il suo ingresso il giovane fattorino Louis Dupont. A diciassette anni Édith, la cui vita è una rassegna di privazioni, non può che cercare affetto, amore adolescenziale, sesso che però poco dopo la rende madre di una bambina: Marcelle Dupont nasce l’11 febbraio del 1933. Questo non impedisce a Édith di tornare a cantare per le strade di Parigi, abbandonando al giovane Louis la figlia, per tutti Cécelle. Alla bambina non è riservato un felice destino e nemmeno a Édith che dovrà affrontare lo strazio della sua morte, a soli due anni e cinque mesi, per meningite.

Édith Piaf e Marlene Dietrich nel 1959

Non basterà tutto l’alcol tracannato per giorni interi a salvarla dalla disperazione. Accecata dal dolore riesce fortunatamente a non cadere vittima di sfruttatori e malviventi e riprende a cantare. Di giorno per strada, di notte nei locali, e nelle caserme, per i soldati ai quali scalda il cuore. La svolta è l’incontro con un signore ben vestito che la ascolta cantare un ritornello all’angolo di una strada: Elle est née comme un moineau/Elle est vécu comme un moineau/Elle mourra comme un moineau! (È nata come un passero/Ha vissuto come un passero/ E morirà come un passero!)

È Louis Leplée, il direttore del cabaret Gerny’s, che la invita per una audizione. Potrebbe essere l’ennesima truffa, ma Édith sceglie di crederci. Sul palcoscenico di quel locale frequentato dalla borghesia francese, quel giorno mette in scena amori infelici, le quotidiane vicissitudini della povera gente, i problemi di chi vive vagabondando senza una meta, di chi deve prostituirsi per campare.

Canta Les mômes de la cloche: Dall’inizio alla fine della settimana/Sui viali, nei sobborghi/Se ne vedono a centinaia che vanno a zonzo/Con le loro scarpe sporche e i loro amori…ed ecco che la strada si materializza in modo impressionante: ci sono le grida degli ambulanti, il rumore dei passi svelti di chi fugge, forse a nascondersi, ci sono i colori della città, il freddo delle notti d’inverno, la solitudine.

Leplée è così sbalordito da non riuscire a interrompere la giovane cantante. Lei l’indomani dovrà presentarsi puntuale alle prove per lo spettacolo che andrà in scena di lì a quattro giorni. Per tutti sarà Môme Piaf.

La preoccupazione di Édith a questo punto è avere un abito decente con il quale mostrarsi davanti al pubblico della gente che conta a Parigi. Se lo cuce da sé, ma non fa in tempo a finirlo, le manca una manica. È furioso Leplée, questa donna è scandalosa, come osa presentarsi a quel modo? La giovane Yvonne Vallée, moglie di Maurice Chevalier, che assiste alla scena, risolve il problema coprendole la spalla con il suo foulard. Nessuno se ne accorgerà.

E così va in scena: “Ero in strada – la annuncia Leplée – e la voce di una bambina mi ha rapito l’anima. Mi ha commosso, mi ha sconvolto, e voglio farla conoscere anche a voi, questa figlia di Parigi. Non ha un vestito da sera ed è capace di salutare perché glielo ho insegnato ieri. Si mostrerà a voi esattamente com’era quando l’ho incontrata in strada: senza trucco, senza calze, con una gonnellina da quattro soldi. Dalla strada al cabaret, ecco a voi Môme Piaf!”, si legge nella biografia di David Lelait-Helo.

Ecco l’usignolo dell’asfalto che conduce quel pubblico di borghesi lungo le strade dei bassifondi di Paname. È un tale successo che ogni sera Édith si esibirà per loro. Piovono proposte: Jacques Canetti la invita a diventare la vedette della sua trasmissione radio L’inconnu du dimanche, un contratto per tredici puntate. Leplée intanto, manager e figura paterna, le insegna tutto: come vestire, come mostrarsi al pubblico, quale repertorio preparare. Alle edizioni Decruck, la famosa chanteuse Annette Lajon prova una canzone scritta per lei, sulla musica di Marguerite Monnot; a Édith basta ascoltarla due volte per memorizzarla. È sfacciata, disposta a tutto pur di avere ciò che le piace. L’étranger diventerà il suo primo grande successo.

Inciso poco dopo per la Polydor insieme ad altre canzoni: Les mômes de la cloche, La java de cézigue,

Mon apéro.

Ogni sera al Gerny’s si registra il tutto esaurito. Il piccolo usignolo della strada è diventata la grande voce di Parigi. Ma il destino si presenta di nuovo, come una porta sbattuta sulla faccia.

Il suo pigmalione viene trovato morto, assassinato nella sua casa. Il solo uomo che le abbia mai voluto bene, non c’è più. La polizia la tiene sotto torchio per qualche giorno, potrebbe essere lei l’artefice di quell’omicidio, per soldi o per qualche serata in più. I giornalisti frugano nel suo passato, emergono le tracce di una vita torbida, frequentazioni sconvenienti, alcol, precarietà. Il mondo dello spettacolo le gira le spalle, niente più concerti, niente dischi, nessuna serata. Solo i più fedeli non l’abbandonano e riescono a garantirle qualche contratto fuori da Parigi: Nizza, Tolone, Biarritz. Il successo è spesso seguito da momenti di dissolutezza, nei quali Édith si abbandona all’abuso di alcol, alle compagnie poco raccomandabili e a una vita sregolata. Ma ogni volta, prima di toccare il fondo, Édith trova un’ancora a cui aggrapparsi. Questa volta si chiama Raymond Asso. Scrive canzoni e per lei ne scriverà solo se cambierà stile di vita. La prima è Mon légionnaire, con la quale imporrà Édith in diversi cabaret e music-hall di Parigi. Perfino all’Abc, tempio della grande musica francese. Il 26 marzo del 1937 su quel palco Édith sconvolge tutti cantando le miserie della strada, le storie degli emarginati e degli ultimi della Terra.

I giornali la consacrano come “La vera voce della rivolta”. Ne esaltano la caparbietà e la forza, il talento sorprendente: “Un portento di acrobazia e di grazia”. Così rinvigorita, Édith riprende le registrazioni di dischi, uno dopo l’altro, le serate nei club più prestigiosi senza più perdersi nelle bettole di Pigalle. Asso scrive canzoni solo per lei e su misura per lei, sui suoi tormenti, sugli amori travagliati, sulla privazione degli affetti. Canzoni come Le mauvais matelot,

https://www.youtube.com/watch?v=DBtmPC9jfMg

Mon amant de la Coloniale,

C’est toi le plus fort.

E lei ora è semplicemente Édith Piaf. “Passionale, indisciplinata, sembra stare dietro una barricata da cui lancia invettive contro le ingiustizie sociali. Incarna di volta in volta la stracciona maltrattata, la puttana in rivolta, la ragazza irrequieta che con le unghie insanguina la stretta degli agenti”, si legge in alcuni articoli. Édith Piaf, la portavoce del popolo, la missionaria dei barboni, la passionaria ispirata. È una fase splendente della carriera di Édith, richiesta dai migliori locali della città, registra trasmissioni radiofoniche, incide nuove canzoni che Asso scrive per lei. Come la profetica Le grand voyage du pauvre nègre.

La guerra, intanto, sta bussando alle porte: la Germania sta per invadere la Cecoslovacchia. Ma per ora Édith non ci pensa, deve cantare al Bobino. L’1 settembre 1939, però, le truppe tedesche violano la frontiera polacca. Sui giornali si dichiara la mobilitazione generale, gli ultimatum francesi e britannici inviati a Berlino vengono rifiutati. La Francia e la Gran Bretagna dichiarano guerra alla Germania. Asso deve abbandonare Parigi, richiamato ad arruolarsi. Le due strade si dividono. Che cosa sarà di loro?

Nella capitale, allo scoppio della guerra i boulevard si svuotano, i locali serrano le porte. Quando riesce a esibirsi Édith innalza il suo canto per far dimenticare la paura, le giovani vittime cadute al fronte, il frastuono delle bombe. Si canta On ira pendre notre ligne su la ligne Siegfried, con l’arrangiamento di Ray Ventura.

Al ritorno di Asso, Édith ha già trovato riparo dal giovane Paul Meurisse e sta debuttando in teatro. Jean Cocteau la coinvolge in Le bel indifferént e in Les monstres sacrés. Édith per lui è sorprendente: “Come farà uscire dal suo esile petto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, anzi, come l’usignolo di aprile lancia il suo canto d’amore”, scrive David Lelait-Helo nella biografia dedicata alla grande interprete.

Fuori la morsa si stringe. Paul deve raggiungere il suo reggimento ad Agen, e poi a Tolosa. Il 14 giugno 1940 i tedeschi fanno il loro ingresso in città. Il 22 si firma l’armistizio e la Francia si ritrova a pezzi: zona occupata al nord, zona libera al sud. Parigi è straziata, come Édith che vi fa ritorno insieme a Paul. Nel 1941 scriverà Où sont-ils tous mes copains:

Dove sono tutti i miei amici/Che una mattina sono partiti/Par fare la guerra?/ Dove sono i miei ragazzi/Che cantavano: “Torneremo,/Non vi preoccupate”?/I tamburi e le trombe /Accompagnavano la loro canzone/Nell’alba chiara/Dove sono tutti i miei amici/ Che una mattina sono partiti/Per fare la guerra?

La presenza dei tedeschi ha trasformato la città in un luogo desolato: saracinesche abbassate, persone in fila per un pezzo di pane, la morte che si insinua dappertutto. Per cantare all’Abc Édith deve consegnare i testi delle canzoni e attendere l’autorizzazione. Tra questi L’accordéonniste, scritta da un ebreo, Michel Emer, storia di una prostituta che si innamora di un fisarmonicista partito per la guerra.

E Le fanion de la Légion che canterà senza tentennamenti sfidando gli ufficiali tedeschi. Una canzone di guerra, sui giovani soldati che muoiono, colpiti uno a uno: I “bastardi” dominano la pianura, /Lassù nel fortino. /Da una lunga settimana, /La morte ne prende qualcuno ogni mattino…

Il girono dopo al Kommandantur le verrà chiesto di giustificare quel gesto riprovevole e di non ripeterlo mai più. Dalla fine del 1942 per quasi un anno la censura tedesca le sospende l’autorizzazione a esibirsi. Édith è costretta al silenzio, privata della libertà di esprimere la sua arte, di dare conforto ai poveri afflitti. Ma con la fine del provvedimento è un fiume in piena, nessuno può arrestare la sua voglia di far sentire la sua voce. Il 14 agosto 1943 è in partenza per una tournée in Germania, nei campi e nelle fabbriche dove sono rinchiusi i prigionieri francesi. Per loro canta la speranza del ritorno, i ricordi di una Francia libera.

È di nuovo in Germania l’anno successivo, visita undici campi in tre settimane ma ha anche una missione fondamentale: con il suo entourage ha organizzato un espediente per portare in salvo diversi prigionieri: lasceranno la Germania sotto l’identità di sedicenti musicisti della sua troupe.

Alla gioia per questa impresa fa subito seguito un dolore: il ritorno in Francia è segnato dalla notizia della morte del padre, il 3 marzo 1944. Poco dopo gli Alleati sbarcano sulle spiagge della Normandia, mentre la Resistenza si organizza per la lotta. La Liberazione riaccende l’entusiasmo in tutto il Paese, entusiasmo che per Édith coincide anche con nuove canzoni che nascono in un baleno e che poi diventano eterne. Come La vie en rose, sbocciata nella primavera del ’45 davanti a un bicchiere di vino sorseggiato con l’amica Marianne Michelle.

Nel nuovo mondo che si profila dopo la Conferenza di Jalta, Édith ha trent’anni e dopo tanto tempo sembra aver fatto pace con i suoi fantasmi e può festeggiare con gli amici i dieci anni dall’uscita del primo disco. La musica ora la porta verso una collaborazione molto proficua con un gruppo di cantori, i Compagnons de la Chanson. Con loro interpreta una canzone di Jean Villard, Les trois cloches, un successo clamoroso. Édith e il gruppo dei cantori sono una voce sola, simbolo di condivisione e di unità che viene applaudita in tutta la Francia, villaggio dopo villaggio.

Sulla spinta di questo trionfo il gruppo incide vecchie canzoni popolari come Dans les prisons de Nantes

e Le roi fait battre tambour.

Con loro, poi, nel 1947 Édith tenta l’impresa straordinaria della conquista dell’America. Laggiù nessuno la conosce, il suo talento è tutto da mettere alla prova. Se i Compagnons ottengono immediato successo, per Édith il primo impatto con il pubblico americano è disastroso. Tutto il realismo della sue canzoni, le storie di guerra e di straccioni, la triste miseria che la chanteuse incarna, disturbano. A chi sta costruendo il Paese dei vincenti non interessa il grigiore della piccola cantante stretta in un mediocre abitino.

Édith ne è così amareggiata da voler ripartire subito. Solo dopo le parole d’accusa all’incompetenza del pubblico americano, lanciate dalle pagine del New York Herald Tribune, riceve finalmente il meritato riscontro. Il pubblico l’acclama dopo uno spettacolo al Versailles, locale frequentato anche da Marlene Dietrich. Da quel momento ogni sera le più grandi personalità si daranno l’appuntamento per ascoltare la voce di Parigi: Frank Sinatra, Bette Davis, Cary Grant, Henry Fonda, Judy Garland, Orson Welles. Ovazioni, oltre ogni pronostico.

Da questa esperienza Édith esce rinvigorita e pronta per una nuova avventura sentimentale: la relazione con il famoso pugile francese Marcel Cerdan, soprannominato “Le bombardier marocain” campione del mondo dei pesi medi dal 1948 al 1949, battuto al 10º round da Jake LaMotta. Sposato e padre di due figli, mai avrebbe lasciato la moglie, ma era disposto a tutto pur di ascoltare la voce di Édith e intrattenersi con lei. È una relazione che non ha un futuro, eppure Édith si sente risarcita di tutte le mancanze affettive di sempre: può quasi sorridere alla vita che con lei è stata così grama. Le lacrime, però, continuano a segnare il volto più dei sorrisi. E di ritorno da un viaggio in Marocco, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1949 l’aereo sul quale Marcel viaggia, si schianta in mare.

Per lui, con il volto di un fantasma, canterà una delle canzoni d’amore più intense di sempre, L’hymne à l’amour.

I farmaci attutiscono per un po’ il tormento di Édith, ma diventano una dipendenza che, insieme a morfina, alcol e oppio, la aiutano a superare anche l’angoscia. Ma se è vero che dopo il buio torna la luce, il ritorno di Édith sul palco è un miracolo possibile. Ed è un successo, fatto di canzoni come Demain, il fera jour.

E così Édith è di nuovo nel vortice delle serate, delle tournée, dei viaggi. Fino a sfinirsi. Gli ultimi anni della sua vita sono anni di paradisi artificiali, di tentativi di disintossicarsi, di depressioni alternate a esibizioni spettacolari, come all’Olympia, nel 1955 dove interpreta l’appassionata Les amants de Paris

e L’homme à la moto.

Anni di festeggiamenti, per il matrimonio con il cantante Jacques Pills, a cui seguirà un inevitabile divorzio. Giovani amori saranno al suo fianco, come Georges Moustaki, che le scrive canzoni senza tempo, tra cui la meravigliosa Milord.

Anni di nuove avventure: nel 1957 gira Les amanys de demain, dal copione di Pierre Brasseur. Anni di tournée instancabili. Di nuovo in America, nel 1956, è protagonista di una serata strabiliante alla Carnegie Hall, dove tornerà altre volte, sempre acclamata. Poi in Messico, in Brasile, in Svezia: ogni volta a un passo dal crollo definitivo.

Nel 1959 si prepara a tonare in scena. Se a volte succede il miracolo e il pubblico le si inchina ai piedi, altre, a causa delle troppe medicine, fatica a pronunciare le parole, ha vuoti di memoria. Parigi e la Francia sono in pena per le sue condizioni di salute e ogni teatro fa registrare il tutto esaurito, tutti vogliono vedere la chanteuse un’ultima volta.

Data per morta dopo ogni concerto, lei invece risorge per salire instancabilmente su un altro palcoscenico, c’è sempre una nuova canzone da cantare. Come i capolavori Non, je ne regrette rien,

Mon Dieu,

Exodus

che nel 1960 sono pronti per le successive serate all’Olympia.

Nel 1962, A quoi ça sert l’amour? scritta da Michel Emer, è un duetto cantato con il giovane Théophanis Lamboukas, che vuole sposarla. Che, anzi, la sposerà. E a lei sembrerà l’amore tanto atteso. Di nuovo all’Olympia quell’anno farà il tutto esaurito.

Dal vivo:

Una volontà di ferro è ciò che la tiene salda alla sua vita di immensa e osannata artista così faticosamente conquistata. Ma poi anche le energie si affievoliscono e quel corpo minuto non ha più la forza di sorreggere ciò che ancora la mente vorrebbe. L’11 ottobre 1963, all’età di quarantasette anni, nella stanza di una cascina provenzale, l’Enclos de la Rourée, circondata da Théo, da amici e persone fidate, Édith si spegne in seguito alla rottura della vena porta. Verrà condotta a Parigi, al suo appartamento in Boulevard Lannes e infine al cimitero di Père-Lachaise.

Dalle strade della città la voce di passerotto aveva dato speranza ai tanti sopravvissuti dei bassifondi che ora salutavano il suo passaggio. Gente umile e artisti di fama, uniti nello stesso dolore. Nessuna messa, nessun perdono da parte della Chiesa per la ragazza della strada, dissoluta e peccatrice. “Sono funerali poco comuni, ribelli e agitati – dirà qualcuno –. Come Édith. Come le passioni che non ha smesso di scatenare”.

Il documentario Rai Édith Piaf: gli ultimi giorni di un’icona:

Prima parte:

Seconda parte:

Terza parte:

 Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli