“Mi incuriosisce l’altro, il diverso da me, mi incantano le attitudini musicali di altri popoli, la musica che non è una questione di mercato ma che nasce per fare cultura, aggregazione, comunità.”
Ginevra Di Marco, Le donne del folk. Cantare gli ultimi
Ginevra Di Marco è Targa Tenco 2025 nella categoria “Miglior Album di Interprete” per Kaleidoscope, album pubblicato dalla Funambulo Label, premiato per la capacità di racchiudere in un unico caleidoscopio di idee, voci ed emozioni, un percorso artistico che spazia dalla musica popolare a quella cantautorale, affrontando temi sociali. Risultato del rientro in studio dell’interprete toscana dopo quasi cinque anni, rappresenta la summa del suo percorso artistico intrecciando l’amore per il canto di tradizione e la volontà di fare della musica un porto aperto all’accoglienza di ciò che è altro. Kaleidoscope, unione delle parole greche “kalos” (bello) “eidos” (forma) e “skopein” (guardare) richiama, infatti, lo strumento ottico che, utilizzando specchi e frammenti di vetro colorato, crea moltitudini di figure geometriche simmetriche che cambiano di continuo mentre lo si ruota. Come la musica di questo disco, che esplora i mille riflessi delle note, delle atmosfere che nascono dalla combinazione di voci e strumenti, di parole e significati. Un album complesso, sorprendente per la varietà di spunti che offre sia musicalmente che nei temi affrontati, un album di cui abbiamo avuto l’opportunità di conversare direttamente con l’autrice.

Ginevra Di Marco, che significato aggiunge questo titolo all’album?
Il caleidoscopio rivela immagini in continua evoluzione e offre infinite combinazioni visive. Stimolo per la mente e l’immaginazione. Metafora di creatività, a ogni rotazione una tappa nuova e imprevedibile. Così sono trascorsi questi nostri ultimi vent’anni, da quando abbiamo deciso che la musica non può e non deve essere rinchiusa in schemi prestabiliti ma essere linguaggio universale che travalica i generi e le definizioni. Ho scelto Kaleidoscope perché il disco è fatto di tanti frammenti diversi – sonorità, emozioni, prospettive – che cambiano e si trasformano, ma insieme creano un disegno unico. Come in un caleidoscopio, ogni brano offre una nuova immagine, che è sempre parte di un tutto. Come tutti noi.
💿 Tredici tracce (più una pazzesca secret track, L’etranger, versione live da Stazioni Lunari, Roma, novembre 2004, testo e musica Steven Allan Brown, Peter Principle, Blaine Leslie Reininger, Winston Tong) in cui Di Marco, con Francesco Magnelli e Andrea Salvadori, ha dato forma a un mondo in cui gli esseri che abitano le acque solcano i cieli (suggestive le immagini di copertina), sopravvivono oltre i margini del loro habitat per respirare aria tersa, ben oltre le più alte vette. Un mondo capovolto in cui l’arte non si assoggetta al mercato e le canzoni infrangono ogni principio di serialità, stando al di fuori dei meccanismi della produzione discografica che appiattisce e uniforma suoni, ritmi, parole.
Qui invece le parole tornano ad avere senso, a dire cose importanti, nelle lingue più diverse, a riempirsi di significati e di messaggi. Come anche le sonorità, la coralità che impregna voci, strumenti, arrangiamenti, scelte espressive. “Mentre lo spazio si restringe e ci si orienta a vista, queste canzoni impastano un racconto multietnico che alterna la rabbia e il grido per la miseria e la polvere a cui l’uomo è ridotto ma che vuole anche suggerire ciò che non si riesce a vedere”, scrive Daniele Sidonio nell’interno di copertina. Un magma potentissimo ne fuoriesce e ogni canzone è un tassello che viene a comporre un’immagine più vivida di questo mondo sconquassato dalla violenza delle guerre, segnato dalle traiettorie di coloro che attraversano mari e inferni per raggiungere la terra ferma. Per dire del dolore e della rabbia, ma anche della meraviglia e dello stupore che possono generare solidarietà e convivenza. E dove la musica, il canto, ricoprono un ruolo fondamentale.

“Il canto è un dono immenso – raccontava Ginevra Di Marco in una precedente intervista contenuta nel volume Le donne del folk. Cantare gli ultimi a firma di chi scrive – oltre ai significati che il testo di una canzone porta con sé, è linguaggio dei sentimenti, dell’anima e le sue passioni. Ho sempre pensato che in quanto dono non ho meriti, l’ho avuto e basta; per questo ho il dovere di maneggiare questa ‘fortuna’ con cura e responsabilità. Che meraviglia avere la possibilità di parlare ai sentimenti delle persone! Amo il canto e la musica tutta e li rispetto come qualcosa di sacro: il linguaggio che parla alle nostre sfere più alte e sensibili”.

Ginevra Di Marco (Firenze, luglio 1970 è voce poliglotta e contemporanea, punto di confluenza tra cultura popolare – con tutto il retaggio di canti e storie antiche – e nuove sperimentazioni – new wave, indie rock, folk rock, punk rock – che già dagli anni Ottanta fiorivano in quella stessa Firenze, centro gravitazionale di esperienze musicali alternative che videro poi la massima affermazione negli anni Novanta. Così Di Marco ha tradotto la canzone popolare nelle sonorità essenziali e austere del nuovo decennio. Gli anni Novanta, appunto: suoni asciutti, ritmiche decise, atmosfere rarefatte. Ci ha aggiunto un’immagine di imperitura bellezza, una cultura aperta alle tante identità musicali e artistiche del mondo. Con la sua voce capace di mescolare lingue originarie, dialetti, suoni meticci, incarnando la possibilità di una società più giusta che, in armonia, concili le diversità. Una società cosmopolita e multietnica.

La musica l’accompagna fin dall’infanzia, negli anni Ottanta diventata ricerca, ma sono i Novanta lo scenario della sua rivoluzione. Anni di cupo ritorno alla realtà, dopo le ubriacature da secondo boom economico degli anni Ottanta. Anni che in Italia vedono la fine della Prima Repubblica, con un ceto politico irresponsabile, giunto “al Trattato di Maastricht con il bilancio dello Stato fuori controllo lontano dai parametri concordati per l’ingresso in Europa” (Guido Crainz). Un ceto politico travolto dalla bufera di Tangentopoli. Anni delle violente controffensive di una mafia attaccata dallo Stato, che colpisce duramente i suoi simboli più fulgidi: Giovanni Falcone assassinato a Capaci nel maggio 1992, Paolo Borsellino, a Palermo nel luglio dello stesso anno. Nuove guerre sconvolgono l’Europa: quella del Golfo, quella civile nella ex-Jugoslavia con gli episodi osceni di pulizia etnica in Croazia e in Bosnia Erzegovina e l’intervento militare della Nato in Bosnia. La strage etnica di Srebrenica e il durissimo assedio di Sarajevo. La musica si ascolta sui compact disc che soppiantano le musicassette. Il vinile resta in commercio come prodotto per appassionati. Ma la musica, soprattutto, ritorna nelle piazze, occasione viva di incontro e dialogo. Sperimenta, cerca nuovi linguaggi per parlare alle persone. Si fa spazio di confronto, luogo in cui dibattere su temi politici e sociali. È necessità di espressione, urgenza di dire.
“A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta avevo diciannove, vent’anni – raccontava Di Marco – e avevo da poco finito il liceo: e la musica bussava sempre più forte nella mia testa e nel cuore. Stavo chiusa in una cantina a suonare con il mio primo gruppo, gli ESP, nel quale c’erano anche Andrea Orlandini e Alessandro Nutini che poi sono diventati chitarrista e batterista della Bandabardò. La scena musicale a Firenze negli anni Ottanta era occupata essenzialmente dai Litfiba, Diaframma, Neon, Moda, gruppi che venivano dalla new wave. Io sono cresciuta ascoltando davvero di tutto, non ho mai amato un solo genere, ma il talento, la bravura e la capacità dei musicisti all’interno di ogni genere. Laddove intravedo talento e capacità comunicativa si alzano le mie antenne, il genere non mi interessa e lo trovo anche, in un certo senso, ingabbiante”.

Nel 1993 ha inizio la collaborazione con i C.S.I., gruppo nato dallo scioglimento, nel 1990, dei CCCP – Fedeli alla linea. Il Consorzio Suonatori Indipendenti (C.S.I.) si forma dall’unione degli emiliani Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, ex CCCP, con i toscani, in uscita da Litfiba, Gianni Maroccolo, bassista e produttore, Francesco Magnelli, tastierista che, insieme al chitarrista e tecnico del suono Giorgio Canali, avevano preso parte alla realizzazione dell’ultimo album dei CCCP, Epica Etica Etnica Pathos (1990, Virgin)Un disco riassunto della storia precedente e anticipatore delle successive evoluzioni, sonorità libere e liberate tra “misticismo e carnalità, Occidente e Oriente, velluto e carta vetrata, folk e punk, rabbia e sarcasmo, canzone e sperimentazione”, scriveva Federico Guglielmi.
Di Marco entra inizialmente come corista – nel 1993 partecipa a Ko de mondo (Black Out), album scritto in Bretagna in cui collabora ai pezzi Home sweet home e La lune du Prajou – e poi la sua voce prende spazio, stemperando le asperità vocali di Giovanni Lindo Ferretti. Diventa più presente nell’album dal vivo In quiete e nelle successive produzioni discografiche del gruppo, che avvia una ricerca sui temi della Storia e della guerra a partire dal brano Guardali negli occhi, inserito nella raccolta Materiale Resistente (1995, Consorzio Produttori Indipendenti) realizzato in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione.

Linea Gotica (1996, Back Out-Mercury), ispirato ai drammatici avvenimenti nei Balcani, è un disco angosciante, di canzoni “terribili e dolorose ma bellissime nelle melodie e nelle parole ‘importanti’” (Federico Guglielmi). Tra queste Cupe vampe, dedicata al rogo della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. E Linea Gotica che torna sul tema resistenziale, a ricordo delle vicende di “I ventitré giorni della città di Alba”, romanzo di Beppe Fenoglio. Spicca la voce della Di Marco, nei cori, nei controcanti, negli assoli vocali. Da questo momento, infatti, non è più solo corista ma elemento vocale necessario: “Sono il canto che Giovanni non ha. Non ci sovrapponiamo, non ci contrastiamo, non ci sovrastiamo. Siamo diversi e, per questo, fatti l’uno per l’altra”, dirà Di Marco. E quei brani diventeranno parte del suo repertorio, suonati e cantati insieme alle migliaia di voci che accompagneranno i concerti dell’artista fiorentina, quando avvierà la carriera solista.
Intanto, La terra, la guerra, una questione privata (Black Out – Mercury) è un concerto spettacolo tenutosi ad Alba, nella Chiesa di San Domenico, nel 1996, “in onore e a memoria” dello scrittore partigiano Beppe Fenoglio. Uscirà come disco live nel 1998, mentre Tabula Rasa Elettrificata (1997), è la trasposizione in musica di un viaggio in Mongolia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni.
Noi non ci saremo voll. 1 e 2 (2001, Black Out – Mercury) è una raccolta di momenti speciali del periodo 1993-2000, edita dopo lo scioglimento del gruppo, mentre nel successivo progetto musicale di Giovanni Lindo Ferretti, P.G.R. (Per Grazia Ricevuta), ritroviamo la sua voce protagonista nell’album omonimo Per Grazia Ricevuta (Universal, 2002). Un nome che rappresenta la riconoscenza di chi, nato dopo la Seconda guerra mondiale, ha ricevuto in dono la libertà. Ci sono brani come Montesole, che condanna la violenza dell’eccidio nazista. 11 settembre 2001, dedicata ai poliziotti, alle forze dell’ordine, a coloro che quel giorno non fuggirono di fronte al disastro. Sul CD è impresso “Featuring Ginevra Di Marco”, voce più che presente, ormai determinante. Ma poco dopo lascerà il gruppo con Francesco Magnelli, per perseguire la sua strada. “Ginevra era la mia musa, la mia madonna fiorentina”, dirà Ferretti.
“Gran parte delle canzoni dei C.S.I. – raccontava Di Marco – sono state per me motivo e spunto di tante riflessioni. I testi di Giovanni Lindo Ferretti hanno raccontato il mondo, l’Italia, la guerra, la Resistenza, il Novecento, scandagliando nell’animo umano a scovarne la bellezza e i limiti. Diciamo che in linea generale ho ereditato da quella storia la necessità di cantare parole di cui non ci si debba mai pentire, neanche dopo anni di distanza. Ho iniziato a cantare nel C.S.I. che ero più che ventenne, in un gruppo di musicisti e pensatori molto più grandi di me. Quei dieci anni sono stati la mia totale formazione, soprattutto a livello di pensiero, di cosa voglia dire salire sul palco, trovarne la motivazione profonda, affrontare ciò che si fa con responsabilità e indipendenza totale di azione e di scelte. Ho imparato il coraggio di perseguire la propria strada e di essere veri, autentici, costi quello che costi”.
Nel 1999 l’interprete e cantautrice avvia la carriera da solista. Trama tenue (1999, Luce Appare) è il vero esordio. Alcune canzoni colpiscono in modo particolare: Lilith, la donna ribelle, e Neretva, la guerra in Bosnia. “Lilith fu un testo ispirato ai pensieri di una strega sul rogo, metafora della difficoltà di essere una voce fuori dal coro, il pensiero non omologato che viene rifiutato dalla società. Neretva è un pezzo nato dall’esperienza di un viaggio importante a Mostar con i C.S.I. nel 1998 dove andammo a fare due concerti, con l’ausilio della Regione Emilia Romagna. Neretva è il nome del fiume che attraversa la città di Mostar, che allora era stata martoriata dai due conflitti, serbo-bosniaco il primo e croato-musulmano il secondo. Fu un viaggio folle ma era bellissima l’idea di voler fare due concerti a Mostar Est e a Mostar Ovest, perché la distanza tra croati da una parte e bosniaci musulmani dall’altra era ancora evidente. E bella anche l’idea di riportare musica dove nell’aria per troppo tempo si era erano sentiti solo spari bombe e distruzione” (Le donne del folk. Cantare gli ultimi).
Nel 2005 esce Disincanto (On The Road). Qui la canzone Madre Severa affronta un episodio legato all’eccidio partigiano di Montalto di Cessapalombo, in provincia di Macerata. “È stato un tema sempre molto sentito quello della Resistenza partigiana – raccontava Di Marco – sia all’interno della mia famiglia che nella nostra musica. Mai dimenticare da dove veniamo, ricordare le oppressioni di ieri per avere più coscienza dell’oggi. E come diceva Norberto Bobbio, la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto. È stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: mirava a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”.
Nel 2006 Stazioni Lunari prende terra a Puerto Libre (Radiofandango) è un album multiforme in cui la tradizione si reinventa nei suoni e nei ritmi.
“Finita l’esperienza con i C.S.I. ho cercato di nutrire curiosità musicali rimaste sopite – ha spiegato Di Marco – e allo stesso tempo avevo bisogno di ritrovare un senso forte per ritornare a cantare. I canti popolari hanno restituito densità e significati importanti alle parole. Ed è quella che esprime in modo inconfondibile il carattere, lo spirito e le inclinazioni di un popolo. Mi ha sempre attratto la musica non ingabbiata nelle leggi del mercato, quella spontanea, tramandata oralmente. Nella musica popolare c’è la nostra storia, quella di tutti, è qualcosa che accomuna tutti quanti. E in maniera spontanea e naturale ho cominciato a lavorare sull’interpretazione, un viaggio meraviglioso che mi appassiona molto”.
Così l’album presenta canti della tradizione popolare rivisitati secondo le scelte interpretative dell’artista e dei musicisti che l’accompagnano: Andrea Salvadori, Nico Gori, Ferruccio Spinetti, Marzio Del Testa, Francesco Magnelli. Tra i più celebri, l’Inno dei Sanfedisti, ovvero il canto degli appartenenti al movimento popolare controrivoluzionario sorto a Napoli nel 1799 per contrastare le repubbliche giacobine fondate dalle truppe napoleoniche.
E poi La Leggera, raccolto da Caterina Bueno a Stia, in provincia di Arezzo, nei primi anni 60. Il canto appartiene a un’epoca agli albori delle lotte proletarie, quando ancora la classe lavoratrice non si era data un’organizzazione, un’epoca in cui i lavoratori dall’Italia settentrionale e dal centro si recavano in Maremma, terra soggetta alla bonifica medicea ma ancora malsana. Chi andava a fare la stagione nei campi di Maremma, contadini poverissimi, doveva prendere un treno che arrivava passando dall’Appenino tra la Toscana e l’Emilia: era il famoso Trenino della Leggera, o semplicemente La Leggera. Si chiamava così perché i suoi viaggiatori non avevano niente o quasi: un tozzo di pane, una mela e un paio di scarpe bucate. Era un termine dispregiativo e canzonatorio con cui si indicavano i disoccupati, gli stagionali, gli emigranti che, poverissimi, viaggiavano “leggeri”, solo con una misera sporta. Il lavoro per loro era schiavitù.
Nel 2009 con Donna Ginevra (Materiali Sonori) Di Marco vince la Targa Tenco per la migliore interpretazione. “Un album – è scritto nella motivazione – in cui la tradizione popolare italiana e del mondo, la canzone d’autore, vengono vissute e riproposte con spirito originale e con uno stile che ha fatto scuola”. L’album è un viaggio magnifico che, attraverso antiche poesie d’amore come Au bord de la fointaine e Usti usti baba, canto rom, approda in Bretagna e Macedonia, per poi proseguire in Albania, con il tradizionale Ali Pasha, canto popolare dedicato alle gesta di Ali Pascià Tepeleni che riuscì a dirigere le prime rivolte popolari albanesi per l’indipendenza dal potere ottomano.
Giunge infine in Italia, dove la Di Marco ritrova le radici toscane, riproponendo, tra gli altri, La Malcontenta, canto raccolto da Caterina Bueno in Maremma, lamento per una condizione femminile, faticosa e ingiusta. E poi scende verso il territorio campano, evocato da Le Figliole, canto cilentano del XVI secolo, e da Terra mia, omaggio a Pino Daniele. Il crack delle banche, di fine Ottocento, è tra i più classici canti di protesta.
Nel successivo Canti, richiami d’amore (2010, Funambolo) l’artista affronta brani che raccontano di amori, libertà, difesa dei più deboli. Tratti dal cantautorato italiano o della tradizione popolare, dove Di Marco torna a ripercorrere il repertorio di Caterina Bueno, con Cinquecento catenelle d’oro.
Del 2014 è la partecipazione al Nuovo Bella ciao, rivisitazione dello spettacolo che nel 1964, presentato al Teatro Caio Melisso di Spoleto col titolo di Bella ciao, diede inizio al movimento del folk revival in Italia. “Ho partecipato a quel progetto con la stessa curiosità con cui mi avvicino a qualcosa che non ho mai fatto prima – ha raccontato –. Per l’amicizia con Riccardo Tesi che ha sempre amato tanto la mia voce e mi ha spronata a cimentarmi con il canto popolare. Poi ho trovato irresistibile l’idea di trovarmi a cantare tra Elena Ledda e Lucilla Galeazzi, due signore della musica folk italiana. Ho pensato che avrei davvero potuto imparare tanto. È stata una bellissima esperienza, anche per i tanti concerti fatti in Europa”.
Tra i brani iconici dello spettacolo, la versione mondina e quella partigiana di Bella ciao.
La Rubia canta la Negra (2017, Contempo Records) è, invece, un omaggio alla cantante argentina Mercedes Sosa. “È stata la voce che mi ha fatto riconsiderare il significato del termine ‘cantare’ – ha spiegato –; una voce colma di sonorità, un tesoro che spalanca l’anima. C’è qualcosa in lei che non si sa da quale profondità provenga. Un timbro purissimo, legato alle sue radici, ma capace di trasmettere una straordinaria universalità, un amalgama equilibrato e perfetto tra intimità e vita collettiva. Mercedes è stata il simbolo della lotta per la libertà del popolo argentino negli anni della dittatura, una personalità grande. Credo che la nostra vita abbia bisogno di maestri che siano un faro, una luce sul nostro percorso” (Le donne del folk. Cantare gli ultimi).
Del 2020 è Quello che conta (Funambolo), album tributo a Luigi Tenco, autore di una canzone nuova che ha raccontato i sentimenti come mai nessuno prima (se non in Francia). Ma anche di protesta. Parlava dei cambiamenti sociali e culturali dell’Italia nel dopoguerra. Portava alla ribalta problemi irrisolti come l’emigrazione, la disoccupazione e contestava la nuova società dei consumi. La sua protesta si è fermata sul palcoscenico dell’Ariston. “Ho assolutamente voluto dare spazio a entrambi i volti di Tenco, forse più ricordato per le sue canzoni di struggimento amoroso che per le canzoni di protesta. Io l’ho amato anche per questo: era una voce fuori dal coro che guardava con occhio critico l’ipocrisia della sua società”.
Straordinaria, tra le tante, la versione di Angela:
E torniamo all’album uscito in questo 2025, prodotto da Ginevra Di Marco, Francesco Magnelli e Andrea Salvadori, un disco che è una casa accogliente in cui Ginevra ospita anime affini che portano in dono fiori variopinti, o pietanze di sapori esotici, pensieri da condividere, parole nuove e parole antiche, vecchi amori.
Un disco che è anche il risultato di un importante crowdfunding. Che tipo di possibilità ti ha dato questa modalità di finanziamento?
Il crowdfunding è stata una sfida, ma anche una grande opportunità. Non è soltanto un mezzo per finanziare un progetto: è un modo per sentirsi parte di una comunità. Per me è stato emozionante vedere che tante persone, prima ancora che il disco prendesse forma, hanno deciso di crederci e di sostenerlo. Questo ha generato un legame nuovo, più diretto, quasi confidenziale con il pubblico: non si tratta più di un disco “dato dall’alto”, ma di un’opera che nasce insieme a chi la ascolterà. Mi ha dato anche una responsabilità ulteriore: quella di restituire, attraverso la musica, tutta la fiducia che mi è stata donata.
Questo è un album che ti riassume e che ti amplifica, nel senso che tocca i punti chiave della tua poetica e li esalta. Quali canzoni ti rappresentano di più?
Credo che questo disco sia una specie di autoritratto in movimento: non una fotografia statica, ma un insieme di fotogrammi che raccontano le varie tappe del mio percorso. Ogni canzone porta con sé un pezzo di me: ci sono i brani che affondano le radici nella tradizione popolare, quelli che nascono da incontri musicali con culture lontane, e quelli che raccontano di un’umanità fragile ma tenace. Difficile scegliere, quando in un album metti tutto ciò che ti rappresenta e che pensi che meriti di stare su un disco. Non riesco a preferirne alcune rispetto ad altre. I figli si amano tutti allo stesso modo.
💿 Kaleidoscope si apre nel segno della sorellanza di voci, quelle di Ginevra Di Marco e della cantautrice e polistrumentista pugliese Rachele Andrioli, vincitrice del Premio Loano 2023 con l’album Leuca, che in Ansia Y Dolor costruiscono un ambiente sonoro potentissimo per raccontare un’origine del mondo che parla la lingua delle madri e di figli che cavalcheranno mari in tempesta per trovare la luce e la vita. Il viaggio tra acque agitate di anime precarie che in questo attraversamento sognano un futuro migliore è un tema ricorrente nell’album. Il testo di Equidad Bares e la musica del produttore e compositore francese Philippe Eidel conducono dentro atmosfere folk e world music.
L’anima rock della Di Marco esplode nella rilettura di Canzone Arrabbiata composta da Nino Rota su testo di Lina Wertmüller e interpretata da Anna Melato nelle colonne sonore di “Fantasmi a Roma”, film del 1961 diretto da Antonio Pietrangeli, e di “Film d’amore e d’anarchia”, scritto e diretto da Lina Wertmüller nel 1973.
Con Auguri si entra nel mondo privato dell’autrice che compone la musica insieme a Francesco Magnelli e Andrea Salvadori e il testo con il poeta e scrittore Franco Arminio e Andrea Salvadori. La canzone celebra la vita, di nuovo un viaggio che si compie ogni giorno come un compleanno. L’autrice non rimpiange nulla della sua vita che scorre ogni giorno nel frastuono di mille parole, con cui raccontare le vite degli altri, dei fragili e degli innocenti, di chi non si consola, di chi si sfida e non affonda, di chi conosce la malattia, di chi conosce la gioia. Giovanni Lindo Ferretti appare in una versione corale di Tramonto D’Africa (feat. Giovanni Lindo Ferretti & BalbelNova), brano dei P.G.R. sulla musica di Giorgio Canali, Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo che è un omaggio straordinario alla terra che più di ogni altra è arsa dall’incandescenza del sole e che vibra di tutte le sfumature dell’arcobaleno. Una terra minata nella sua pace e indipendenza, conquistata, colonizzata nei diversi periodi della sua storia, ma anche patria di ritmi e suoni che hanno conquistato il mondo e che ispirano cantori, compositori.
Le storie ai margini della storia trovano posto nei suoni e nei testi di questa e di diverse canzoni. È questo un modo per parlare dell’oggi?
Sì, perché parlare dei margini significa parlare del cuore vivo della società. Le storie che non entrano nei manuali di storia sono spesso quelle che rivelano con più sincerità chi siamo: la vita delle donne, dei migranti, dei vinti, di chi non ha voce nei racconti ufficiali. Io credo che dare spazio a queste voci sia un modo per parlare dell’oggi in maniera più vera, più onesta. È una scelta etica e artistica: raccontare l’oggi non solo attraverso le grandi cronache, ma attraverso i piccoli destini, le resistenze quotidiane, i gesti apparentemente minori che invece sono fondamentali.
💿 Con la Rivolta Delle Parole prende appunto la parola il drammaturgo Armando Punzo, direttore della Compagnia della Fortezza che da oltre trent’anni anni coinvolge i detenuti del carcere di Volterra nella messa in scena di opere teatrali compiendo un lavoro di alto valore civico oltre che artistico. Il testo, da Hamlice, Saggio sulla fine di una civiltà trova la sua forma nella voce di Punzo stesso, artefice e deux ex machina.
A chi parla questo album?
Penso che questo album parli a chi è curioso, a chi ha voglia di mettersi in ascolto non solo di una voce ma di tante voci. Non credo di rivolgermi a un pubblico omogeneo: la mia musica vuole aprire finestre, creare connessioni, far risuonare corde profonde. Parla a chi cerca nelle canzoni non soltanto una melodia, ma un pezzo di vita, una storia, un’immagine in cui ritrovarsi. È un album che vuole arrivare a chi non ha paura di viaggiare, anche solo con l’immaginazione, verso mondi diversi che però ci riguardano tutti da vicino.
💿 La tradizione è protagonista nella tarantella Fra Massune e Giacubbine, musica e testo di Roberto De Simone dall’album Quant’è bello lu murire acciso (RCA, 1975) interpretata in origine da Lina Sastri, Virgilio Villani, di nuovo una colonna sonora, quella del film omonimo del 1975 diretto da Ennio Lorenzini sull’impresa del duca Carlo Pisacane. Rivoluzionario e patriota, teorico del socialismo fu protagonista della Repubblica Romana e guidò una spedizione nel Regno delle Due Sicilie con l’obiettivo di innescare una rivolta, che ebbe inizio a Sapri e si concluse a Sanza, dove morì. Rosa Canta e Cunta è, invece, un omaggio a Rosa Balistreri, che interpretò questo testo del poeta di San Cataldo Bernardino Giuliana, il quale tradusse in parole la fatica esistenziale della Balestreri, ma anche il suo disperato riscatto, la volontà di non farsi abbattere dagli strali dell’avverso destino.
Nella tua idea la tradizione non deve essere qualcosa di statico. Che operazione hai fatto su De Simone e Rosa Balistreri?
La tradizione, per me, è un organismo vivo. Non è un museo in cui conservare reliquie, ma una fonte a cui attingere continuamente, con rispetto e con coraggio. Con De Simone e Rosa Balistreri ho cercato di entrare in dialogo: non di riproporli come erano, ma di portarli dentro il mio linguaggio, senza tradirne la forza originaria. Ho cercato di restituire la loro energia in una forma che potesse parlare anche al nostro presente. Rosa e De Simone hanno incarnato mondi potenti: fermarli significherebbe svuotarli, mentre cantarli oggi significa renderli ancora strumenti di libertà e consapevolezza.
💿 Gianni Maroccolo accompagna magistralmente la splendida Ballata Per Margherita tratta dall’omonimo spettacolo dedicato a Margherita Hack. Il testo, opera di Ginevra Di Marco, fa riecheggiare temi cari all’astronoma e astrofisica fiorentina, atea e donna di scienze, che aveva dedicato i suoi studi all’universo e al sistema solare, considerando la morte come un fatto naturale della vita. L’avresti detto mai? le fa dire Di Marco – che poi non fa paura ma serve a dare un senso a ciò che vedi. La morte da’ la vita, la morte dona sempre nuova vita.
Ana – Genesis su musica di Philippe Eidel e testo di Yiota Vei e Lamma Bada Yatathanna classico della tradizione arabo – andalusa accostano diverse forme di spiritualità con una performance vocale straordinaria che restituisce lo struggimento di una passione amorosa.
La forza di questo album è anche la mescolanza, il coraggio di dare voce a culture altre a lingue altre. Che messaggio hai voluto lanciare?
Il messaggio è che la diversità è un dono. Quando ci si apre a un’altra lingua, a un’altra cultura, non si perde qualcosa, ma ci si arricchisce. La musica è un territorio ideale per abbattere muri: le lingue, i ritmi, le sonorità che sembrano lontane ci ricordano che, in fondo, apparteniamo a una stessa umanità. Dare spazio a culture altre è un atto politico oltre che artistico: significa opporsi alla paura del diverso, al ripiegamento su se stessi. Vuol dire affermare che il futuro si costruisce solo insieme, nell’intreccio delle differenze.
💿Con Io Sarò Al Tuo Fianco Di Marco dà voce ad Alfonsina Storni, drammaturga, poetessa, giornalista svizzera naturalizzata argentina, esponente del modernismo, che morì suicida in mare, davanti alla spiaggia La Perla nel 1938. Morte che ispirò il canto Alfonsina y el mar di Ariel Ramírez e Félix Luna, tra i più interpretati da musicisti e cantanti di lingua spagnola e non. “Alfonsina è stata una donna del popolo – di lei si è scritto – una maestra ragazza-madre, una socialista, è diventata una star della poesia latino-americana, nota anche in Europa dove ha tenuto conferenze, tradotta in francese e in italiano, una donna pubblica, una femminista che si è battuta per i diritti delle donne, una donna ultramoderna (così amava definirsi lei, che ha scelto di vivere senza balaustra e di morire nel mare)”.
A Franco Arminio, scrittore, poeta, regista, è dato il compito di vestire i suoni di poesie e scritti pungenti. Insieme a Di Marco in Il Coraggio Di Essere Fragili dà forma a una denuncia, inesorabile, spietata verso un mondo pieno di rabbia, e di violenza, svuotato di valori, di umanità nel quale la più forte azione di resistenza è la consapevolezza di essere fragili, il coraggio di restare fuori da regole e giochi di potere, fuori da griglie precostituite, per ritrovarsi confusi, disordinati, fuorigioco ma coscienti di se stessi.
In Apparente, sempre nelle parole di Franco Arminio, si coglie una concezione della vita che è il frutto delle azioni di ciascuno, del proprio libero arbitrio, e dove Dio è il bene che facciamo e niente di più. Diverse le riflessioni che scaturiscono dall’ascolto dei brani, che non possono lasciare indenni. Coinvolgono, entrano nella sfera personale, suggeriscono interpretazioni, prese di posizione, confronti. Così l’album viene a definirsi come uno spazio d’incontro. Di culture, di esperienze, di ispirazioni. Un approdo per chi è alla ricerca di un’umanità perduta che, nonostante tutto, vuole ritrovarsi.
Sei cambiata rispetto gli album precedenti? Cosa c’è di nuovo o di diverso?
Ogni album è il frutto di un tempo diverso, e segna inevitabilmente un cambiamento. In questo disco sento di essere arrivata a una maggiore sintesi: c’è dentro di me la stessa curiosità di sempre, ma anche una nuova libertà. Mi sembra di aver trovato un equilibrio tra intimità e apertura verso il mondo. Rispetto ai lavori precedenti, qui c’è forse più coraggio nell’esplorare, nel mescolare. Maggiore libertà. È un album che mi restituisce allo specchio: diversa, più consapevole, ma sempre in cammino”.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato domenica 16 Novembre 2025
Stampato il 16/11/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/kaleidoscope-il-fantasmagorico-universo-musicale-di-ginevra-di-marco/







